Non dica lo straniero che ha aderito al Signore: "Certo mi escluderà il Signore dal suo popolo!".
Non dica l'eunuco: "Ecco, io sono un albero secco!". Poiché così dice il Signore: "Agli eunuchi, che osservano i miei sabati, preferiscono le cose di mio gradimento e restan fermi nella mia alleanza, io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un posto e un nome migliore che ai figli e alle figlie; darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato. Gli stranieri, che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore, e per essere suoi servi, quanti si guardano dal profanare il sabato e restano fermi nella mia alleanza, li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera.
I loro olocausti e i loro sacrifici saliranno graditi sul mio altare, perché il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli".
Del Signore è la terra e quanto contiene, l'universo e i suoi abitanti. È lui che l'ha fondato sui mari, e sui fiumi l'ha stabilito. Chi salirà il monte del Signore, chi starà nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non pronunzia menzogna, chi non giura a danno del suo prossimo. Otterrà benedizione dal Signore, giustizia da Dio sua salvezza. Ecco la generazione che lo cerca, che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.
Perciò ricordatevi che un tempo voi, pagani per nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi perché tali sono nella carne per mano di uomo, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d'Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito.
Un sabato era entrato in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare e la gente stava ad osservarlo. Uno dei commensali, avendo udito ciò, gli disse: «Beato chi mangerà il pane nel regno di Dio!». Gesù rispose: «Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti. All'ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: Venite, è pronto. Ma tutti, all'unanimità, cominciarono a scusarsi.
Il primo disse: Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego, considerami giustificato. Un altro disse: Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego, considerami giustificato. Un altro disse: Ho preso moglie e perciò non posso venire. Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al padrone.
Allora il padrone di casa, irritato, disse al servo: Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui poveri, storpi, ciechi e zoppi. Il servo disse: Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c'è ancora posto. Il padrone allora disse al servo: Esci per le strade e lungo le siepi, spingili a entrare, perché la mia casa si riempia. Perché vi dico: Nessuno di quegli uomini che erano stati invitati assaggerà la mia cena».
Riguardo all'eucaristia, così rendete grazie: Dapprima per il calice: Noi ti rendiamo grazie, Padre nostro, per la santa vigna di Davide tuo servo, che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo Figlio.
A te gloria nei secoli! Poi per il pane spezzato: Ti rendiamo grazie, Padre nostro, per la vita e la conoscenza che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo Figlio.
A te gloria nei secoli! Come questo pane spezzato era sparso qua e là sopra i colli e raccolto divenne una sola cosa, così si raccolga la tua Chiesa nel tuo regno dai confini della terra; perché tua è la gloria e la potenza nei secoli! Dopo che vi sarete saziati, così rendete grazie: Ti rendiamo grazie, Padre santo, per il tuo santo nome che hai fatto abitare nei nostri cuori, e per la conoscenza, la fede e l'immortalità che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo Figlio.
A te gloria nei secoli! Tu, Signore onnipotente, hai creato ogni cosa a gloria del tuo nome; hai dato agli uomini cibo e bevanda a loro conforto, affinché ti rendano grazie; ma a noi hai donato un cibo e una bevanda spirituali e la vita eterna per mezzo del tuo Figlio. Soprattutto ti rendiamo grazie perché sei potente.
A te gloria nei secoli! Ricordati, Signore, della tua Chiesa, di preservarla da ogni male e di renderla perfetta nel tuo amore; santificata, raccoglila dai quattro venti nel tuo Regno che per lei preparasti.
Perché tua è la potenza e la gloria nei secoli! “Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20) e passi questo mondo.
Osanna alla casa di Davide! Chi è santo s'avvicini, chi non lo è si penta. ”Marana tha!”(1 Cor 16,22) Amen.
Poi fatta una colletta, con tanto a testa, per circa duemila dramme d'argento, le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio espiatorio, agendo così in modo molto buono e nobile, suggerito dal pensiero della risurrezione. Perché se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. Ma se egli considerava la magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota.
Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato.
Dal profondo a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce.
Siano i tuoi orecchi attenti alla voce della mia preghiera. Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi potrà sussistere? Ma presso di te è il perdono: e avremo il tuo timore. L'anima mia attende il Signore più che le sentinelle all’aurora. Più che le sentinelle l'aurora, Israele attenda il Signore, perché presso il Signore è la misericordia e grande presso di lui la redenzione.
Ecco io vi annunzio un mistero: non tutti, certo, moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d'occhio, al suono dell'ultima tromba; suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati. È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità. Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d'incorruttibilità e questo corpo mortale d'immortalità, si compirà la parola della Scrittura: La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione? Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!
Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi vuole; il Padre infatti non giudica nessuno ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio, perché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre.
Chi non onora il Figlio, non onora il Padre che lo ha mandato. In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita. In verità, in verità vi dico: è venuto il momento, ed è questo, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio, e quelli che l'avranno ascoltata, vivranno. Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso; e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell'uomo. Non vi meravigliate di questo, poiché verrà l'ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna.
Per quale ragione Cristo sarebbe morto, se non perché doveva risorgere? Infatti, poiché Dio non poteva morire, la Sapienza non poteva morire, e ciò che non può morire non può risorgere.
Ha dunque assunto una carne capace di morire perché la morte, propria della carne, le desse l'occasione di risorgere.
Perciò la risurrezione non poteva aver luogo che da un uomo, "perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti" (1 Co 15,21). L'uomo è risorto perché è l'uomo che è morto.
L'uomo è risorto, ma è Dio che lo risuscita.
Egli era uomo secondo la carne, ora è Dio in tutto; poiché ora "non conosciamo più Cristo alla maniera umana" (2 Co 5,16), ma abbiamo la grazia della sua carne e lo riconosciamo come "primizia di coloro che sono morti" (1 Co 15,20) e "primogenito di quelli che risorgono dai morti" (Col 1,18). Le primizie sono esattamente della stessa specie e natura dei frutti che vengono in seguito.
I primi frutti sono offerti a Dio in vista di una raccolta più abbondante, come offerta sacra per tutti gli altri frutti e come oblazione della natura rinnovata.
Cristo è quindi la "primizia di coloro che sono morti". Ma è unicamente per i suoi, che sono morti come se fossero esenti dalla morte, o per tutti i morti? La Scrittura ci risponde: "Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita" (1 Co 15,22).
Perciò le primizie della morte sono in Adamo e le primizie della risurrezione in Cristo.
Vidi poi un altro angelo che saliva dall'oriente e aveva il sigillo del Dio vivente.
E gridò a gran voce ai quattro angeli ai quali era stato concesso il potere di devastare la terra e il mare: "Non devastate né la terra, né il mare, né le piante, finché non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi". Poi udii il numero di coloro che furon segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila, segnati da ogni tribù dei figli d'Israele: Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua.
Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani. E gridavano a gran voce: "La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all'Agnello". Allora tutti gli angeli che stavano intorno al trono e i vegliardi e i quattro esseri viventi, si inchinarono profondamente con la faccia davanti al trono e adorarono Dio dicendo: "Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli.
Amen". Uno dei vegliardi allora si rivolse a me e disse: "Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono?". Gli risposi: "Signore mio, tu lo sai".
E lui: "Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello.
Canterò senza fine le grazie del Signore, con la mia bocca annunzierò la tua fedeltà nei secoli, I cieli cantano le tue meraviglie, Signore, la tua fedeltà nell'assemblea dei santi. Dio è tremendo nell'assemblea dei santi, grande e terribile tra quanti lo circondano. Chi è uguale a te, Signore, Dio degli eserciti? Sei potente, Signore, e la tua fedeltà ti fa corona. Tuoi sono i cieli, tua è la terra, tu hai fondato il mondo e quanto contiene; Beato il popolo che ti sa acclamare e cammina, o Signore, alla luce del tuo volto:
Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi.
"Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo" (Lv 19,2), ci dice il Signore.
Perché Dio ci dà tale comando? E' che siamo suoi figli e, se il Padre è santo, i figli lo devono essere pure.
Solo i santi possono sperare la beatitudine di gioire della presenza di Dio che è la santità stessa.
Infatti essere cristiano e vivere nel peccato è una mostruosa contraddizione.
Un cristiano deve essere un santo. Sì, questa è la verità che la Chiesa non smette di ripeterci e, per imprimerla nei nostri cuori, ci indica un Dio infinitamente santo, che santifica una moltitudine infinita di santi che sembrano dirci: "Ricordatevi, cristiani, che siete destinati a vedere Dio e a possederlo; ma non avrete questa beatitudine finché non recupererete nella vita mortale la sua immagine in voi, le sue perfezioni e soprattutto la sua santità.
senza la quale nessuno lo vedrà".
Se apparisse al di sopra delle nostre forze la santità di Dio, consideriamo che queste anime beate, questa moltitudine di creature di ogni età, sesso e condizione, sono state soggette alle nostre stesse miserie, esposte agli stessi pericoli, soggette agli stessi peccati, attaccate dagli stessi nemici, circondate dagli stessi ostacoli.
