Cari fratelli!
Saluto tutti voi che partecipate al XXXV Corso sul Foro interno, organizzato dalla Penitenzieria Apostolica, e ringrazio il Penitenziere Maggiore, il Reggente, i Prelati, gli Officiali e il Personale della Penitenzieria, come pure i Collegi dei Penitenzieri ordinari e straordinari delle Basiliche Papali.
Il corso si svolge durante la Quaresima dell’Anno Santo 2025: tempo di conversione, di penitenza e di accoglienza della misericordia di Dio.
Celebrare la Misericordia, soprattutto con i pellegrini del Giubileo, è un privilegio: Dio ci ha fatti ministri di Misericordia per sua grazia, un dono che accogliamo perché siamo stati, e siamo, noi per primi oggetto del suo perdono.
Cari fratelli, vi esorto ad essere uomini di preghiera, perché nella preghiera affondano le radici della vostra azione ministeriale, con la quale prolungate l’opera di Gesù, che ancora e sempre ripete: «Nemmeno io ti condanno, va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11).
Possa riecheggiare, in tutta la Chiesa, nell’Anno giubilare, questa liberante parola del Signore, per il rinnovamento dei cuori, che sgorga dalla riconciliazione con Dio e apre a nuovi rapporti fraterni.
Anche la pace, tanto desiderata, nasce dalla Misericordia, come la speranza che non delude.
Grazie per il vostro indispensabile ministero sacramentale! La Madonna vi custodisca nell’amore e nella pazienza di Cristo.
Vi benedico di cuore, e vi chiedo per favore di pregare per me.
Dal Vaticano, 27 marzo 2025
FRANCESCO
Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza.
II.
La vita di Gesù.
Gli incontri.
2.
La Samaritana.
«Dammi da bere!» (Gv 4,7)
Cari fratelli e sorelle,
dopo aver meditato sull’incontro di Gesù con Nicodemo, il quale era andato a cercare Gesù, oggi riflettiamo su quei momenti in cui sembra proprio che Lui ci stesse aspettando proprio lì, in quell’incrocio della nostra vita.
Sono incontri che ci sorprendono, e all’inizio forse siamo anche un po’ diffidenti: cerchiamo di essere prudenti e di capire che cosa sta succedendo.
Questa probabilmente è stata anche l’esperienza della donna samaritana, di cui si parla nel capitolo quarto del Vangelo di Giovanni (cfr 4,5-26).
Lei non si aspettava di trovare un uomo al pozzo a mezzogiorno, anzi sperava di non trovare proprio nessuno.
In effetti, va a prendere l’acqua al pozzo in un’ora insolita, quando è molto caldo.
Forse questa donna si vergogna della sua vita, forse si è sentita giudicata, condannata, non compresa, e per questo si è isolata, ha rotto i rapporti con tutti.
Per andare in Galilea dalla Giudea, Gesù avrebbe potuto scegliere un’altra strada e non attraversare la Samaria.
Sarebbe stato anche più sicuro, visti i rapporti tesi tra giudei e samaritani.
Lui invece vuole passare da lì e si ferma a quel pozzo proprio a quell’ora! Gesù ci attende e si fa trovare proprio quando pensiamo che per noi non ci sia più speranza.
Il pozzo, nel Medio Oriente antico, è un luogo di incontro, dove a volte si combinano matrimoni, è un luogo di fidanzamento.
Gesù vuole aiutare questa donna a capire dove cercare la risposta vera al suo desiderio di essere amata.
Il tema del desiderio è fondamentale per capire questo incontro.
Gesù è il primo a esprimere il suo desiderio: «Dammi da bere!» (v.
10).
Pur di aprire un dialogo, Gesù si fa vedere debole, così mette l’altra persona a suo agio, fa in modo che non si spaventi.
La sete è spesso, anche nella Bibbia, l’immagine del desiderio.
Ma Gesù qui ha sete prima di tutto della salvezza di quella donna.
«Colui che chiedeva da bere – dice Sant’Agostino – aveva sete della fede di questa donna».
Se Nicodemo era andato da Gesù di notte, qui Gesù incontra la donna samaritana a mezzogiorno, il momento in cui c’è più luce.
È infatti un momento di rivelazione.
Gesù si fa conoscere da lei come il Messia e inoltre fa luce sulla sua vita.
La aiuta a rileggere in modo nuovo la sua storia, che è complicata e dolorosa: ha avuto cinque mariti e adesso sta con un sesto che non è marito.
Il numero sei non è casuale, ma indica di solito imperfezione.
Forse è un’allusione al settimo sposo, quello che finalmente potrà saziare il desiderio di questa donna di essere amata veramente.
E quello sposo può essere solo Gesù.
Quando si accorge che Gesù conosce la sua vita, la donna sposta il discorso sulla questione religiosa che divideva giudei e samaritani.
Questo capita a volte anche a noi mentre preghiamo: nel momento in cui Dio sta toccando la nostra vita coi suoi problemi, ci perdiamo a volte in riflessioni che ci danno l’illusione di una preghiera riuscita.
In realtà, abbiamo alzato delle barriere di protezione.
Il Signore però è sempre più grande, e a quella donna samaritana, alla quale secondo gli schemi culturali non avrebbe dovuto neppure rivolgere la parola, regala la rivelazione più alta: le parla del Padre, che va adorato in spirito e verità.
E quando lei, ancora una volta sorpresa, osserva che su queste cose è meglio aspettare il Messia, Lui le dice: «Sono io, che parlo con te» (v.
26).
È come una dichiarazione d’amore: Colui che aspetti sono io; Colui che può rispondere finalmente al tuo desiderio di essere amata.
A quel punto la donna corre a chiamare la gente del villaggio, perché è proprio dall’esperienza di sentirsi amati che scaturisce la missione.
E quale annuncio potrà mai aver portato se non la sua esperienza di essere capita, accolta, perdonata? È un’immagine che dovrebbe farci riflettere sulla nostra ricerca di nuovi modi per evangelizzare.
Proprio come una persona innamorata, la samaritana dimentica la sua anfora ai piedi di Gesù.
Il peso di quell’anfora sulla sua testa, ogni volta che tornava a casa, le ricordava la sua condizione, la sua vita travagliata.
Ma adesso l’anfora è deposta ai piedi di Gesù.
Il passato non è più un peso; lei è riconciliata.
Ed è così anche per noi: per andare ad annunciare il Vangelo, abbiamo bisogno prima di deporre il peso della nostra storia ai piedi del Signore, consegnare a Lui il peso del nostro passato.
Solo persone riconciliate possono portare il Vangelo.
Cari fratelli e care sorelle, non perdiamo la speranza! Anche se la nostra storia ci appare pesante, complicata, forse addirittura rovinata, abbiamo sempre la possibilità di consegnarla a Dio e di ricominciare il nostro cammino.
Dio è misericordia e ci attende sempre!
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[1] Omelia 15,11.
Testo preparato dal Santo Padre
Cari fratelli e sorelle, buona domenica!
La parabola che troviamo nel Vangelo di oggi ci parla della pazienza di Dio, che ci sprona a fare della nostra vita un tempo di conversione.
Gesù usa l’immagine di un fico sterile, che non ha portato i frutti sperati e che, tuttavia, il contadino non vuole tagliare: vuole concimarlo ancora per vedere «se porterà frutti per l’avvenire» (Lc 13,9).
Questo contadino paziente è il Signore, che lavora con premura il terreno della nostra vita e attende fiducioso il nostro ritorno a Lui.
In questo lungo tempo di ricovero, ho avuto modo di sperimentare la pazienza del Signore, che vedo anche riflessa nella premura instancabile dei medici e degli operatori sanitari, così come nelle attenzioni e nelle speranze dei familiari degli ammalati.
Questa pazienza fiduciosa, ancorata all’amore di Dio che non viene meno, è davvero necessaria alla nostra vita, soprattutto per affrontare le situazioni più difficili e dolorose.
Mi ha addolorato la ripresa di pesanti bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza, con tanti morti e feriti.
Chiedo che tacciano subito le armi; e si abbia il coraggio di riprendere il dialogo, perché siano liberati tutti gli ostaggi e si arrivi a un cessate il fuoco definitivo.
Nella Striscia la situazione umanitaria è di nuovo gravissima ed esige l’impegno urgente delle parti belligeranti e della comunità internazionale.
Sono lieto invece che l’Armenia e l’Azerbaigian abbiano concordato il testo definitivo dell’Accordo di pace.
Auspico che esso sia firmato quanto prima e possa così contribuire a stabilire una pace duratura nel Caucaso meridionale.
Con tanta pazienza e perseveranza state continuando a pregare per me: vi ringrazio tanto! Anch’io prego per voi.