Quanto quelle hanno potuto fare, pure noi lo possiamo, non abbiamo alcuna scusa per dispensarci dal lavorare alla nostra salvezza, cioè a diventare santi.
(...) In conclusione diciamo che se lo vogliamo, possiamo essere santi, poiché mai il buon Dio ci rifiuterà la grazia per aiutarci a diventarlo.
E' nostro padre, nostro Salvatore e nostro amico.
Sospira ardentemente di vederci liberi dai mali della vita.
Vuole colmarci di ogni sorta di beni, dopo averci dato, già in questo mondo, immense consolazioni, anticipo di quelle del cielo che vi auguro.
perché tu tema il Signore tuo Dio osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti dò e così sia lunga la tua vita. Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica; perché tu sia felice e cresciate molto di numero nel paese dove scorre il latte e il miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti dò, ti stiano fissi nel cuore;
Ti amo, Signore, mia forza, Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore. Mio Dio, mia rupe, in cui trovo riparo; mio scudo e baluardo, mia potente salvezza. Invoco il Signore, degno di lode, e sarò salvato dai miei nemici. Viva il Signore e benedetta la mia rupe, sia esaltato il Dio della mia salvezza. Egli concede al suo re grandi vittorie, si mostra fedele al suo consacrato,
Inoltre, quelli sono diventati sacerdoti in gran numero, perché la morte impediva loro di durare a lungo; egli invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore. Tale era infatti il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli; egli non ha bisogno ogni giorno, come gli altri sommi sacerdoti, di offrire sacrifici prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo, poiché egli ha fatto questo una volta per tutte, offrendo se stesso. La legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti all'umana debolezza, ma la parola del giuramento, posteriore alla legge, costituisce il Figlio che è stato reso perfetto in eterno.
In quel tempo, si accostò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele.
Il Signore Dio nostro è l'unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso.
Non c'è altro comandamento più importante di questi». Allora lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v'è altri all'infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio».
E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
L'amore di Dio non si insegna.
Nessuno di noi ha imparato a gioire della luce né a tenere alla vita più di ogni cosa; e nessuno pure ci ha insegnato ad amare coloro che ci hanno messo al mondo o ci hanno cresciuti.
Allo stesso modo, o meglio a maggior ragione, non è un insegnamento esteriore che ci insegna ad amare Dio.
Nella natura stessa dell'essere vivente - voglio dire dell'uomo - si trova come un seme che contiene il principio di questa attitudine ad amare. E' alla scuola dei comandamenti di Dio che tocca raccogliere questo seme, coltivarlo con premura, nutrirlo con cura, e portarlo al suo sviluppo per mezzo della grazia divina.
Finché il Santo Spirito ce ne darà il potere, ci sforzeremo con l'aiuto di Dio e le vostre preghiere di attizzare la scintilla dell'amore divino in voi nascosto.
(...) Con queste forze utilizzate bene e con fedeltà viviamo santamente nella virtù; deviandole dal loro fine, invece, siamo portati verso il male.
Questa infatti è la definizione del vizio: l'uso abusivo e contrario ai comandi del Signore delle facoltà che Dio ci ha date per il bene, di conseguenza la definizione della virtù che Dio esige da noi è: l'uso coscienzioso di quelle facoltà secondo l'ordine del Signore. Detto questo, diremo la stessa cosa della carità.
Ricevendo da Dio il comando dell'amore, abbiamo avuto in possesso subito, fin dall'inizio, la facoltà naturale di amare.
Le anime dei giusti, invece, sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità. Per una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé: li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto. Nel giorno del loro giudizio risplenderanno; come scintille nella stoppia, correranno qua e là. Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli e il Signore regnerà per sempre su di loro. Quanti confidano in lui comprenderanno la verità; coloro che gli sono fedeli vivranno presso di lui nell'amore, perché grazia e misericordia sono riservate ai suoi eletti.
Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò paura? Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò timore? Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore ed ammirare il suo santuario. Ascolta, Signore, la mia voce.
Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi. Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto, Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi. Spera nel Signore, sii forte, si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore.
Fratelli, non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato. Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me. Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. Anch'essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me. E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna».
Per quale ragione Cristo sarebbe morto, se non perché doveva risorgere? Infatti, poiché Dio non poteva morire, la Sapienza non poteva morire, e ciò che non può morire non può risorgere.
Ha dunque assunto una carne capace di morire perché la morte, propria della carne, le desse l'occasione di risorgere.
Perciò la risurrezione non poteva aver luogo che da un uomo, "perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti" (1 Co 15,21). L'uomo è risorto perché è l'uomo che è morto.
L'uomo è risorto, ma è Dio che lo risuscita.
Egli era uomo secondo la carne, ora è Dio in tutto; poiché ora "non conosciamo più Cristo alla maniera umana" (2 Co 5,16), ma abbiamo la grazia della sua carne e lo riconosciamo come "primizia di coloro che sono morti" (1 Co 15,20) e "primogenito di quelli che risorgono dai morti" (Col 1,18). Le primizie sono esattamente della stessa specie e natura dei frutti che vengono in seguito.
I primi frutti sono offerti a Dio in vista di una raccolta più abbondante, come offerta sacra per tutti gli altri frutti e come oblazione della natura rinnovata.
Cristo è quindi la "primizia di coloro che sono morti". Ma è unicamente per i suoi, che sono morti come se fossero esenti dalla morte, o per tutti i morti? La Scrittura ci risponde: "Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita" (1 Co 15,22).
Perciò le primizie della morte sono in Adamo e le primizie della risurrezione in Cristo.
Io, Giovanni, vidi un angelo che saliva dall'oriente e aveva il sigillo del Dio vivente.
E gridò a gran voce ai quattro angeli ai quali era stato concesso il potere di devastare la terra e il mare: "Non devastate né la terra, né il mare, né le piante, finché non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi". Poi udii il numero di coloro che furon segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila, segnati da ogni tribù dei figli d'Israele: Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua.
Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani. E gridavano a gran voce: "La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all'Agnello". Allora tutti gli angeli che stavano intorno al trono e i vegliardi e i quattro esseri viventi, si inchinarono profondamente con la faccia davanti al trono e adorarono Dio dicendo: "Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli.
Amen". Uno dei vegliardi allora si rivolse a me e disse: "Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono?". Gli risposi: "Signore mio, tu lo sai".
E lui: "Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello".
Del Signore è la terra e quanto contiene, l'universo e i suoi abitanti. È lui che l'ha fondata sui mari, e sui fiumi l'ha stabilita. Chi salirà il monte del Signore, chi starà nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non pronunzia menzogna. Otterrà benedizione dal Signore, giustizia da Dio sua salvezza. Ecco la generazione che lo cerca, che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.
Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato.
Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
"Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo" (Lv 19,2), ci dice il Signore.
Perché Dio ci dà tale comando? E' che siamo suoi figli e, se il Padre è santo, i figli lo devono essere pure.
Solo i santi possono sperare la beatitudine di gioire della presenza di Dio che è la santità stessa.
Infatti essere cristiano e vivere nel peccato è una mostruosa contraddizione.
Un cristiano deve essere un santo. Sì, questa è la verità che la Chiesa non smette di ripeterci e, per imprimerla nei nostri cuori, ci indica un Dio infinitamente santo, che santifica una moltitudine infinita di santi che sembrano dirci: "Ricordatevi, cristiani, che siete destinati a vedere Dio e a possederlo; ma non avrete questa beatitudine finché non recupererete nella vita mortale la sua immagine in voi, le sue perfezioni e soprattutto la sua santità.
senza la quale nessuno lo vedrà".
Se apparisse al di sopra delle nostre forze la santità di Dio, consideriamo che queste anime beate, questa moltitudine di creature di ogni età, sesso e condizione, sono state soggette alle nostre stesse miserie, esposte agli stessi pericoli, soggette agli stessi peccati, attaccate dagli stessi nemici, circondate dagli stessi ostacoli.
Quanto quelle hanno potuto fare, pure noi lo possiamo, non abbiamo alcuna scusa per dispensarci dal lavorare alla nostra salvezza, cioè a diventare santi.
(...) In conclusione diciamo che se lo vogliamo, possiamo essere santi, poiché mai il buon Dio ci rifiuterà la grazia per aiutarci a diventarlo.
E' nostro padre, nostro Salvatore e nostro amico.
Sospira ardentemente di vederci liberi dai mali della vita.
Vuole colmarci di ogni sorta di beni, dopo averci dato, già in questo mondo, immense consolazioni, anticipo di quelle del cielo che vi auguro.
Cari fratelli e sorelle, buona domenica!
Il Vangelo della liturgia di oggi (Mc 12,28-34) ci parla di una delle tante discussioni che Gesù ha avuto al tempio di Gerusalemme.
Uno degli scribi si avvicina e lo interroga: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?» (v.
28).
Gesù risponde mettendo insieme due parole fondamentali della legge mosaica: «Amerai il Signore tuo Dio» e «amerai il tuo prossimo» (vv.
30-31).
Con la sua domanda, lo scriba cerca “il primo” dei comandamenti, cioè un principio che sta alla base di tutti i comandamenti; gli ebrei avevano tanti precetti e cercavano la base di tutti, uno che fosse il fondamentale; cercavano di mettersi d’accordo su uno fondamentale, e c’erano discussioni tra loro, discussioni buone perché cercavano la verità.
E questa domanda è essenziale anche per noi, per la nostra vita e per il cammino della nostra fede.
Anche noi, infatti, a volte ci sentiamo dispersi in tante cose e ci chiediamo: ma, alla fine, qual è la cosa più importante di tutte? Dove posso trovare il centro della mia vita, della mia fede? Gesù ci dà la risposta, unendo questi due comandamenti che sono i principali: «Amerai il Signore tuo Dio» e «amerai il tuo prossimo».
E questo è un po’ il cuore della nostra fede.
Tutti noi – lo sappiamo – abbiamo bisogno di ritornare al cuore della vita e della fede, perché il cuore è «la fonte e la radice di tutte le altre forze, convinzioni» (Enc. Dilexit nos, 9).
E Gesù ci dice che la fonte di tutto è l’amore, che non dobbiamo mai separare Dio dall’uomo.
Al discepolo di ogni tempo il Signore dice: nel tuo cammino ciò che conta non sono le pratiche esteriori, come gli olocausti e i sacrifici (v. 33), ma la disposizione del cuore con cui tu ti apri a Dio e ai fratelli nell’amore.
Fratelli e sorelle, noi possiamo fare tante cose, infatti, ma farle solo per noi stessi e senza amore, e questo non va; farle con il cuore distratto oppure con il cuore chiuso, e questo non va.
Tutte le cose devono essere fatte con l’amore.
Il Signore verrà e ci chiederà anzitutto sull’amore: “Come hai amato?” È importante allora fissare nel cuore il comandamento più importante.
Qual è? Ama il Signore tuo Dio e ama il tuo prossimo come te stesso.
E tutti i giorni fare il nostro esame di coscienza e chiederci: l’amore per Dio e per il prossimo è il centro della mia vita? La mia preghiera a Dio mi spinge ad andare verso i fratelli e ad amarli con gratuità? Riconosco nel volto degli altri la presenza del Signore?
La Vergine Maria, che portava la legge di Dio impressa nel suo cuore immacolato, ci aiuti ad amare il Signore e i fratelli.
__________________________________
Dopo l'Angelus
Saluto tutti voi, romani e pellegrini dall’Italia e da altri Paesi!
Saluto le Suore Carmelitane Missionarie dello Spirito Santo, che celebrano i venticinque anni della loro Fraternità secolare; saluto i fedeli di Venezia, Pontassieve, Barberino del Mugello, Empoli e Palermo, e di Santa Maria alle Fornaci in Roma; come pure gli adolescenti di Catanzaro con i loro educatori parrocchiali.
Saluto i donatori di sangue di Coccaglio (Brescia); e il gruppo di Emergency Roma Sud, impegnato a ricordare l’Articolo 11 della Costituzione Italiana, che dice: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
Ricordare questo articolo! Avanti!
E possa questo principio attuarsi in tutto il mondo: la guerra sia bandita e si affrontino le questioni con il diritto e i negoziati.
Tacciano le armi e si dia spazio al dialogo.
Preghiamo per la martoriata Ucraina, la Palestina, Israele, Myanmar, Sud Sudan.
E continuiamo a pregare per Valencia, e le altre comunità della Spagna, che soffrono tanto in questi giorni.
Cosa faccio io per la gente di Valencia? Prego? Offro qualcosa? Pensate a questa domanda.
E auguro a tutti una buona domenica.
E per favore non dimenticatevi di pregare per me.
Buon pranzo e arrivederci.
Preghiera prima della Benedizione finale
Nella visita al camposanto, luogo di riposo dei nostri fratelli e sorelle defunti, rinnoviamo la fede nel Cristo morto, sepolto e risorto per la nostra salvezza.
Anche i corpi mortali si risveglieranno nell’ultimo giorno e coloro che si sono addormentati nel Signore saranno associati a Lui nel trionfo sulla morte.
Con questa certezza, eleviamo al Padre la nostra preghiera unanime di suffragio e di benedizione.
Sii benedetto, o Dio, Padre del Signore Nostro Gesù Cristo, che nella tua grande misericordia ci hai rigenerati mediante la risurrezione di Gesù dai morti a una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe e non marcisce (cfr 1 Pt 1,3-4).
Ascolta la preghiera che rivolgiamo a Te per tutti i nostri cari che hanno lasciato questo mondo.
Apri le braccia della tua misericordia e ricevili nell’assemblea gloriosa della santa Gerusalemme.
Conforta quanti sono nel dolore del distacco, con la certezza che i morti vivono in Te e che anche i corpi, affidati alla terra, saranno un giorno partecipi della vittoria pasquale del tuo Figlio.
Tu, che sul cammino della Chiesa hai posto, quale segno luminoso, la Beata Vergine Maria, per sua intercessione sostieni la nostra fede, perché nessuno ostacolo ci faccia deviare dalla strada che porta a Te, che sei la gloria senza fine.
Per Cristo Nostro Signore.
Amen.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno e buona festa!
Oggi, Solennità di Tutti i Santi, nel Vangelo (cfr Mt 5,1-12) Gesù proclama la carta d’identità del cristiano.
E qual è la carta d’identità del cristiano? Le Beatitudini.
È una carta di identità nostra, e anche la via della santità (cfr Esort.
ap.
Gaudete et exsultate, 63).
Gesù ci mostra un cammino, quello dell’amore, che Lui stesso ha percorso per primo facendosi uomo, e che per noi è ad un tempo dono di Dio e nostra risposta.
Dono e risposta.
È dono di Dio, perché, come dice San Paolo, è Lui che santifica (cfr 1 Cor 6,11).
E per questo è prima di tutto al Signore che noi chiediamo di farci santi, di rendere il nostro cuore simile al suo (cfr Lett.
enc.
Dilexit nos, 168).
Con la sua grazia Lui ci guarisce e ci libera da tutto ciò che ci impedisce di amare come Lui ci ama (cfr Gv 13,34), così che in noi, come diceva il Beato Carlo Acutis, ci sia sempre «meno io per lasciare spazio a Dio».
E questo ci porta al secondo punto: la nostra risposta.
Il Padre dei cieli, infatti, ci offre la sua santità, ma non ce la impone.
La semina in noi, ce ne fa sentire il gusto e vedere la bellezza, ma poi aspetta la nostra risposta.
Lascia a noi la libertà di seguire le sue buone ispirazioni, di lasciarci coinvolgere dai suoi progetti, di fare nostri i suoi sentimenti (cfr Dilexit nos, 179), mettendoci, come Lui ci ha insegnato, al servizio degli altri, con una carità sempre più universale, aperta e rivolta a tutti, al mondo intero.
Tutto questo lo vediamo nella vita dei santi, anche nel nostro tempo.
Pensiamo, ad esempio, a San Massimiliano Kolbe, che ad Auschwitz chiese di prendere il posto di un padre di famiglia condannato a morte; o a Santa Teresa di Calcutta, che spese la sua esistenza al servizio dei più poveri tra i poveri; o al Vescovo Sant’Oscar Romero, assassinato sull’altare per aver difeso i diritti degli ultimi contro i soprusi dei prepotenti.
E così possiamo fare la lista di tanti santi, tanti: quelli che veneriamo sugli altari e altri, che a me piace chiamare i santi “della porta accanto”, quelli di tutti i giorni, nascosti, che portano avanti la loro vita cristiana quotidiana.
Fratelli e sorelle, quanta santità nascosta c’è nella Chiesa! Riconosciamo tanti fratelli e sorelle plasmati dalle Beatitudini: poveri, miti, misericordiosi, affamati e assetati di giustizia, operatori di pace.
Sono persone “piene di Dio”, incapaci di restare indifferenti ai bisogni del prossimo; sono testimoni di cammini luminosi, possibili anche per noi.
Domandiamoci adesso: io chiedo a Dio, nella preghiera, il dono di una vita santa? Mi lascio guidare dai buoni impulsi che il suo Spirito suscita in me? E mi impegno in prima persona a praticare le Beatitudini del Vangelo, negli ambienti in cui vivo?
Maria, Regina di tutti i Santi, ci aiuti a fare della nostra vita un cammino di santità.
__________________
Dopo l'Angelus
Cari fratelli e sorelle!