E insieme imploriamo che si ponga fine alle guerre e si faccia pace, specialmente nella martoriata Ucraina, in Palestina, Israele, Libano, Myanmar, Sudan, Repubblica Democratica del Congo.
La Vergine Maria ci custodisca e continui ad accompagnarci nel cammino verso la Pasqua.
Cari fratelli e sorelle dell’Arcidiocesi di Napoli e di tante altre Diocesi presenti,
saluto voi e i vostri Vescovi in occasione dei Pellegrinaggi giubilari diocesani che state compiendo.
In essi si esprime l'unità che vi raccoglie come comunità attorno ai vostri Pastori e al Vescovo di Roma, nonché l’impegno ad abbracciare l’invito di Gesù ad entrare «per la porta stretta» (Mt 7,13).
L’amore è così: unisce e fa crescere insieme.
Per questo, pur con cammini diversi, vi ha portati qui insieme presso la tomba di Pietro, da cui potrete ripartire ancora più forti nella fede e più uniti nella carità.
In questi giorni ho sentito tanto il sostegno di questa vostra vicinanza, soprattutto attraverso le preghiere con cui mi avete accompagnato.
Perciò, anche se non posso essere fisicamente presente in mezzo a voi, vi esprimo la mia grande gioia nel sapervi uniti a me e tra di voi nel Signore Gesù, come Chiesa.
Vi benedico e prego per voi.
E vi raccomando: anche voi continuate a pregare per me.
Grazie.
FRANCESCO
Dal Policlinico “A.
Gemelli”, 22 marzo 2025
Cari fratelli e sorelle,
vi mando di cuore il mio saluto e alcune indicazioni per il vostro prezioso servizio.
Esso, infatti, è come “ossigeno” per le Chiese locali e le comunità religiose, perché dove c’è un bambino o una persona vulnerabile al sicuro, lì si serve e si onora Cristo.
Nella trama quotidiana del vostro operato – soprattutto negli ambiti più disagiati –, si concretizza una verità profetica: la prevenzione degli abusi non è una coperta da stendere sulle emergenze, ma una delle fondamenta su cui edificare comunità fedeli al Vangelo.
Per questo vi esprimo la mia gratitudine.
Il vostro lavoro non si riduce a protocolli da applicare, ma promuove presidi di protezione: una formazione che educa, dei controlli che prevengono, un ascolto che restituisce dignità.
Quando impiantate pratiche di prevenzione, persino nelle comunità più remote, state scrivendo una promessa: che ogni bambino, ogni persona vulnerabile, troverà nella comunità ecclesiale un ambiente sicuro.
Questo è il motore di quella che dovrebbe essere per noi una conversione integrale.
A voi, oggi, chiedo tre impegni:
1.
Crescere nel lavoro comune con i Dicasteri della Curia romana.
2.
Offrire alle vittime e ai sopravvissuti ospitalità e cura per le ferite dell’anima, nello stile del buon samaritano.
Ascoltare con l’orecchio del cuore, così che ogni testimonianza trovi non registri da compilare, ma viscere di misericordia da cui rinascere.
3.
Costruire alleanze con realtà extra-ecclesiali – autorità civili, esperti, associazioni –, perché la tutela diventi linguaggio universale.
In questi dieci anni avete fatto crescere nella Chiesa una rete di sicurezza.
Andate avanti! Continuate a essere sentinelle che vegliano mentre il mondo dorme.
Che lo Spirito Santo, maestro della memoria viva, ci preservi dalla tentazione di archiviare il dolore invece di sanarlo.
Vi ringrazio del vostro ricordo nella preghiera.
Anch’io vi accompagno e chiedo al Signore e alla Vergine Santa di sostenervi, perché possiate proseguire con dedizione e speranza il cammino intrapreso.
Roma, Policlinico “A.
Gemelli”, 20 marzo 2025.
FRANCESCO
Pellegrini di speranza: il dono della vita
Cari fratelli e sorelle!
In questa LXII Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, desidero rivolgervi un invito gioioso e incoraggiante ad essere pellegrini di speranza donando la vita con generosità.
La vocazione è un dono prezioso che Dio semina nei cuori, una chiamata a uscire da sé stessi per intraprendere un cammino di amore e di servizio.
Ed ogni vocazione nella Chiesa – sia essa laicale o al ministero ordinato o alla vita consacrata – è segno della speranza che Dio nutre per il mondo e per ciascuno dei suoi figli.
In questo nostro tempo, molti giovani si sentono smarriti di fronte al futuro.
Sperimentano spesso incertezza sulle prospettive lavorative e, più a fondo, una crisi d’identità che è crisi di senso e di valori e che la confusione digitale rende ancora più difficile da attraversare.
Le ingiustizie verso i deboli e i poveri, l’indifferenza di un benessere egoista, la violenza della guerra minacciano i progetti di vita buona che coltivano nell’animo.
Eppure il Signore, che conosce il cuore dell’uomo, non abbandona nell’insicurezza, anzi, vuole suscitare in ognuno la consapevolezza di essere amato, chiamato e inviato come pellegrino di speranza.
Per questo, noi membri adulti della Chiesa, specialmente i pastori, siamo sollecitati ad accogliere, discernere e accompagnare il cammino vocazionale delle nuove generazioni.
E voi giovani siete chiamati ad esserne protagonisti, o meglio co-protagonisti con lo Spirito Santo, che suscita in voi il desiderio di fare della vita un dono d’amore.
Accogliere il proprio cammino vocazionale
Carissimi giovani, «la vostra vita non è un “nel frattempo”.
Voi siete l’adesso di Dio» (Esort.
ap.
postsin.
Christus vivit, 178).
È necessario prendere coscienza che il dono della vita chiede una risposta generosa e fedele.
Guardate ai giovani santi e beati che hanno risposto con gioia alla chiamata del Signore: a Santa Rosa di Lima, San Domenico Savio, Santa Teresa di Gesù Bambino, San Gabriele dell’Addolorata, ai Beati – tra poco Santi – Carlo Acutis e Pier Giorgio Frassati e a tanti altri.
Ciascuno di loro ha vissuto la vocazione come cammino verso la felicità piena, nella relazione con Gesù vivo.
Quando ascoltiamo la sua parola, ci arde il cuore nel petto (cfr Lc 24,32) e sentiamo il desiderio di consacrare a Dio la nostra vita! Allora vogliamo scoprire in che modo, in quale forma di vita ricambiare l’amore che Lui per primo ci dona.
Ogni vocazione, percepita nella profondità del cuore, fa germogliare la risposta come spinta interiore all’amore e al servizio, come sorgente di speranza e di carità e non come ricerca di autoaffermazione.
Vocazione e speranza, dunque, si intrecciano nel progetto divino per la gioia di ogni uomo e di ogni donna, tutti chiamati in prima persona ad offrire la vita per gli altri (cfr Esort.
ap.
Evangelii gaudium, 268).
Sono molti i giovani che cercano di conoscere la strada che Dio li chiama a percorrere: alcuni riconoscono – spesso con stupore – la vocazione al sacerdozio o alla vita consacrata; altri scoprono la bellezza della chiamata al matrimonio e alla vita familiare, come pure all’impegno per il bene comune e alla testimonianza della fede tra i colleghi e gli amici.
Ogni vocazione è animata dalla speranza, che si traduce in fiducia nella Provvidenza.
Infatti, per il cristiano, sperare è ben più di un semplice ottimismo umano: è piuttosto una certezza radicata nella fede in Dio, che opera nella storia di ogni persona.
E così la vocazione matura attraverso l’impegno quotidiano di fedeltà al Vangelo, nella preghiera, nel discernimento, nel servizio.
Cari giovani, la speranza in Dio non delude, perché Egli guida ogni passo di chi si affida a Lui.
Il mondo ha bisogno di giovani che siano pellegrini di speranza, coraggiosi nel dedicare la propria vita a Cristo, pieni di gioia per il fatto stesso di essere suoi discepoli-missionari.
Discernere il proprio cammino vocazionale
La scoperta della propria vocazione avviene attraverso un cammino di discernimento.
Questo percorso non è mai solitario, ma si sviluppa all’interno della comunità cristiana e insieme ad essa.
Cari giovani, il mondo vi spinge a fare scelte affrettate, a riempire le giornate di rumore, impedendovi di sperimentare un silenzio aperto a Dio, che parla al cuore.
Abbiate il coraggio di fermarvi, di ascoltare dentro voi stessi e di chiedere a Dio cosa sogna per voi.
Il silenzio della preghiera è indispensabile per “leggere” la chiamata di Dio nella propria storia e per dare una risposta libera e consapevole.