Esprimo la mia vicinanza al popolo del Ciad, in particolare alle famiglie delle vittime del grave attentato terroristico di alcuni giorni fa, come pure a quanti sono stati colpiti dalle alluvioni.
E a proposito di queste catastrofi ambientali, preghiamo per le popolazioni della penisola iberica, specialmente della comunità valenciana, travolte dalla tempesta “DANA”: per i defunti e i loro cari, e per tutte le famiglie danneggiate.
Il Signore sostenga chi soffre e chi porta soccorso.
La nostra vicinanza al popolo di Valencia.
Saluto con affetto tutti voi, pellegrini dei vari Paesi, famiglie, gruppi parrocchiali, associazioni e scolaresche.
In particolare i fedeli provenienti da Rignac (Francia).
E saluto i partecipanti alla “Corsa dei Santi”, organizzata dalla Fondazione Missioni Don Bosco.
Cari amici, anche quest’anno ci ricordate che la vita cristiana è una corsa, ma non come corre il mondo, no! È la corsa di un cuore che ama! E grazie del vostro sostegno alla costruzione di un centro sportivo in Ucraina.
Preghiamo per la martoriata Ucraina, preghiamo per la Palestina, Israele, il Libano, il Myanmar, il Sudan, e per tutti i popoli che soffrono per le guerre.
Fratelli e sorelle, la guerra è sempre una sconfitta, sempre! Ed è ignobile, perché è il trionfo della menzogna, della falsità: si cerca il massimo interesse per sé e il massimo danno per l’avversario, calpestando vite umane, ambiente, infrastrutture, tutto; e tutto mascherato di menzogne.
E soffrono gli innocenti! Penso alle 153 donne e bambini massacrati, nei giorni scorsi a Gaza.
Domani sarà l’annuale Commemorazione di tutti i fedeli defunti.
Chi può in questi giorni va a pregare sulla tomba dei propri cari.
Anch’io domani mattina andrò a celebrare la Messa nel Cimitero Laurentino di Roma.
Non dimentichiamolo: l’Eucaristia è la più grande e la più efficace preghiera per le anime dei defunti.
Auguro a tutti una buona festa in compagnia dei Santi.
Saluto tutti voi, saluto i ragazzi dell’Immacolata che sono bravi! E per favore, non dimenticatevi di pregare per me.
Buona festa! Buon pranzo e arrivederci.
Cari fratelli e sorelle del Dicastero della Comunicazione, benvenuti tutti!
Saluto il Prefetto, Dottor Ruffini, e gli altri Dirigenti; saluto i Cardinali e i Vescovi presenti e tutti voi che formate questa grande comunità di lavoro.
Nella liturgia odierna si legge questa esortazione: «State saldi, dunque: attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace» (Ef 6,14-15).
Potrebbe essere anche l’identikit del buon comunicatore, non vi pare?
In effetti, la vostra è una vocazione, è una missione! Con il vostro lavoro e la vostra creatività, con l’uso intelligente dei mezzi che la tecnologia mette a disposizione, ma soprattutto con il vostro cuore: si comunica con il cuore.
Siete chiamati a un compito grande ed entusiasmante: quello di costruire ponti, quando tanti innalzano muri, i muri delle ideologie; quello di favorire la comunione, quando tanti fomentano divisione; quello di lasciarsi coinvolgere dai drammi del nostro tempo, quando tanti preferiscono l’indifferenza.
Questa cultura dell’indifferenza, questa cultura del “lavarsi le mani”: “non tocca a me, che si arrangino”.
Questo fa tanto male!
In questi giorni della vostra Plenaria vi siete chiesti come favorire una comunicazione che sia “costitutivamente sinodale”.
Il Sinodo sulla sinodalità che abbiamo appena concluso diventa ora un cammino ordinario che deve farsi strada – un cammino che viene dal tempo in cui San Paolo VI ha creato il Segretariato per il Sinodo dei Vescovi –; diventa lo stile col quale nella Chiesa viviamo la comunione, uno stile sinodale.
In ogni espressione della nostra vita comunitaria, siamo chiamati a riverberare quell’amore divino che in Cristo ci ha attratto e ci attrae.
Ed è questo che caratterizza l’appartenenza ecclesiale: se ragionassimo e agissimo secondo categorie politiche, o aziendalistiche, non saremmo Chiesa.
Questo non va! Se applicassimo criteri mondani o se riducessimo le nostre strutture a burocrazia, non saremmo Chiesa.
Essere Chiesa significa vivere nella coscienza che il Signore ci ama per primo, ci chiama per primo, ci perdona per primo (cfr Rm 5,8).
E noi siamo testimoni di questa misericordia infinita, che è stata gratuitamente riversata su di noi cambiando la nostra vita.
Ora potreste domandarmi: ma che cosa c’entra tutto questo con il nostro lavoro di comunicatori, di giornalisti? C’entra, e molto! Proprio in quanto comunicatori, infatti, siete chiamati a tessere la comunione ecclesiale con la verità attorno ai fianchi, la giustizia come corazza, i piedi calzati e pronti a propagare il Vangelo della pace.
Permettetemi di raccontarvi il mio sogno.
Sogno una comunicazione che riesca a connettere persone e culture.
Sogno una comunicazione capace di raccontare e valorizzare storie e testimonianze che accadono in ogni angolo del mondo, mettendole in circolo e offrendole a tutti.
Per questo sono contento di sapere che – nonostante le difficoltà economiche e l’esigenza di ridurre le spese, ne parlerò dopo di questo – vi siete ingegnati per aumentare l’offerta delle oltre cinquanta lingue con cui comunicano i media vaticani, aggiungendo le lingue Lingala, Mongola e Kannada.
Sogno una comunicazione fatta da cuore a cuore, lasciandoci coinvolgere da ciò che è umano, lasciandoci ferire dai drammi che vivono tanti nostri fratelli e sorelle.
Per questo vi invito a uscire di più, a osare di più, a rischiare di più non per diffondere le vostre idee, ma per raccontare con onestà e passione la realtà.
Sogno una comunicazione che sappia andare oltre gli slogan e tenere accesi i riflettori sui poveri, sugli ultimi, sui migranti, sulle vittime della guerra.
Una comunicazione che favorisca l’inclusione, il dialogo, la ricerca della pace.
Quanta urgenza c’è di dare spazio agli operatori di pace! Non stancatevi di raccontare le loro testimonianze, in ogni parte del mondo.
Sogno una comunicazione che educhi a rinunciare un po’ a sé per fare spazio all’altro; una comunicazione appassionata, curiosa, competente, che sappia immergersi nella realtà per poterla raccontare.
Ci fa bene ascoltare storie dal sapore evangelico, che oggi come duemila anni fa ci parlano di Dio così come Gesù, suo Figlio, lo ha rivelato al mondo.
Fratelli e sorelle, non abbiate paura di coinvolgervi, di cambiare, di imparare linguaggi nuovi, di percorrere nuove strade, di abitare l’ambiente digitale.
Fatelo sempre senza lasciarvi assorbire dagli strumenti che usate, senza far diventare “messaggio” lo strumento, senza banalizzare, senza “surrogare” nell’incontro in rete le relazioni umane vere, concrete, da persona a persona.
Il Vangelo è storia di incontri, di gesti, di sguardi, di dialoghi per strada e a tavola.
Sogno una comunicazione che sappia testimoniare oggi la bellezza degli incontri con la samaritana, con Nicodemo, con l’adultera, con il cieco Bartimeo...
Gesù, come ho scritto nella nuova Enciclica Dilexit nos, «presta tuttala sua attenzione alle persone, alle loro preoccupazioni, alle loro sofferenze» (n.
40).
Noi comunicatori siamo chiamati a fare lo stesso, perché incontrando l’amore, l’amore di Gesù, «diventiamo capaci di tessere legami fraterni, di riconoscere la dignità di ogni essere umano e di prenderci cura insieme della nostra casa comune» (ibid.).
Aiutatemi, per favore, a far conoscere al mondo il Cuore di Gesù, attraverso la compassione per questa terra ferita.
Aiutatemi, con la comunicazione, a far sì che il mondo, «che sopravvive tra le guerre, gli squilibri socioeconomici, il consumismo e l’uso anti-umano della tecnologia, possa recuperare ciò che è più importante e necessario: il cuore» (Dilexit nos, 31).
Aiutatemi con una comunicazione che è strumento per la comunione.
Nonostante il mondo sia squassato da terribili violenze, noi cristiani sappiamo guardare alle tante fiammelle di speranza, alle tante piccole e grandi storie di bene.
Siamo certi che il male non vincerà, perché è Dio che guida la storia e salva le nostre vite.
Vorrei anche menzionare la Signora Gloria Fontana [applausi].
Oggi è il tuo ultimo giorno di lavoro, spero che ti facciano una festa! Dopo ben 48 anni di servizio: è entrata il giorno della Prima Comunione, credo.
Ha fatto un grande servizio nel nascondimento, dedicandosi a trascrivere i discorsi del Papa.