Il raccoglimento permette di comprendere che tutti possiamo essere pellegrini di speranza se facciamo della nostra vita un dono, specialmente al servizio di coloro che abitano le periferie materiali ed esistenziali del mondo.
Chi si mette in ascolto di Dio che chiama non può ignorare il grido di tanti fratelli e sorelle che si sentono esclusi, feriti, abbandonati.
Ogni vocazione apre alla missione di essere presenza di Cristo là dove più c’è bisogno di luce e consolazione.
In particolare, i fedeli laici sono chiamati ad essere “sale, luce e lievito” del Regno di Dio attraverso l’impegno sociale e professionale.
Accompagnare il cammino vocazionale
In tale orizzonte, gli operatori pastorali e vocazionali, soprattutto gli accompagnatori spirituali, non abbiano paura di accompagnare i giovani con la speranzosa e paziente fiducia della pedagogia divina.
Si tratta di essere per loro persone capaci di ascolto e di accoglienza rispettosa; persone di cui possano fidarsi, guide sagge, pronte ad aiutarli e attente a riconoscere i segni di Dio nel loro cammino.
Esorto pertanto a promuovere la cura della vocazione cristiana nei diversi ambiti della vita e dell’attività umana, favorendo l’apertura spirituale di ciascuno alla voce di Dio.
A questo scopo è importante che gli itinerari educativi e pastorali prevedano spazi adeguati di accompagnamento delle vocazioni.
La Chiesa ha bisogno di pastori, religiosi, missionari, coniugi che sappiano dire “sì” al Signore con fiducia e speranza.
La vocazione non è mai un tesoro che resta chiuso nel cuore, ma cresce e si rafforza nella comunità che crede, ama e spera.
E poiché nessuno può rispondere da solo alla chiamata di Dio, tutti abbiamo necessità della preghiera e del sostegno dei fratelli e delle sorelle.
Carissimi, la Chiesa è viva e feconda quando genera nuove vocazioni.
E il mondo cerca, spesso inconsapevolmente, testimoni di speranza, che annuncino con la loro vita che seguire Cristo è fonte di gioia.
Non stanchiamoci dunque di chiedere al Signore nuovi operai per la sua messe, certi che Lui continua a chiamare con amore.
Cari giovani, affido la vostra sequela del Signore all’intercessione di Maria, Madre della Chiesa e delle vocazioni.
Camminate sempre come pellegrini di speranza sulla via del Vangelo! Vi accompagno con la mia benedizione, e vi chiedo per favore di pregare per me.
Roma, Policlinico “A.
Gemelli”, 19 marzo 2025
FRANCESCO
Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025.
Gesù Cristo nostra speranza.
II.
La vita di Gesù.
Gli incontri.
1.
Nicodemo.
«Dovete nascere dall’alto» (Gv 3,7b)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Con questa catechesi iniziamo a contemplare alcuni incontri raccontati nei Vangeli, per comprendere il modo in cui Gesù dona speranza.
In effetti, ci sono incontri che illuminano la vita e portano speranza.
Può accadere, per esempio, che qualcuno ci aiuti a vedere da una prospettiva diversa una difficoltà o un problema che stiamo vivendo; oppure può succedere che qualcuno ci regali semplicemente una parola che non ci fa sentire soli nel dolore che stiamo attraversando.
Ci possono essere a volte anche incontri silenziosi, in cui non si dice niente, eppure quei momenti ci aiutano a riprendere il cammino.
Il primo incontro su cui vorrei fermarmi è quello di Gesù con Nicodemo, narrato nel capitolo 3 del Vangelo di Giovanni.
Comincio da questo episodio perché Nicodemo è un uomo che, con la sua storia, dimostra che è possibile uscire dal buio e trovare il coraggio di seguire Cristo.
Nicodemo va da Gesù di notte: un orario insolito per un incontro.
Nel linguaggio di Giovanni, i riferimenti temporali hanno spesso un valore simbolico: qui la notte è probabilmente quella che c’è nel cuore di Nicodemo.
È un uomo che si trova nel buio dei dubbi, in quell’oscurità che viviamo quando non capiamo più quello che sta avvenendo nella nostra vita e non vediamo bene la strada da seguire.
Se sei nel buio, ovviamente cerchi la luce.
E Giovanni, all’inizio del suo Vangelo, scrive così: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (1,9).
Nicodemo cerca dunque Gesù perché ha intuito che Lui può illuminare il buio del suo cuore.
Tuttavia, il Vangelo ci racconta che Nicodemo non riesce a comprendere subito ciò che Gesù gli dice.
E così vediamo che ci sono tanti fraintendimenti in questo dialogo, e anche tanta ironia, che è una caratteristica dell’evangelista Giovanni.
Nicodemo non capisce quello che Gesù gli dice perché continua a pensare con la sua logica e le sue categorie.
È un uomo con una personalità ben definita, ha un ruolo pubblico, è uno dei capi dei giudei.
Ma probabilmente i conti non gli tornano più.
Nicodemo sente che qualcosa non funziona più nella sua vita.
Avverte il bisogno di cambiare, ma non sa da dove cominciare.
In alcuni passaggi della vita questo succede a tutti noi.
Se non accettiamo di cambiare, se ci chiudiamo nella nostra rigidità, nelle abitudini o nei nostri modi di pensare, rischiamo di morire.
La vita sta nella capacità di cambiare per trovare un modo nuovo di amare.
Gesù parla infatti a Nicodemo di una nuova nascita, che è non solo possibile, ma addirittura necessaria in alcuni momenti del nostro cammino.
A dire il vero, l’espressione usata nel testo è già di per sé ambivalente, perché anōthen (ἄνωθεν) può essere tradotto sia “dall’alto” sia “di nuovo”.
Piano piano, Nicodemo capirà che questi due significati stanno insieme: se lasciamo che lo Spirito Santo generi in noi una vita nuova, nasceremo un’altra volta.
Ritroveremo quella vita, che forse in noi si stava spegnendo.
Ho scelto di iniziare da Nicodemo anche perché è un uomo che, con la sua stessa vita, dimostra che questo cambiamento è possibile.
Nicodemo ce la farà: alla fine egli sarà tra coloro che vanno da Pilato per chiedere il corpo di Gesù (cfr Gv 19,39)! Nicodemo è finalmente venuto alla luce, è rinato, e non ha più bisogno di stare nella notte.
I cambiamenti a volte ci spaventano.
Da una parte ci attraggono, a volte li desideriamo, ma dall’altra preferiremmo rimanere nelle nostre comodità.
Per questo lo Spirito ci incoraggia ad affrontare queste paure.
Gesù ricorda a Nicodemo – che è un maestro in Israele – che anche gli israeliti ebbero paura mentre camminavano nel deserto.
E si fissarono così tanto sulle loro preoccupazioni che a un certo punto quelle paure presero la forma di serpenti velenosi (cfr Nm 21,4-9).
Per essere liberati, dovevano guardare il serpente di rame che Mosè aveva messo su un’asta, dovevano cioè alzare lo sguardo e stare davanti all’oggetto che rappresentava le loro paure.
Solo guardando in faccia quello che ci fa paura, possiamo cominciare a essere liberati.
Nicodemo, come tutti noi, potrà guardare il Crocifisso, Colui che ha sconfitto la morte, la radice di tutte le nostre paure.
Alziamo anche noi lo sguardo verso Colui che hanno trafitto, lasciamoci anche noi incontrare da Gesù.
In Lui troviamo la speranza per affrontare i cambiamenti della nostra vita e nascere di nuovo.
Testo preparato dal Santo Padre
Cari fratelli e sorelle, buona domenica!
Oggi, seconda domenica di Quaresima, il Vangelo ci parla della Trasfigurazione di Gesù (Lc 9,28-36).
Salito in cima a un monte con Pietro, Giacomo e Giovanni, Gesù si immerge nella preghiera e diventa raggiante di luce.
Così mostra ai discepoli che cosa si cela dietro i gesti che Egli compie in mezzo a loro: la luce del suo amore infinito.
Condivido con voi questi pensieri mentre sto affrontando un periodo di prova, e mi unisco a tanti fratelli e sorelle malati: fragili, in questo momento, come me.
Il nostro fisico è debole ma, anche così, niente può impedirci di amare, di pregare, di donare noi stessi, di essere l’uno per l’altro, nella fede, segni luminosi di speranza.
Quanta luce risplende, in questo senso, negli ospedali e nei luoghi di cura! Quanta attenzione amorevole rischiara le stanze, i corridoi, gli ambulatori, i posti dove si svolgono i servizi più umili! Perciò vorrei invitarvi, oggi, a dare con me lode al Signore, che mai ci abbandona e che nei momenti di dolore ci mette accanto persone che riflettono un raggio del suo amore.