E vorrei dirvi una cosa: dovremo fare ancora un po’ più di disciplina sui soldi.
Voi dovete trovare il modo di risparmiare di più e cercare altri fondi, perché la Santa Sede non può continuare ad aiutarvi come adesso.
So che è una brutta notizia, ma è anche una bella notizia perché muove la creatività di tutti voi.
Il Giubileo, che inizieremo fra qualche settimana, è una grande occasione per testimoniare al mondo la nostra fede e la nostra speranza.
Vi ringrazio fin d’ora per tutto ciò che farete, per l’impegno del Dicastero nell’aiutare sia i pellegrini che verranno a Roma, sia chi non potrà viaggiare, ma grazie ai media vaticani potrà seguire le celebrazioni giubilari sentendosi unito a noi.
Grazie, grazie tante!
Benedico di cuore tutti voi e il vostro lavoro.
E per favore, non dimenticatevi di pregare per me.
Grazie!
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Vi accolgo con piacere in occasione dell’undicesimo Congresso nazionale del Movimento di Impegno Educativo di Azione Cattolica.
Saluto la Presidenza, l’Assistente e tutti voi, e vi ringrazio per la scelta, mai scontata, di essere e fare associazione nella Chiesa.
Il servizio educativo che definisce il vostro Movimento porta con sé, oggi forse più ancora che nel passato, la sfida di operare sul piano umano e cristiano.
Educare – come voi ben sapete e testimoniate – significa anzitutto riscoprire e valorizzare la centralità della persona in un contesto relazionale dove la dignità della vita umana trovi compimento e adeguati spazi per crescere.
Il Progetto formativo dell’Azione Cattolica Italiana si sviluppa secondo una visione organica e sistematica della missione educativa.
A tale compito – fin dall’Assemblea costituente del 1990, quando avete raccolto l’eredità del Movimento Maestri Cattolici – vi siete dedicati con creatività, con attenzione ai segni dei tempi e lasciandovi sempre illuminare dal Vangelo.
Questa azione educativa l’avete portata avanti cercando di rimanere ben radicati nei territori, con spirito di collaborazione con le Chiese locali e con le altre realtà del laicato cattolico.
In questo cambiamento d’epoca, in mezzo al processo di secolarizzazione – che è chiaro: si vede chiaro come lo spirito di questo mondo –, l’attività educativa si trova immersa in un orizzonte pressoché inedito.
L’educazione cristiana attraversa terreni inesplorati, segnati da mutamenti di tipo antropologico e culturale, sui quali stiamo ancora cercando risposte alla luce della Parola di Dio.
Nel contempo raccogliamo le esperienze positive che ci trasmettono molte famiglie, le scuole, le comunità parrocchiali, le associazioni e la stessa pedagogia.
Ci sono tante cose urgenti oggi, ma una di queste è – per usare una vostra espressione – essere «educatori dal cuore grande ...
nei labirinti della complessità».
E voi sapete come si esce da un labirinto? Mai soli, mai.
E, secondo, dall’alto.
Da un labirinto si esce dall’alto e mai soli.
Pensate un po’ a questo.
Educatori dal cuore grande per il bene dei ragazzi, dei giovani e degli adulti che vivono accanto a voi.
Siete chiamati ad allargare il cuore – non si può avere un cuore ristretto: allargare il cuore –, a non aver paura di proporre ideali alti, senza scoraggiarvi di fronte alle difficoltà.
Le difficoltà ci sono e tante.
E per non perdere il filo in questi “labirinti della complessità” è importante non restare da soli, ma costruire e rinsaldare i rapporti proficui con i diversi soggetti del processo educativo: le famiglie, gli insegnanti, gli animatori sociali, i dirigenti e preparatori sportivi, i catechisti, i sacerdoti, le religiose e i religiosi, senza trascurare la collaborazione con le pubbliche istituzioni.
E coinvolgere i ragazzi, perché i ragazzi entrano: non devono essere passivi nel processo educativo, devono essere attivi!
Nel Congresso che state vivendo in questi giorni avete rinnovato l’impegno di portare avanti un’idea e una prassi di educazione che metta effettivamente al centro la persona, il suo imprescindibile valore e la sua originaria dignità, perché sia sempre e comunque considerata il fine e mai ridotta a un mezzo, per nessun motivo.
Un’educazione – come dice il vostro progetto – «che aiuti a rientrare in sé stessi, a coltivare l’interiorità, la trascendenza, la spiritualità, come elementi imprescindibili per lo sviluppo integrale della persona umana, in tutte le sue dimensioni: spirituale, esistenziale, affettiva, culturale, sociale, politica».
È proprio questa la prospettiva giusta in cui proseguire il cammino del vostro Movimento.
E andate avanti! Non scoraggiatevi.
Guardando poi al prossimo Giubileo, tempo per seminare speranza – perché di speranza abbiamo un bisogno vitale tutti noi –, vorrei lasciarvi un’ultima consegna: abbiate un’attenzione speciale per i bambini, gli adolescenti, i giovani.
A loro dobbiamo guardare con fiducia, con empatia, vorrei dire con lo sguardo e con il cuore di Gesù.
Sono il presente e il futuro del mondo e della Chiesa.
A noi il compito – tutto educativo – di accompagnarli, sostenerli, incoraggiarli e, con la testimonianza, di indicare loro la buona strada che porta a essere “fratelli tutti”.
“Chi ama educa” – non dimenticatevi questo – come titolava un libro promosso dall’Azione Cattolica pochi anni fa: è un criterio, intelligente e carico di speranza, da tenere presente in ogni vostra attività.
Attraverso i processi educativi esprimiamo il nostro amore per l’altro, per chi è vicino o ci è affidato; e, al contempo, è essenziale che l’educazione sia fondata, nel suo metodo e nelle sue finalità, sull’amore.
Senza amore non si può educare.
Educare sempre con amore!
Vi affido all’intercessione del Venerabile Giuseppe Lazzati, maestro e testimone credibile, modello di educatore cristiano al quale ispirarsi.
Grazie della vostra visita! Vi benedico di cuore.
E per favore non dimenticatevi di pregare per me.
Grazie.
Il testo qui di seguito include anche parti non lette che sono date ugualmente come pronunciate.
Ciclo di Catechesi.
Lo Spirito e la Sposa.
Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza. 11.
“Ci ha conferito l’unzione e ci ha impresso il sigillo”.
La Cresima, sacramento dello Spirito Santo
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi proseguiamo la riflessione sulla presenza e l’azione dello Spirito Santo nella vita della Chiesa mediante i Sacramenti.
L’azione santificatrice dello Spirito Santo giunge a noi anzitutto attraverso due canali: la Parola di Dio e i Sacramenti.
E tra tutti i Sacramenti, ce n’è uno che è, per antonomasia, il Sacramento dello Spirito Santo, ed è su di esso che vorrei soffermarmi oggi.
Si tratta del Sacramento della Cresima o della Confermazione.
Nel Nuovo Testamento, oltre il battesimo con l’acqua, si trova menzionato un altro rito, quello della imposizione delle mani, che ha lo scopo di comunicare visibilmente e in modo carismatico lo Spirito Santo, con effetti analoghi a quelli prodotti sugli Apostoli a Pentecoste.
Gli Atti degli Apostoli riferiscono un episodio significativo a questo riguardo.
Avendo saputo che in Samaria alcuni avevano accolto la parola di Dio, da Gerusalemme inviarono Pietro e Giovanni.
«Essi scesero – dice il testo – e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora disceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù.
Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo» (8,14-17).
A ciò si aggiunge quello che San Paolo scrive nella Seconda Lettera ai Corinzi: «È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori» (1,21-22).
La caparra dello Spirito. Il tema dello Spirito Santo come “sigillo regale” con cui Cristo contrassegna le sue pecorelle è alla base della dottrina del “carattere indelebile” conferito da questo rito.
Con il passare del tempo, il rito dell’unzione si configurò come Sacramento a sé stante, assumendo forme e contenuti diversi nelle varie epoche e nei diversi riti della Chiesa.
Non è qui il luogo per ripercorrere questa storia assai complessa.
Quello che il Sacramento della Cresima è nella comprensione della Chiesa, mi sembra descritto, in modo semplice e chiaro, dal Catechismo degli adulti della Conferenza Episcopale Italiana.
Esso dice così: «La confermazione è per ogni fedele ciò che per tutta la Chiesa è stata la Pentecoste.
[…] Essa rafforza l’incorporazione battesimale a Cristo e alla Chiesa e la consacrazione alla missione profetica, regale e sacerdotale.
Comunica l’abbondanza dei doni dello Spirito [...].
Se dunque il battesimo è il sacramento della nascita, la cresima è il sacramento della crescita.
Per ciò è anche il sacramento della testimonianza, perché questa è strettamente legata alla maturità dell’esistenza cristiana».
Il problema è come fare perché il Sacramento della Cresima non si riduca, in pratica, a una “estrema unzione”, cioè al sacramento della “dipartita” dalla Chiesa.
Si dice che è il “sacramento dell’addio”, perché una volta che i giovani la fanno se ne vanno, e torneranno poi per il matrimonio.
Così dice la gente.
Ma dobbiamo far sì che sia il sacramento dell’inizio di una partecipazione attiva alla vita della Chiesa.
È un traguardo che ci può sembrare impossibile vista la situazione in atto un po’ in tutta la Chiesa, ma non per questo dobbiamo smettere di perseguirlo.
Non sarà così per tutti i cresimandi, ragazzi o adulti, ma è importante che lo sia almeno per alcuni che poi saranno gli animatori della comunità.
Può servire, a questo scopo, farsi aiutare, nella preparazione al Sacramento, da fedeli laici che hanno avuto un incontro personale con Cristo e hanno fatto una vera esperienza dello Spirito.
Alcune persone dicono di averla vissuta come uno sbocciare in loro del Sacramento della Cresima ricevuto da ragazzi.
Ma questo non riguarda solo i futuri cresimandi; riguarda tutti noi e in ogni momento.
Insieme con la confermazione e l’unzione, abbiamo ricevuto, ci ha assicurato l’Apostolo, anche la caparra dello Spirito che altrove chiama “le primizie dello Spirito” (Rm 8,23).
Dobbiamo “spendere” questa caparra, gustare queste primizie, non seppellire sotto terra i carismi e i talenti ricevuti.
San Paolo esortava il discepolo Timoteo a «ravvivare il dono di Dio, ricevuto mediante l’imposizione delle mani» (2 Tm 1,6), e il verbo usato suggerisce l’immagine di chi soffia sul fuoco per ravvivarne la fiamma.
Ecco un bel traguardo per l’anno giubilare! Rimuovere la cenere dell’abitudine e del disimpegno, diventare, come i tedofori alle Olimpiadi, portatori della fiamma dello Spirito.
Che lo Spirito ci aiuti a muovere qualche passo in questa direzione!
__________________
[1] La verità vi farà liberi.
Catechismo degli adulti.
Libreria Editrice Vaticana 1995, p.
324.
______________________________
Saluti
Je salue cordialement les pèlerins de langue française, en particulier les groupes venus, de la Guadeloupe et des diocèses de Paris, Belfort-Montbéliard et de Laval.
Ravivons-en nous le don de l’Esprit, que nous avons reçu à la confirmation, pour témoigner à nos contemporains, par nos vies, de l’amour de Dieu pour tout homme.
Que Dieu vous bénisse.
[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese, in particolare i gruppi provenienti, da La Guadeloupe e dalle diocesi di Parigi, Belfort-Montbéliard e di Laval.
Riaccendiamo in noi il dono dello Spirito, che abbiamo ricevuto nella Cresima, per testimoniare ai nostri contemporanei, attraverso le nostre vite, l’amore di Dio per tutti gli uomini. Dio vi benedica.]
I greet all the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, particulary the groups from England, Australia, South Korea, Sri Lanka, Canada and the United States of America. Upon all of you, and upon your families, I invoke the joy and peace of our Lord Jesus Christ.
God bless you!
[Do il benvenuto ai pellegrini di lingua inglese presenti all’odierna Udienza, specialmente ai gruppi provenienti da Inghilterra, Australia, Corea del Sud, Sri Lanka, Canada e Stati Uniti d'America. Su tutti voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace del Signore nostro Gesù Cristo. Dio vi benedica!]
Liebe Gläubige deutscher Sprache, ich grüße euch alle, besonders die Jugendlichen aus den kroatischen Gemeinden Geislingen und Göppingen, die vor kurzem das Sakrament der Firmung empfangen haben.
Der Heilige Geist, der Herr ist und lebendig macht, entflamme eure Herzen und mache euch zu freudigen Zeugen für Christus.
[Cari fedeli di lingua tedesca, saluto tutti voi, in particolare i giovani delle comunità croate di Geislingen e Göppingen, che hanno recentemente ricevuto il Sacramento della Cresima.
Lo Spirito Santo, che è il Signore e dà la vita, infiammi i vostri cuori e vi renda testimoni gioiosi per Cristo.]
Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española.
Pidamos al Espíritu Santo que reavive el fuego del amor en nuestros corazones y nos impulse a dar un testimonio jubiloso de su presencia en nuestras vidas.
Que Jesús los bendiga y la Virgen Santa los cuide.
Muchas gracias.
Saúdo os fiéis de língua portuguesa, de modo especial, os peregrinos vindos da Diocese de Belém do Pará (Brasil).
Que a vossa presença em Roma seja uma ocasião propícia para reavivar o dom de Deus que recebestes e para reacender o entusiasmo de ser missionários, portadores da chama do Espírito.
Deus vos abençoe e Nossa Senhora vos proteja!
[Saluto i fedeli di lingua portoghese, in modo speciale, i pellegrini provenienti dalla Diocesi di Belém do Pará (Brasile).
La vostra presenza a Roma sia occasione propizia per ravvivare il dono di Dio che avete ricevuto e per riaccendere l’entusiasmo di essere missionari, portatori della fiamma dello Spirito.
Dio vi benedica e la Madonna vi custodisca!]
أُحَيِّي المُؤمِنينَ النَّاطِقينَ باللغَةِ العربِيَّة.
بسرِّ التَّثبيت، الرُّوحُ القُدُس يُقَدِّسُنا، ويُقوِّينا، ويَجعَلُ مشارَكَتَنا فعَّالة في رسالةِ الكنيسة.
باركَكُم الرّبُّ جَميعًا وحَماكُم دائِمًا مِن كُلِّ شَرّ!
[Saluto i fedeli di lingua araba.
Attraverso il Sacramento della Cresima, lo Spirito Santo ci consacra e ci rafforza, rendendo attiva la nostra partecipazione alla missione della Chiesa.
Il Signore vi benedica tutti e vi protegga sempre da ogni male!]
Serdecznie pozdrawiam pielgrzymów z Polski.
Zachęcam was do poświęcenia jeszcze większej uwagi przygotowującym się do przyjęcia Sakramentu Bierzmowania.
Niech zakończone właśnie obrady Synodu zaowocują w waszych wspólnotach nową otwartością na działanie Ducha Świętego i wrażliwością na styl synodalny.
Wszystkich was błogosławię.
[Saluto cordialmente i pellegrini polacchi.
Vi invito a dedicare ancora più attenzione a quelli che si preparano a ricevere il Sacramento della Confermazione.
I lavori del Sinodo, appena conclusi, possano suscitare una nuova apertura all’azione dello Spirito Santo e una sensibilità allo stile sinodale nelle vostre comunità.
Vi benedico tutti.]
* * *
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana.
In particolare, saluto la parrocchia San Leone di Saraceno e la Caritas di Teramo-Atri con il Vescovo Mons.
Leuzzi, esortando a proseguire nel cammino di testimonianza evangelica.
Saluto poi l’Associazione Donne Giuriste Italia e la Federazione Faita-Federcamping: tutti incoraggio nel rispettivo impegno quotidiano a servizio della collettività.
Il mio pensiero va ai giovani, agli ammalati, agli anziani e agli sposi novelli.
Siamo ormai vicini alla solennità di Tutti i Santi: vi invito a vivere questa ricorrenza dell’anno liturgico, nella quale la Chiesa ci vuole ricordare un aspetto della sua realtà: la gloria celeste dei fratelli che ci hanno preceduto nel cammino della vita e che ora, nella visione del Padre, vogliono essere in comunione con noi per aiutarci a raggiungere la meta che ci attende. E preghiamo per la pace.
La guerra cresce! Pensiamo ai Paesi che soffrono tanto: la martoriata Ucraina, la Palestina, Israele, il Myanmar, Nord Kivu e tanti Paesi che sono in guerra.
Preghiamo per la pace! La pace è un dono dello Spirito Santo e la guerra sempre - sempre, sempre, sempre – è una sconfitta.
Nella guerra nessuno vince; tutti perdono.
Preghiamo per la pace, fratelli e sorelle.
Ieri ho visto che sono state mitragliate 150 persone innocenti: cosa c’entrano nella guerra i bambini? Le famiglie? Sono le prime vittime.
Preghiamo per la pace.
E a tutti la mia benedizione!
Cari fratelli, benvenuti!
Saluto il Superiore Generale e tutti voi.
Sono molto contento di incontrarvi in occasione del vostro XVI Capitolo Generale.
Lo celebrate alla vigilia dell’Anno Santo ed è bello che, nella programmazione della futura pastorale missionaria e caritativa in favore dei migranti, abbiate scelto di ispirarvi al tema giubilare: “Pellegrini di speranza”.
Possiamo allora riflettere assieme su questa virtù, riferendoci a tre aspetti del vostro servizio: i migranti, il ministero pastorale e la carità.