Vi ringrazio tutti per le vostre preghiere, e ringrazio coloro che mi assistono con tanta dedizione.
So che pregano per me tanti bambini; alcuni di loro oggi sono venuti qui al “Gemelli” in segno di vicinanza.
Grazie, carissimi bambini! Il Papa vi vuole bene e aspetta sempre di incontrarvi.
Continuiamo a pregare per la pace, specialmente nei Paesi feriti dalla guerra: nella martoriata Ucraina, in Palestina, Israele, Libano, Myanmar, Sudan, Repubblica Democratica del Congo.
E preghiamo per la Chiesa, chiamata a tradurre in scelte concrete il discernimento fatto nella recente Assemblea Sinodale.
Ringrazio la Segreteria Generale del Sinodo, che nei prossimi tre anni accompagnerà le Chiese locali in questo impegno.
La Vergine Maria ci custodisca e ci aiuti ad essere, come Lei, portatori della luce e della pace di Cristo.
Testo preparato dal Santo Padre
Cari fratelli e sorelle,
mercoledì scorso, con il rito delle Ceneri, abbiamo iniziato la Quaresima, l’itinerario penitenziale di quaranta giorni che ci chiama alla conversione del cuore e ci conduce alla gioia della Pasqua.
Impegniamoci perché sia un tempo di purificazione e di rinnovamento spirituale, un cammino di crescita nella fede, nella speranza e nella carità.
Questa mattina, in Piazza San Pietro, è stata celebrata la santa Messa per il mondo del volontariato, che sta vivendo il proprio Giubileo.
Nelle nostre società troppo asservite alle logiche del mercato, dove tutto rischia di essere soggetto al criterio dell’interesse e alla ricerca del profitto, il volontariato è profezia e segno di speranza, perché testimonia il primato della gratuità, della solidarietà e del servizio ai più bisognosi.
A quanti si impegnano in questo campo esprimo la mia gratitudine: grazie per l’offerta del vostro tempo e delle vostre capacità; grazie per la vicinanza e la tenerezza con cui vi prendete cura degli altri, risvegliando in loro la speranza!
Fratelli e sorelle, nel mio prolungato ricovero qui in Ospedale, anch’io sperimento la premura del servizio e la tenerezza della cura, in particolare da parte dei medici e degli operatori sanitari, che ringrazio di cuore.
E mentre sono qui, penso a tante persone che in diversi modi stanno vicino agli ammalati e sono per loro un segno della presenza del Signore.
Abbiamo bisogno di questo, del “miracolo della tenerezza”, che accompagna chi è nella prova portando un po’ di luce nella notte del dolore.
Vorrei ringraziare tutti coloro che mi stanno mostrando la loro vicinanza nella preghiera: grazie di cuore a tutti! Prego anch’io per voi.
E mi unisco spiritualmente a quanti nei prossimi giorni parteciperanno agli Esercizi spirituali della Curia romana.
Insieme continuiamo a invocare il dono della pace, in particolare nella martoriata Ucraina, in Palestina, in Israele, nel Libano e nel Myanmar, in Sudan e nella Repubblica Democratica del Congo.
In particolare, ho appreso con preoccupazione della ripresa di violenze in alcune zone della Siria: auspico che cessino definitivamente, nel pieno rispetto di tutte le componenti etniche e religiose della società, specialmente dei civili.
Vi affido tutti alla materna intercessione della Vergine Maria.
Buona domenica e arrivederci!
Gesù è condotto dallo Spirito nel deserto (Lc 4,1).
Ogni anno, il nostro cammino di Quaresima inizia seguendo il Signore in questo spazio, che Egli attraversa e trasforma per noi.
Quando Gesù entra nel deserto, infatti, accade un cambiamento decisivo: il luogo del silenzio diventa ambiente dell’ascolto.
Un ascolto messo alla prova, perché occorre scegliere a chi dare retta tra due voci del tutto contrarie.
Proponendoci questo esercizio, il Vangelo attesta che il cammino di Gesù inizia con un atto di obbedienza: è lo Spirito Santo, la stessa forza di Dio, che lo conduce dove nulla di buono cresce dalla terra né piove dal cielo.
Nel deserto, l’uomo sperimenta la propria indigenza materiale e spirituale, il bisogno di pane e di parola.
Anche Gesù, vero uomo, ha fame (cfr v.
2) e per quaranta giorni è tentato da una parola che non viene affatto dallo Spirito Santo, bensì da quello malvagio, dal diavolo.
Appena entrati nei quaranta giorni di Quaresima, riflettiamo sul fatto che pure noi siamo tentati, ma non siamo soli: con noi c’è Gesù, che ci apre la via attraverso il deserto.
Il Figlio di Dio fatto uomo non si limita a darci un modello nel combattimento contro il male.
Ben di più: ci dona la forza per resistere ai suoi assalti e perseverare nel cammino.
Consideriamo allora tre caratteristiche della tentazione di Gesù e anche della nostra: l’inizio, il modo, l’esito.
Confrontando queste due esperienze, troveremo sostegno per il nostro itinerario di conversione.
Anzitutto, nel suo inizio la tentazione di Gesù è voluta: il Signore va nel deserto non per spavalderia, per dimostrare quanto è forte, ma per la sua filiale disponibilità verso lo Spirito del Padre, alla cui guida corrisponde con prontezza.
La nostra tentazione, invece, è subita: il male precede la nostra libertà, la corrompe intimamente come un’ombra interiore e un’insidia costante.
Mentre chiediamo a Dio di non abbandonarci nella tentazione (cfr Mt 6,13), ricordiamoci che Egli ha già esaudito questa preghiera mediante Gesù, il Verbo incarnato per restare con noi, sempre.
Il Signore ci è vicino e si prende cura di noi soprattutto nel luogo della prova e del sospetto, cioè quando alza la voce il tentatore.
Costui è padre della menzogna (cfr Gv 8,44), corrotto e corruttore, perché conosce la parola di Dio, ma non la capisce.
Anzi, la distorce: come dai tempi di Adamo, nel giardino dell’Eden (cfr Gen 3,1-5), così fa ora contro il nuovo Adamo, Gesù, nel deserto.
Cogliamo qui il singolare modo col quale Cristo viene tentato, cioè nella relazione con Dio, il Padre suo.
Il diavolo è colui che separa, il divisore, mentre Gesù è colui che unisce Dio e uomo, il mediatore.
Nella sua perversione, il demonio vuole distruggere questo legame, facendo di Gesù un privilegiato: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane» (v.
3).
E ancora: «Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù» (v.
9) dal pinnacolo del Tempio.
Davanti a queste tentazioni Gesù, il Figlio di Dio, decide in che modo essere figlio.
Nello Spirito che lo guida, la sua scelta rivela come vuole vivere la propria relazione filiale col Padre.
Ecco cosa decide il Signore: questo legame unico ed esclusivo con Dio, del quale è l’Unigenito Figlio, diventa una relazione che coinvolge tutti, senza escludere nessuno.
La relazione col Padre è il dono che Gesù condivide nel mondo per la nostra salvezza, non un tesoro geloso (cfr Fil 2,6) da vantare per ottenere successo e attrarre seguaci.
Anche noi veniamo tentati nella relazione con Dio, ma all’opposto.
Il diavolo, infatti, sibila alle nostre orecchie che Dio non è davvero nostro Padre; che in realtà ci ha abbandonati.
Satana mira a convincerci che per gli affamati non c’è pane, tanto meno dalle pietre, né gli angeli ci soccorrono nelle disgrazie.
Semmai, il mondo sta in mano a potenze malvagie, che schiacciano i popoli con l’arroganza dei loro calcoli e la violenza della guerra.
Proprio mentre il demonio vorrebbe far credere che il Signore è lontano da noi, portandoci alla disperazione, Dio viene ancora più vicino a noi, dando la sua vita per la redenzione del mondo.
Ed ecco il terzo aspetto: l’esito delle tentazioni.
Gesù, il Cristo di Dio, vince il male.
Egli respinge il diavolo, che tuttavia tornerà a tentarlo «al momento fissato» (v.
13).
Così dice il Vangelo, e ce ne ricorderemo quando, sul Golgota, ancora una volta sentiremo chiedere a Gesù: «Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce» (Mt 27,40; cfr Lc 23,35).
Nel deserto il tentatore viene sconfitto, ma la vittoria di Cristo non è ancora definitiva: lo sarà nella sua Pasqua di morte e risurrezione.