Primo: i migranti.
Essi sono maestri di speranza.
Io sono figlio di migranti, e a casa abbiamo sempre vissuto quel senso di andare lì per fare l’America, per progredire, per andare più avanti. Partono sperando di “trovare altrove il pane quotidiano” – come diceva San Giovanni Battista Scalabrini –, e non si arrendono, anche quando tutto sembra “remare contro”, anche quando trovano chiusure e rifiuti.
La loro tenacia, sostenuta spesso dall’amore per le famiglie rimaste in patria, ci insegna tanto, specialmente a voi che, “migranti tra i migranti” – come vi ha voluto il vostro fondatore – ne condividete il cammino.
Così, attraverso le dinamiche dell’incontro, del dialogo, dell’accoglienza di Cristo presente nello straniero, crescete insieme con loro, solidali gli uni gli altri, abbandonati «in Dio e in Dio solo». Non dimenticatevi l’Antico Testamento: la vedova, l’orfano e lo straniero.
Sono i privilegiati di Dio.
La ricerca di futuro che anima il migrante, del resto, esprime un bisogno di salvezza che accomuna tutti, al di là di razze e condizioni.
Anzi l’”itineranza”, rettamente compresa e vissuta, può diventare, pur nel dolore, una preziosa scuola di fede e di umanità sia per chi assiste che per chi è assistito (cfr Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2019, 27 maggio 2019).
Non dimentichiamo che la stessa storia della salvezza è una storia di migranti, di popoli in cammino.
E questo ci porta al secondo punto: la necessità di una pastorale della speranza.
Se infatti da una parte la migrazione, con un appropriato sostegno, può diventare un momento di crescita per tutti, dall’altra, se vissuta nella solitudine e nell’abbandono, può degenerare in drammi di sradicamento esistenziale, di crisi di valori e prospettive, fino a portare alla perdita della fede e alla disperazione.
Le ingiustizie e le violenze attraverso cui passano tanti nostri fratelli e sorelle, strappati alle loro case, sono spesso così disumane, da poter trascinare anche i più forti nel buio dello sconforto o della cupa rassegnazione.
Non dimentichiamo che il migrante va accolto, accompagnato, promosso e integrato. Se si vuole che in loro non vengano meno la forza e la resilienza necessarie a continuare i viaggi intrapresi, serve qualcuno che si chini sulle loro ferite, prendendosi cura della loro estrema vulnerabilità fisica, e anche vulnerabilità spirituale e psicologica.
Servono solidi interventi pastorali di prossimità, a livello materiale, religioso e umano, per sostenere in loro la speranza, e con essa i percorsi interiori che portano a Dio, fedele compagno di viaggio, sempre presente accanto a chi soffre (cfr Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2013, 12 ottobre 2012). E oggi tanti Paesi hanno bisogno dei migranti.
L’Italia non fa figli, non fa figli.
L’età media è di 46 anni.
L’Italia ha bisogno dei migranti e deve accoglierli, accompagnarli, promuoverli e integrarli.
Dobbiamo dire questa verità.
E questo ci porta al terzo punto: la carità.
Nell’imminenza del Giubileo del 1900, San Giovanni Battista Scalabrini diceva: «Il mondo geme sotto il peso di grandi sciagure».
Sono parole pesanti, che però purtroppo suonano ancora molto attuali.
Anche ai nostri giorni, infatti, chi parte lo fa spesso a causa di tragiche e ingiuste disparità di opportunità, di democrazia, di futuro, o di devastanti scenari di guerra che affliggono il pianeta.
A ciò si aggiungono la chiusura e l’ostilità dei paesi ricchi, che vedono in chi bussa alla porta una minaccia al proprio benessere.
Questo lo vediamo anche da noi: c’è lo scandalo che per la raccolta delle mele, al Nord, fanno venire i migranti dal Centro Europa, ma poi li mandano via.
Li usano per raccogliere le mele, e poi vanno via.
Questo oggi. Così, nel drammatico confronto tra gli interessi di chi protegge la sua prosperità e la lotta di chi tenta di sopravvivere, fuggendo dalla fame e dalla persecuzione, tante vite umane vanno perdute, sotto gli occhi indifferenti di chi si limita a guardare lo spettacolo, o peggio specula sulla pelle di chi soffre.
Nella Bibbia, una delle leggi del Giubileo era la restituzione della terra a chi l’aveva perduta (cfr Lv 25,10-28).
Oggi tale atto di giustizia può concretizzarsi, in altro contesto, in una carità che rimetta al centro la persona, i suoi diritti, la sua dignità (cfr S.
Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al IV Congresso mondiale promosso dal Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, 9 ottobre 1998, 2), superando stereotipi escludenti, per riconoscere nell’altro, chiunque sia e da qualunque luogo provenga, un dono di Dio, unico, sacro, inviolabile, prezioso per il bene di tutti.
Cari fratelli, il carisma scalabriniano è vivo nella Chiesa: lo testimoniano tanti giovani che, da vari paesi del mondo, continuano a unirsi a voi.
Siate grati al Signore per la vocazione che avete ricevuto.
Anzi, se volete che il Capitolo diventi un’occasione di approfondimento e di rinnovamento della vostra vita e missione, fatene prima di tutto un tempo di umile e gioioso ringraziamento, davanti all’Eucaristia, a Gesù crocifisso e a Maria, Madre dei migranti, come vi ha insegnato San Giovanni Battista Scalabrini.
È solo da lì che si parte per camminare insieme, con speranza, nella carità (cfr Ef 5,2).
E pensando a voi ho voluto fare un Cardinale [p.
Fabio Baggio].
Avrei voluto farlo prima ma lui non voleva.
Adesso, per obbedienza, l’ho fatto.
E con lui saranno due Cardinali qui a Roma, Scalabriniani.
Prendetelo come un gesto di stima, di grande stima.
Io vi conosco già dall’altra diocesi e so come lavorate, tanto!
Grazie per il lavoro immenso che fate.
Vi benedico e prego per voi, e vi raccomando, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.
Cari fratelli e sorelle, buona domenica!
Oggi il Vangelo della liturgia (Mc 10,46-52) ci parla di Gesù, che guarisce un uomo dalla cecità.
Il suo nome è Bartimeo, ma la folla, per strada, lo ignora: è un povero mendicante.
Quella gente non ha occhi per questo cieco; lo lasciano, lo ignorano.
Nessuno sguardo di cura, nessun sentimento di compassione.
Anche Bartimeo non vede, ma sente e si fa sentire.
Grida, grida forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!» (v.
48).
Gesù però lo sente e lo vede.
Si mette a sua disposizione e gli chiede: «Cosa vuoi che io faccia per te?» (v.
51).
“Cosa vuoi che io faccia per te?”.
Questa domanda, davanti a una persona cieca, sembra una provocazione e invece è una prova.
Gesù sta chiedendo a Bartimeo chi cerca davvero, e per quale motivo.
Chi è per te il “Figlio di Davide”? E così il Signore inizia ad aprire gli occhi del cieco.
Consideriamo tre aspetti di questo incontro, che diventa dialogo: il grido, la fede, il cammino.
Anzitutto il grido di Bartimeo, che non è solo una richiesta di aiuto.
È un’affermazione di se stesso.
Il cieco sta dicendo: “Io esisto, guardatemi.
Io non ci vedo, Gesù.
Tu mi vedi?”.
Sì, Gesù vede l’uomo mendicante, e lo ascolta, con gli orecchi del corpo e con quelli del cuore.
Pensiamo a noi, quando per la strada incrociamo qualche mendicante: quante volte guardiamo da un’altra parte, quante volte lo ignoriamo, come se lui non esistesse.
E noi sentiamo il grido dei mendicanti?
Secondo punto: la fede.
Gesù cosa dice? «Va’, la tua fede ti ha salvato» (v.
52).
Bartimeo vede perché crede; Cristo è la luce dei suoi occhi.
Il Signore osserva come Bartimeo guarda a Lui.
Come guardo io un menticante? Lo ignoro? Lo guardo come Gesù? Sono capace di capire le sue domande, il suo grido di aiuto? Quando tu dai l’elemosina, guardi negli occhi il mendicante? Gli tocchi la mano per sentire la sua carne?
Infine, il cammino: Bartimeo, risanato, «seguiva Gesù lungo la strada» (v.
52).
Ma ognuno di noi è Bartimeo, cieco dentro, che segue Gesù una volta che si è avvicinato a Lui.
Quando tu ti avvicini a un povero e ti fai sentire vicino, è Gesù che si avvicina a te nella persona di quel povero.
Per favore, non facciamo confusione: l’elemosina non è beneficenza.
Quello che riceve più grazia dall’elemosina è colui che la dà, perché si fa guardare dagli occhi del Signore.
Preghiamo insieme Maria, aurora della salvezza, perché custodisca il nostro cammino nella luce di Cristo.