Mentre ci prepariamo a celebrare il Mistero centrale delle fede, riconosciamo che l’esito della nostra prova è diverso.
Davanti alla tentazione, noi talvolta cadiamo: siamo tutti peccatori.
La sconfitta, però, non è definitiva, perché Dio ci solleva da ogni caduta con il suo perdono, infinitamente grande nell’amore.
La nostra prova non finisce dunque con un fallimento, perché in Cristo veniamo redenti dal male.
Attraversando con Lui il deserto, percorriamo una via dove non ne era tracciata alcuna: Gesù stesso apre per noi questa strada nuova, di liberazione e di riscatto.
Seguendo con fede il Signore, da vagabondi diventiamo pellegrini.
Care sorelle e cari fratelli, vi invito a iniziare così il nostro cammino di Quaresima.
E poiché, lungo la strada, ci occorre quella buona volontà, che lo Spirito Santo sempre sostiene, sono contento di salutare tutti i volontari che oggi sono presenti a Roma per il loro pellegrinaggio giubilare.
Vi ringrazio molto, carissimi, perché sull’esempio di Gesù voi servite il prossimo senza servirvi del prossimo.
Per strada e tra le case, accanto ai malati, ai sofferenti, ai carcerati, coi giovani e con gli anziani, la vostra dedizione infonde speranza a tutta la società.
Nei deserti della povertà e della solitudine, tanti piccoli gesti di servizio gratuito fanno fiorire germogli di umanità nuova: quel giardino che Dio ha sognato e continua a sognare per tutti noi.
[Toccato dai numerosi messaggi di affetto che quotidianamente gli vengono inviati, e grato per le preghiere del popolo di Dio, il Papa ha registrato un breve messaggio audio di ringraziamento.
Pubblichiamo di seguito le parole del Santo Padre Francesco diffuse questa sera all’inizio della preghiera del Santo Rosario in Piazza San Pietro:]
Ringrazio di cuore per le vostre preghiere per la mia salute dalla Piazza, vi accompagno da qui.
Che Dio vi benedica e che la Vergine vi custodisca.
Grazie.
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Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede, 6 marzo 2025
Le sacre ceneri, questa sera, verranno sparse sul nostro capo.
Esse ravvivano in noi la memoria di ciò che siamo, ma anche la speranza di ciò che saremo.
Ci ricordano che siamo polvere, ma ci incamminano verso la speranza a cui siamo chiamati, perché Gesù è disceso nella polvere della terra e, con la sua Risurrezione, ci trascina con sé nel cuore del Padre.
Così si snoda il cammino della Quaresima verso la Pasqua, tra la memoria della nostra fragilità e la speranza che, alla fine della strada, ad attenderci ci sarà il Risorto.
Anzitutto, facciamo memoria.
Riceviamo le ceneri chinando il capo verso il basso, come per guardare a noi stessi, per guardarci dentro.
Le ceneri, infatti, ci aiutano a fare memoria della fragilità e della pochezza della nostra vita: siamo polvere, dalla polvere siamo stati creati e in polvere ritorneremo.
E sono tanti i momenti in cui, guardando la nostra vita personale o la realtà che ci circonda, ci accorgiamo che «è solo un soffio ogni uomo che vive […] come un soffio si affanna, accumula e non sa chi raccolga» (Sal 39,7).
Ce lo insegna soprattutto l’esperienza della fragilità, che sperimentiamo nelle nostre stanchezze, nelle debolezze con cui dobbiamo fare i conti, nelle paure che ci abitano, nei fallimenti che ci bruciano dentro, nella caducità dei nostri sogni, nel constatare come siano effimere le cose che possediamo.
Fatti di cenere e di terra, tocchiamo con mano la fragilità nell’esperienza della malattia, nella povertà, nella sofferenza che a volte piomba improvvisa su di noi e sulle nostre famiglie.
E, ancora, ci accorgiamo di essere fragili quando ci scopriamo esposti, nella vita sociale e politica del nostro tempo, alle “polveri sottili” che inquinano il mondo: la contrapposizione ideologica, la logica della prevaricazione, il ritorno di vecchie ideologie identitarie che teorizzano l’esclusione degli altri, lo sfruttamento delle risorse della terra, la violenza in tutte le sue forme e la guerra tra i popoli.
Sono tutte “polveri tossiche” che offuscano l’aria del nostro pianeta, impediscono la convivenza pacifica, mentre ogni giorno crescono dentro di noi l’incertezza e la paura del futuro.
Da ultimo, questa condizione di fragilità ci richiama il dramma della morte, che nelle nostre società dell’apparenza proviamo a esorcizzare in molti modi e a emarginare perfino dai nostri linguaggi, ma che si impone come una realtà con la quale dobbiamo fare i conti, segno della precarietà e fugacità della nostra vita.
Così, nonostante le maschere che indossiamo e gli artifizi spesso creati ad arte per distrarci, le ceneri ci ricordano chi siamo.
Questo ci fa bene.
Ci ridimensiona, spunta le asprezze dei nostri narcisismi, ci riporta alla realtà, ci rende più umili e disponibili gli uni verso gli altri: nessuno di noi è Dio, siamo tutti in cammino.
La Quaresima, però, è anche un invito a ravvivare in noi la speranza.
Se riceviamo le ceneri col capo chino per ritornare alla memoria di ciò che siamo, il tempo quaresimale non vuole lasciarci a testa bassa ma, anzi, ci esorta a sollevare il capo verso Colui che dagli abissi della morte risorge, trascinando anche noi dalla cenere del peccato e della morte alla gloria della vita eterna.
Le ceneri ci ricordano allora la speranza a cui siamo chiamati perché Gesù, il Figlio di Dio, si è impastato con la polvere della terra, sollevandola fino al cielo.
E negli abissi della polvere Egli è disceso, morendo per noi e riconciliandoci al Padre, così come abbiamo ascoltato dall’Apostolo Paolo: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore» (2Cor 5,21).
Questa, fratelli e sorelle, è la speranza che ravviva la cenere che siamo.
Senza questa speranza siamo destinati a subire passivamente la fragilità della nostra condizione umana e, specialmente dinanzi all’esperienza della morte, sprofondiamo nella tristezza e nella desolazione, finendo per ragionare come gli stolti: «La nostra vita è breve e triste; non c'è rimedio quando l'uomo muore […] il corpo diventerà cenere e lo spirito svanirà come aria sottile» (Sap 2,1-3).
La speranza della Pasqua verso cui ci incamminiamo, invece, ci sostiene nelle fragilità, ci rassicura del perdono di Dio e, anche mentre siamo avvolti dalla cenere del peccato, ci apre alla gioiosa confessione della vita: «Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!» (Gb 19,25).
Ricordiamoci questo: «l’uomo è polvere e in polvere ritornerà, ma è polvere preziosa agli occhi di Dio, perché Dio ha creato l’uomo destinandolo all’immortalità» (Benedetto XVI, Udienza Generale, 17 febbraio 2010).
Fratelli e sorelle, con la cenere sul capo camminiamo verso la speranza della Pasqua.
Convertiamoci a Dio, ritorniamo a Lui con tutto il cuore (cfr.
Gl 2,12), rimettiamo Lui al centro della nostra vita, perché la memoria di ciò che siamo – fragili e mortali come cenere sparsa nel vento – sia finalmente illuminata dalla speranza del Risorto.
E orientiamo verso di Lui la nostra vita, diventando segno di speranza per il mondo: impariamo dall’elemosina a uscire da noi stessi per condividere i bisogni gli uni degli altri e nutrire la speranza di un mondo più giusto; impariamo dalla preghiera a scoprirci bisognosi di Dio o, come diceva Jacques Maritain “mendicanti del cielo”, per nutrire la speranza che dentro le nostre fragilità e alla fine del nostro pellegrinaggio terreno ci aspetta un Padre con le braccia aperte; impariamo dal digiuno che non viviamo soltanto per soddisfare i nostri bisogni, ma che abbiamo fame di amore e di verità, e solo l’amore di Dio e tra di noi riesce davvero a saziarci e a farci sperare in un futuro migliore.
Ci accompagni sempre la certezza che da quando il Signore è venuto nella cenere del mondo, «la storia della terra è storia del cielo.
Dio e l’uomo sono legati ad unico destino» (C.
Carretto, Il deserto nella città, Roma 1986, 55), e Lui spazzerà via per sempre la cenere della morte per farci risplendere di vita nuova.
Con questa speranza nel cuore, mettiamoci in cammino.
E lasciamoci riconciliare con Dio.
Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025.
Gesù Cristo nostra speranza.
I.
L’infanzia di Gesù.
8. «Figlio, perché ci hai fatto questo?» (Lc 2,49). Il ritrovamento di Gesù nel Tempio
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
In quest’ultima catechesi dedicata all’infanzia di Gesù, prendiamo spunto dall’episodio in cui, a dodici anni, Egli rimase nel Tempio senza dirlo ai genitori, i quali lo cercarono ansiosamente e lo ritrovarono dopo tre giorni.
Questo racconto ci presenta un dialogo molto interessante tra Maria e Gesù, che ci aiuta a riflettere sul cammino della madre di Gesù, un cammino non certo facile.
Infatti Maria ha compiuto un itinerario spirituale lungo il quale è avanzata nella comprensione del mistero del suo Figlio.
Ripensiamo alle varie tappe di questo percorso.
All’inizio della sua gravidanza, Maria fa visita a Elisabetta e si ferma da lei per tre mesi, fino alla nascita del piccolo Giovanni.
Poi, quando è ormai al nono mese, a causa del censimento, con Giuseppe va a Betlemme, dove dà alla luce Gesù.
Dopo quaranta giorni si recano a Gerusalemme per la presentazione del bambino; e quindi ogni anno ritornano in pellegrinaggio al Tempio.
Ma con Gesù ancora piccolo si erano rifugiati a lungo in Egitto per proteggerlo da Erode, e solo dopo la morte del re si erano stabiliti di nuovo a Nazaret.
Quando Gesù, divenuto adulto, inizia il suo ministero, Maria è presente e protagonista alle nozze di Cana; poi lo segue “a distanza”, fino all’ultimo viaggio a Gerusalemme, fino alla passione e alla morte.
Dopo la Risurrezione, Maria resta a Gerusalemme, come Madre dei discepoli, sostenendo la loro fede in attesa dell’effusione dello Spirito Santo.
In tutto questo cammino, la Vergine è pellegrina di speranza, nel senso forte che diventa la “figlia del suo Figlio”, la prima sua discepola.
Maria ha portato al mondo Gesù, Speranza dell’umanità: lo ha nutrito, lo ha fatto crescere, lo ha seguito lasciandosi plasmare per prima dalla Parola di Dio.
In essa – come ha detto Benedetto XVI – Maria «è veramente a casa sua, ne esce e vi rientra con naturalezza.
Ella parla e pensa con la Parola di Dio […].
Così si rivela, inoltre, che i suoi pensieri sono in sintonia con i pensieri di Dio, che il suo volere è un volere insieme con Dio.
Essendo intimamente penetrata dalla Parola di Dio, ella può diventare madre della Parola incarnata» (Enc.
Deus caritas est, 41).
Questa singolare comunione con la Parola di Dio non le risparmia però la fatica di un impegnativo “apprendistato”.
L’esperienza dello smarrimento di Gesù dodicenne, durante il pellegrinaggio annuale a Gerusalemme, spaventa Maria al punto che si fa portavoce anche di Giuseppe nel riprendere il figlio: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» (Lc 2,48).
Maria e Giuseppe hanno provato il dolore dei genitori che smarriscono un figlio: credevano entrambi che Gesù fosse nella carovana dei parenti, ma non avendolo visto per un’intera giornata, incominciano la ricerca che li porterà a fare il viaggio a ritroso.
Tornati al Tempio, scoprono che Colui che ai loro occhi, fino a poco prima, era un bambino da proteggere, è come cresciuto di colpo, capace ormai di coinvolgersi in discussioni sulle Scritture, reggendo il confronto con i maestri della Legge.
Di fronte al rimprovero della madre, Gesù risponde con disarmante semplicità: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49).
Maria e Giuseppe non comprendono: il mistero del Dio fatto bambino supera la loro intelligenza.
I genitori vogliono proteggere quel figlio preziosissimo sotto le ali del loro amore; Gesù invece vuole vivere la sua vocazione di Figlio del Padre che sta al suo servizio e vive immerso nella sua Parola.
I Racconti dell’Infanzia di Luca si chiudono, così, con le ultime parole di Maria, che ricordano la paternità di Giuseppe nei confronti di Gesù, e con le prime parole di Gesù, che riconoscono come questa paternità tragga origine da quella del Padre suo celeste, del quale riconosce il primato indiscusso.
Cari fratelli e sorelle, come Maria e Giuseppe, pieni di speranza, mettiamoci anche noi sulle tracce del Signore, che non si lascia contenere dai nostri schemi e si lascia trovare non tanto in un luogo, ma nella risposta d’amore alla tenera paternità divina, risposta d’amore che è la vita filiale.
Care sorelle e cari fratelli del Movimento per la Vita!
Vi ringrazio del vostro ricordo nella preghiera.
Grazie di cuore! Vi saluto tutti, in particolare la Presidente, Signora Marina Casini, e i membri del Direttivo.
Conosco il valore del servizio che rendete alla Chiesa e alla società.
Insieme alla solidarietà concreta, vissuta con lo stile della vicinanza e della prossimità alle mamme in difficoltà per una gravidanza difficile o inattesa, voi promuovete la cultura della vita in senso ampio.
E cercate di farlo con franchezza, amore e tenacia, tenendo strettamente unita la verità alla carità verso tutti.
Vi guidano in questo gli esempi e gli insegnamenti di Carlo Casini, che aveva fatto del servizio alla vita il centro del suo apostolato laicale e del suo impegno politico.
L’occasione che vi ha radunati a Roma è importante: il cinquantesimo anniversario del Movimento per la Vita, il cui primo germoglio è stato il Centro di Aiuto alla Vita nato a Firenze nel 1975.
Da allora, in tutta Italia, i Centri di Aiuto alla Vita si sono moltiplicati.
E ad essi si sono aggiunti le Case di Accoglienza, i servizi SOS Vita, il Progetto Gemma e le Culle per la vita.
Innumerevoli iniziative sono state intraprese per promuovere a tutti i livelli della società la cultura dell’accoglienza e dei diritti dell’uomo.
Perciò vi incoraggio a portare avanti la tutela sociale della maternità e l’accoglienza della vita umana in ogni sua fase.
In questo mezzo secolo, mentre sono diminuiti alcuni pregiudizi ideologici ed è cresciuta tra i giovani la sensibilità per la cura del creato, purtroppo si è diffusa la cultura dello scarto.
Pertanto, c’è ancora e più che mai bisogno di persone di ogni età che si spendano concretamente al servizio della vita umana, soprattutto quando è più fragile e vulnerabile; perché essa è sacra, creata da Dio per un destino grande e bello; e perché una società giusta non si costruisce eliminando i nascituri indesiderati, gli anziani non più autonomi o i malati incurabili.
Care sorelle e cari fratelli, siete venuti da tante parti d’Italia per rinnovare ancora una volta il vostro “sì” alla civiltà dell’amore, consapevoli che liberare le donne dai condizionamenti che le spingono a non dare alla luce il proprio figlio è un principio di rinnovamento della società civile.
È sotto gli occhi di tutti, infatti, come oggi la società sia strutturata sulle categorie del possedere, del fare, del produrre, dell’apparire.
Il vostro impegno, in armonia con quello di tutta la Chiesa, indica una progettualità diversa, che pone al centro la dignità della persona e privilegia chi è più debole.
Il concepito rappresenta, per eccellenza, ogni uomo e donna che non conta, che non ha voce.
Mettersi dalla sua parte significa farsi solidali con tutti gli scartati del mondo.
E lo sguardo del cuore che lo riconosce come uno o una di noi è la leva che muove questa progettualità.
Continuate a scommettere sulle donne, sulla loro capacità di accoglienza, di generosità e di coraggio.
Le donne devono poter contare sul sostegno dell’intera comunità civile ed ecclesiale, e i Centri di Aiuto alla Vita possono diventare un punto di riferimento per tutti.
Vi ringrazio per le pagine di speranza e di tenerezza che aiutate a scrivere nel libro della storia e che rimangono incancellabili: portano e porteranno tanti frutti.
Che il Signore vi benedica e la Vergine Santa vi custodisca.
Affido ciascuno di voi, i vostri gruppi e il vostro impegno all’intercessione di Santa Teresa di Calcutta, presidente spirituale dei Movimenti per la Vita nel mondo.
E non dimenticatevi di pregare per me.
Grazie.
Roma, Policlinico Gemelli, 5 marzo 2025
FRANCESCO
Testo preparato dal Santo Padre
Cari fratelli e sorelle,
nel Vangelo di questa domenica (Lc 6,39-45) Gesù ci fa riflettere su due dei cinque sensi: la vista e il gusto.
Riguardo alla vista, chiede di allenare gli occhi a osservare bene il mondo e giudicare con carità il prossimo.
Dice così: «Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello» (v.
42).
Solo con questo sguardo di cura, non di condanna, la correzione fraterna può essere una virtù.
Perché se non è fraterna, non è una correzione!
Riguardo al gusto, Gesù ci ricorda che «ogni albero si riconosce dal suo frutto» (v.
44).
E i frutti che vengono dall’uomo sono ad esempio le sue parole, che maturano sulle labbra, sicché «la sua bocca esprime ciò che dal cuore sovrabbonda» (v.
45).
I frutti cattivi sono le parole violente, false, volgari; quelli buoni sono le parole giuste e oneste che danno sapore ai nostri dialoghi.
E allora possiamo chiederci: io come guardo le altre persone, che sono miei fratelli e sorelle? E come mi sento guardato da loro? Le mie parole hanno un gusto buono, oppure sono intrise di amarezza e di vanità?
Sorelle e fratelli, vi mando questi pensieri ancora dall’ospedale, dove come sapete mi trovo da diversi giorni, accompagnato dai medici e dagli operatori sanitari, che ringrazio per l’attenzione con cui si prendono cura di me.
Avverto nel cuore la “benedizione” che si nasconde dentro la fragilità, perché proprio in questi momenti impariamo ancora di più a confidare nel Signore; allo stesso tempo, ringrazio Dio perché mi dà l’opportunità di condividere nel corpo e nello spirito la condizione di tanti ammalati e sofferenti.
Vorrei ringraziarvi per le preghiere, che si elevano al Signore dal cuore di tanti fedeli da molte parti del mondo: sento tutto il vostro affetto e la vostra vicinanza e, in questo momento particolare, mi sento come “portato” e sostenuto da tutto il Popolo di Dio.
Grazie a tutti!
Anch’io prego per voi.
E prego soprattutto per la pace.
Da qui la guerra appare ancora più assurda.
Preghiamo per la martoriata Ucraina, per Palestina, Israele, Libano, Myanmar, Sudan, Kivu.
Ci affidiamo fiduciosi a Maria, nostra Madre.
Buona domenica e arrivederci.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Saluto il Padre Abate Primate e il Preside del Pontificio Istituto Liturgico, con i professori e gli studenti che hanno seguito questa seconda edizione del corso per responsabili delle celebrazioni liturgiche episcopali.
Mi rallegra notare che avete nuovamente accolto l’invito formulato nella Lettera Apostolica Desiderio desideravi, continuando a studiare la liturgia, oltre che sotto il profilo teologico, anche nell’ambito della prassi celebrativa.
Tale dimensione tocca la vita del popolo di Dio e gli rivela la sua vera natura spirituale (cfr Cost.
dogm.
Lumen gentium, 9).
Perciò il responsabile delle celebrazioni liturgiche non è soltanto un docente di teologia; non è un rubricista, che applica le norme; non è un sacrestano, che prepara ciò che serve per la celebrazione.
Egli è un maestro posto al servizio della preghiera della comunità.
Mentre insegna umilmente l’arte liturgica, deve guidare tutti coloro che celebrano, scandendo il ritmo rituale e accompagnando i fedeli nell’evento sacramentale.
Come mistagogo, predispone ogni celebrazione con saggezza, per il bene dell’assemblea; traduce in prassi celebrativa i principi teologici espressi nei libri liturgici; affianca e sostiene il Vescovo nel ruolo di promotore e custode della vita liturgica (Caeremoniale Episcoporum, 9).
Così coadiuvato, il pastore può condurre dolcemente tutta la comunità diocesana nell’offerta di sé al Padre, a imitazione di Cristo Signore.
Cari fratelli e sorelle, ogni diocesi guarda al Vescovo e alla Cattedrale come a modelli celebrativi da imitare.
Vi esorto, pertanto, a proporre e favorire uno stile liturgico che esprima la sequela di Gesù evitando inutili sfarzi o protagonismi.
Vi invito a svolgere il vostro ministero nella discrezione, senza vantarvi dei risultati del vostro servizio.
E vi incoraggio a trasmettere questi atteggiamenti ai ministranti, ai lettori e ai cantori, secondo le parole del salmo 115 citate nel Prologo della Regola benedettina: «Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome da’ gloria» (cfr nn.
29-30).
In ogni vostra mansione, non dimenticate che la cura per la liturgia è anzitutto cura per la preghiera, cioè per l’incontro con il Signore.
Proclamando Santa Teresa d’Avila dottore della Chiesa, San Paolo VI ne definiva l’esperienza mistica come un amore che diventa luce e sapienza: sapienza delle cose divine e delle cose umane (cfr Omelia, 27 settembre 1970).
Questa grande maestra della vita spirituale vi sia di esempio: infatti, preparare e guidare le celebrazioni liturgiche significa coniugare tra loro sapienza divina e sapienza umana.
La prima si acquisisce pregando, meditando, contemplando; la seconda viene dallo studio, dall’impegno di approfondire, dalla capacità di mettersi in ascolto.
Per riuscire in questi compiti, vi consiglio di tenere lo sguardo rivolto al popolo, del quale il Vescovo è pastore e padre: questo vi aiuterà a capire le esigenze dei fedeli, come pure le forme e le modalità per favorire la loro partecipazione all’azione liturgica.
Poiché il culto è opera di tutta l’assemblea, l’incontro tra dottrina e pastorale non è una tecnica opzionale, bensì un aspetto costitutivo della liturgia, che deve sempre essere incarnata, inculturata, esprimendo la fede della Chiesa.
Di conseguenza, le gioie e le sofferenze, i sogni e le preoccupazioni del popolo di Dio possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare (cfr Videomessaggio al Congresso internazionale di teologia presso la U.C.A., Buenos Aires, 1-3 settembre 2015).
Mi piace richiamare, a riguardo, quanto scriveva il primo preside del Pontificio Istituto Liturgico, l’Abate benedettino Salvatore Marsili.
Era il 1964: con lungimiranza egli invitava a prendere coscienza del messaggio del Concilio Vaticano II, alla luce del quale non è possibile una vera pastorale senza liturgia, perché la liturgia è il culmine a cui tende tutta l’azione della Chiesa (cfr S.
Marsili, Riforma Liturgica dall’alto, Rivista Liturgica 51 [1964] 77-78).
Invitandovi a fare di queste parole la prospettiva fondamentale del vostro ministero, auguro a ciascuno di avere sempre a cuore il popolo di Dio, che accompagnate nel culto con sapienza e amore.
E non dimenticatevi di pregare per me.
Dal Policlinico “Gemelli”, 26 febbraio 2025
FRANCESCO
Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025.
Gesù Cristo nostra speranza. I. L’infanzia di Gesù. 7.
«I miei occhi hanno visto la tua salvezza» (Lc 2,30).
La presentazione di Gesù al Tempio
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Contempliamo oggi la bellezza di «Gesù Cristo, nostra speranza» (1Tm 1,1) nel mistero della sua presentazione al Tempio.
Nei racconti dell’infanzia di Gesù, l’evangelista Luca ci mostra l’obbedienza di Maria e Giuseppe alla Legge del Signore e a tutte le sue prescrizioni.
In realtà, in Israele non c’era l’obbligo di presentare il bambino al Tempio, ma chi viveva nell’ascolto della Parola del Signore e ad essa desiderava conformarsi, la considerava una prassi preziosa.
Così aveva fatto Anna, madre del profeta Samuele, che era sterile; Dio ascoltò la sua preghiera e lei, avuto il figlio, lo condusse al tempio e lo offrì per sempre al Signore (cfr 1Sam 1,24-28).
Luca dunque racconta il primo atto di culto di Gesù, celebrato nella città santa, Gerusalemme, che sarà la meta di tutto il suo ministero itinerante a partire dal momento in cui prenderà la ferma decisione di salirvi (cfr Lc 9,51), andando incontro al compimento della sua missione.
Maria e Giuseppe non si limitano a innestare Gesù in una storia di famiglia, di popolo, di alleanza con il Signore Dio.
Essi si occupano della sua custodia e della sua crescita, e lo introducono nell’atmosfera della fede e del culto.
E loro stessi crescono gradualmente nella comprensione di una vocazione che li supera di gran lunga.
Nel Tempio, che è «casa di preghiera» (Lc 19,46), lo Spirito Santo parla al cuore di un uomo anziano: Simeone, un membro del popolo santo di Dio preparato all’attesa e alla speranza, che nutre il desiderio del compimento delle promesse fatte da Dio a Israele per mezzo dei profeti.
Simeone avverte nel Tempio la presenza dell’Unto del Signore, vede la luce che rifulge in mezzo ai popoli immersi «nelle tenebre» (cfr Is 9,1) e va incontro a quel bambino che, come profetizza Isaia, «è nato per noi», è il figlio che «ci è stato dato», il «Principe della pace» (Is 9,5).
Simeone abbraccia quel bambino che, piccolo e indifeso, riposa tra le sue braccia; ma è lui, in realtà, a trovare la consolazione e la pienezza della sua esistenza stringendolo a sé.
Lo esprime in un cantico pieno di commossa gratitudine, che nella Chiesa è diventato la preghiera al termine della giornata:
«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo
vada in pace, secondo la tua parola,
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele» (Lc 2,29-32).
Simeone canta la gioia di chi ha visto, di chi ha riconosciuto e può trasmettere ad altri l’incontro con il Salvatore di Israele e delle genti.
È testimone della fede, che riceve in dono e comunica agli altri; è testimone della speranza che non delude; è testimone dell’amore di Dio, che riempie di gioia e di pace il cuore dell’uomo.
Colmo di questa consolazione spirituale, il vecchio Simeone vede la morte non come la fine, ma come compimento, come pienezza, la attende come “sorella” che non annienta ma introduce nella vita vera che egli ha già pregustato e in cui crede.
In quel giorno, Simeone non è l’unico a vedere la salvezza fattasi carne nel bambino Gesù.
Lo stesso succede anche ad Anna, donna più che ottuagenaria, vedova, tutta dedita al servizio del Tempio e consacrata alla preghiera.
Alla vista del bambino, infatti, Anna celebra il Dio d’Israele, che proprio in quel piccolo ha redento il suo popolo, e lo racconta agli altri, diffondendo con generosità la parola profetica.
Il canto della redenzione di due anziani sprigiona così l’annuncio del Giubileo per tutto il popolo e per il mondo.
Nel Tempio di Gerusalemme si riaccende la speranza nei cuori perché in esso ha fatto il suo ingresso Cristo nostra speranza.
Cari fratelli e sorelle, imitiamo anche noi Simeone ed Anna, questi “pellegrini di speranza” che hanno occhi limpidi capaci di vedere oltre le apparenze, che sanno “fiutare” la presenza di Dio nella piccolezza, che sanno accogliere con gioia la visita di Dio e riaccendere la speranza nel cuore dei fratelli e delle sorelle.
Cari Accademici,
è per me sempre un piacere rivolgermi alle donne e agli uomini di scienza, come pure alle persone che nella Chiesa coltivano il dialogo con il mondo scientifico.
Insieme potete servire la causa della vita e il bene comune.
E ringrazio di cuore Mons.
Paglia e i collaboratori per il loro servizio alla Pontificia Accademia per la Vita.
Nell’Assemblea generale di quest’anno vi siete proposti di affrontare la questione che oggi viene definita “policrisi”.
Essa riguarda alcuni aspetti fondamentali della vostra attività di ricerca nel campo della vita, della salute e della cura.
Il termine “policrisi” evoca la drammaticità della congiuntura storica che stiamo vivendo, in cui convergono guerre, cambiamenti climatici, problemi energetici, epidemie, fenomeno migratorio, innovazione tecnologica.
L’intreccio di queste criticità, che toccano contemporaneamente diverse dimensioni della vita, ci induce a interrogarci sul destino del mondo e sulla nostra comprensione di esso.
Un primo passo da compiere è quello di esaminare con maggiore attenzione quale sia la nostra rappresentazione del mondo e del cosmo.
Se non facciamo questo e se non analizziamo seriamente le nostre resistenze profonde al cambiamento, sia come persone sia come società, continueremo a fare ciò che abbiamo fatto con altre crisi, anche recentissime.
Pensiamo alla pandemia da covid: l’abbiamo, per così dire, “sprecata”; avremmo potuto lavorare più a fondo nella trasformazione delle coscienze e delle pratiche sociali (cfr Esort.
ap.
Laudate Deum, 36).
E un altro passo importante per evitare di rimanere immobili, ancorati alle nostre certezze, alle nostre abitudini e alle nostre paure, è ascoltare attentamente il contributo dai saperi scientifici.
Il tema dell’ascolto è decisivo.
È una delle parole-chiave di tutto il processo sinodale che abbiamo avviato e che ora si trova nella sua fase di attuazione.
Apprezzo quindi che il vostro modo di procedere ne riprenda lo stile.
Vedo in esso il tentativo di praticare nel vostro ambito specifico quella “profezia sociale” a cui anche il Sinodo si è dedicato (Doc.
finale, 47).
Nell’incontro con le persone e con le loro storie e nell’ascolto delle conoscenze scientifiche, ci rendiamo conto di quanto i nostri parametri riguardo all’antropologia e alle culture esigano una profonda revisione.
Da qui è nata anche l’intuizione dei gruppi di studio su alcuni temi emersi durante il percorso sinodale.
So che alcuni di voi ne fanno parte, valorizzando pure il lavoro svolto dall’Accademia per la Vita negli anni scorsi, lavoro di cui vi sono molto riconoscente.
L’ascolto delle scienze ci propone continuamente nuove conoscenze.
Consideriamo quanto ci dicono sulla struttura della materia e sull’evoluzione degli esseri viventi: ne emerge una visione molto più dinamica della natura rispetto a quanto si pensava ai tempi di Newton.
Il nostro modo di intendere la “creazione continua” va rielaborato, sapendo che non sarà la tecnocrazia a salvarci (cfr Lett.
enc.
Laudato si’, 101): assecondare una deregulation utilitarista e neoliberista planetaria significa imporre come unica regola la legge del più forte; ed è una legge che disumanizza.
Possiamo citare come esempio di questo tipo di ricerca p.
Teilhard de Chardin e il suo tentativo – certamente parziale e incompiuto, ma audace e ispirante – di entrare seriamente in dialogo con le scienze, praticando un esercizio di trans-disciplinarità.
Un percorso rischioso, che lo conduceva a domandarsi: «Mi chiedo se non sia necessario che qualcuno lanci il sasso nello stagno – finisca anzi per farsi “ammazzare” per aprire il cammino» [1].
Così egli ha lanciato le sue intuizioni che hanno messo al centro la categoria di relazione e l’interdipendenza tra tutte le cose, ponendo homo sapiens in stretta connessione con l’intero sistema dei viventi.
Questi modi di interpretare il mondo e il suo evolversi, con le inedite modalità di relazione che vi corrispondono, possono fornirci dei segni di speranza, dei quali andiamo in cerca come pellegrini durante questo anno giubilare (cfr Bolla Spes non confundit, 7).
La speranza è l’atteggiamento fondamentale che ci sostiene nel cammino.
Essa non consiste nell’attendere con rassegnazione, ma nel protendersi con slancio verso la vita vera, che porta ben oltre lo stretto perimetro individuale.
Come ci ha ricordato Papa Benedetto XVI, la speranza «è legata all’essere nell’unione esistenziale con un “popolo” e può realizzarsi per ogni singolo solo all’interno di questo “noi”» (Lett.
enc.
Spe salvi, 14).
Anche per questa dimensione comunitaria della speranza, davanti a una crisi complessa e planetaria, siamo sollecitati a valorizzare gli strumenti che abbiano una portata globale.
Dobbiamo purtroppo constatare una progressiva irrilevanza degli organismi internazionali, che vengono minati anche da atteggiamenti miopi, preoccupati di tutelare interessi particolari e nazionali.
Eppure dobbiamo continuare a impegnarci con determinazione per «organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria e la difesa certa dei diritti umani fondamentali» (Lett.
enc.
Fratelli tutti, 172).
In tal modo si promuove un multilateralismo che non dipenda dalle mutevoli circostanze politiche o dagli interessi di pochi e che abbia un’efficacia stabile (cfr Esort.
ap.
Laudate Deum, 35).
Si tratta di un compito urgente che riguarda l’umanità intera.
Questo vasto scenario di motivazioni e di obiettivi è anche l’orizzonte della vostra Assemblea e del vostro lavoro, cari membri dell’Accademia per la Vita.
Vi affido all’intercessione di Maria, Sede della Sapienza e Madre della Speranza, «mentre, come popolo pellegrinante, popolo della vita e per la vita, camminiamo fiduciosi verso “un nuovo cielo e una nuova terra” (Ap 21,1)» (S.
Giovanni Paolo II, Lett.
enc.
Evangelium vitae, 105).
Per tutti voi e per il vostro lavoro imparto di cuore la mia benedizione.
Roma, dal Policlinico “Gemelli”, 26 febbraio 2025
FRANCESCO
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[1] Cit.
da B.
DE SOLANGES, Teilhard de Chardin.
Témoignage et étude sur le développement de sa pensée, Toulouse 1967, 54.