__________________________________
Dopo l'Angelus
Cari fratelli e sorelle!
Oggi abbiamo concluso il Sinodo dei Vescovi. Preghiamo perché tutto quello che abbiamo fatto in questo mese vada avanti per il bene della Chiesa.
Il 22 ottobre ricorreva il 50° anniversario della creazione, da parte di San Paolo VI, della Commissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo, e domani sarà il 60° della Dichiarazione Nostra aetate del Concilio Ecumenico Vaticano II.
Soprattutto in questi tempi di grandi sofferenze e tensioni, incoraggio quanti sono impegnati a livello locale per il dialogo e per la pace.
Domani si aprirà a Ginevra un’importante Conferenza Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, a 75 anni dalle Convenzioni di Ginevra.
Possa tale evento risvegliare le coscienze affinché, durante i conflitti armati, siano rispettate la vita e la dignità delle persone e dei popoli, come anche l’integrità delle strutture civili e dei luoghi di culto, in osservanza del diritto internazionale umanitario.
È triste vedere come nella guerra, da qualche parte, si distruggono gli ospedali e le scuole.
Mi unisco all’amata Chiesa di San Cristóbal de las Casas, nello stato messicano del Chiapas, che piange il sacerdote Marcelo Pérez Pérez, assassinato domenica scorsa.
Uno zelante servitore del Vangelo e del popolo fedele di Dio.
Il suo sacrificio, come quello di altri preti uccisi per fedeltà al ministero, sia seme di pace e di vita cristiana.
Sono vicino alle popolazioni delle Filippine colpite da un fortissimo ciclone.
Il Signore sostenga quel popolo tanto pieno di fede.
Saluto voi, romani e pellegrini.
In particolare, saluto la Confraternita del Señor de los Milagros, dei peruviani a Roma, che ringrazio per la loro testimonianza e incoraggio a proseguire nel cammino di fede.
Saluto il gruppo anziani di Loiri Porto San Paolo, i ragazzi della Cresima di Assemini (Cagliari), i “Pellegrini della salute” da Piacenza, gli Oblati Secolari Cistercensi del Santuario di Cotrino e la Confederazione dei Poveri Cavalieri di San Bernardo di Chiaravalle.
E per favore continuiamo a pregare per la pace, specialmente in Ucraina, Palestina, Israele, Libano, perché si ponga fine all’escalation e si metta al primo posto il rispetto della vita umana, che è sacra! Le prime vittime sono tra la popolazione civile: lo vediamo tutti i giorni.
Troppe vittime innocenti! Vediamo ogni giorno immagini di bambini massacrati.
Troppi bambini! Preghiamo per la pace.
Auguro a tutti una buona domenica.
E per favore non dimenticatevi di pregare per me.
Buon pranzo e arrivederci!
Il Vangelo ci presenta Bartimeo, un cieco che è costretto a mendicare ai bordi della strada, uno scartato senza speranza che, però, quando sente passare Gesù, inizia a gridare verso di Lui.
Tutto ciò che gli è rimasto è questo: gridare il proprio dolore e portare a Gesù il suo desiderio di riacquistare la vista.
E mentre tutti lo rimproverano perché sono disturbati dalla sua voce, Gesù si ferma.
Perché Dio ascolta sempre il grido dei poveri e nessun grido di dolore rimane inascoltato davanti a Lui.
Oggi, a conclusione dell’Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi, portando nel cuore tanta gratitudine per quanto abbiamo potuto condividere, soffermiamoci su ciò che succede a quest’uomo: all’inizio, «sedeva lungo la strada a mendicare» (Mc 10,46), mentre alla fine, dopo essere stato chiamato da Gesù e aver riacquistato la vista, «lo seguiva lungo la strada» (v.
52).
La prima cosa che il Vangelo ci dice su Bartimeo è questa: è seduto a mendicare.
La sua posizione è tipica di una persona ormai chiusa nel proprio dolore, seduta sul ciglio della strada come se non ci fosse nient’altro da fare se non ricevere qualcosa dai tanti pellegrini di passaggio nella città di Gerico in occasione della Pasqua.
Ma, come sappiamo, per vivere davvero non si può restare seduti: vivere è sempre mettersi in movimento, mettersi in cammino, sognare, progettare, aprirsi al futuro.
Il cieco Bartimeo, allora, rappresenta anche quella cecità interiore che ci blocca, ci fa restare seduti, ci rende immobili ai bordi della vita, senza più speranza.
E questo può farci pensare, oltre che alla nostra vita personale, anche al nostro essere Chiesa del Signore.
Tante cose, lungo il cammino, possono renderci ciechi, incapaci di riconoscere la presenza del Signore, impreparati ad affrontare le sfide della realtà, a volte inadeguati nel saper rispondere alle tante questioni che gridano verso di noi come fa Bartimeo con Gesù.
Tuttavia, dinanzi alle domande delle donne e degli uomini di oggi, alle sfide del nostro tempo, alle urgenze dell’evangelizzazione e alle tante ferite che affliggono l’umanità, sorelle e fratelli, non possiamo restare seduti.
Una Chiesa seduta, che quasi senza accorgersi si ritira dalla vita e confina sé stessa ai margini della realtà, è una Chiesa che rischia di restare nella cecità e di accomodarsi nel proprio malessere.
E se restiamo seduti nella nostra cecità, continueremo a non vedere le nostre urgenze pastorali e i tanti problemi del mondo in cui viviamo.
Per favore, chiediamo al Signore che ci dia lo Spirito Santo per non restare seduti nella nostra cecità, cecità che si può chiamare mondanità, che si può chiamare comodità, che si può chiamare cuore chiuso.
Non restare seduti nelle nostre cecità.
Ricordiamoci questo, invece: il Signore passa, il Signore passa tutti i giorni, il Signore passa sempre e si ferma per prendersi cura della nostra cecità.
E io, lo sento passare? Ho la capacità di sentire i passi del Signore? Ho la capacità di discernere quando il Signore passa? Ed è bello se il Sinodo ci spinge a essere Chiesa come Bartimeo: la comunità dei discepoli che, sentendo il Signore che passa, avverte il brivido della salvezza, si lascia svegliare dalla potenza del Vangelo e inizia a gridare verso di Lui.
Lo fa raccogliendo il grido di tutte le donne e di tutti gli uomini della terra: il grido di coloro che desiderano scoprire la gioia del Vangelo e di quelli che invece si sono allontanati; il grido silenzioso di chi è indifferente; il grido di chi soffre, dei poveri, degli emarginati, dei bambini schiavi di lavoro, schiavizzati in tante parti del mondo per il lavoro; la voce spezzata, sentire quella voce spezzata di chi non ha più neanche la forza di gridare a Dio, perché non ha voce o perché si è rassegnato.
Non abbiamo bisogno di una Chiesa seduta e rinunciataria, ma di una Chiesa che raccoglie il grido del mondo e – voglio dirlo, forse qualcuno si scandalizza – una Chiesa che si sporca le mani per servire il Signore.
E veniamo così al secondo aspetto: se all’inizio Bartimeo era seduto, vediamo che alla fine, invece, lo segue lungo la strada.
Questa è una tipica espressione del Vangelo che significa: divenne suo discepolo, si è messo alla sua sequela.
Dopo aver gridato verso di Lui, infatti, Gesù si è fermato e lo ha fatto chiamare.
Bartimeo, da seduto che era, è balzato in piedi e, subito dopo, ha recuperato la vista.
Ora, egli può vedere il Signore, può riconoscere l’opera di Dio nella propria vita e può finalmente incamminarsi dietro di Lui.
Così, anche noi, fratelli e sorelle: quando siamo seduti e accomodati, quando anche come Chiesa non troviamo le forze, il coraggio e l’audacia, la parresia necessaria per rialzarci e riprendere il cammino, per favore, ricordiamoci di ritornare sempre al Signore, ritornare al Vangelo.
Ritornare al Signore, ritornare al Vangelo.
Sempre e di nuovo, mentre Egli passa, dobbiamo metterci in ascolto della sua chiamata, che ci rimette in piedi e ci fa uscire dalla cecità.
E poi riprendere nuovamente a seguirlo, camminare con Lui lungo la strada.
Vorrei ripeterlo: di Bartimeo il Vangelo dice che «lo seguiva lungo la strada».
Questa è un’immagine della Chiesa sinodale: il Signore ci chiama, ci rialza quando siamo seduti o caduti, ci fa riacquistare una vista nuova, affinché alla luce del Vangelo possiamo vedere le inquietudini e le sofferenze del mondo; e così, rimessi in piedi dal Signore, sperimentiamo la gioia di seguirlo lungo la strada.
Il Signore lo si segue lungo la strada, non lo si segue chiusi nelle nostre comodità, non lo si segue nei labirinti delle nostre idee: lo si segue lungo la strada.
E ricordiamolo sempre: non camminare per conto nostro o secondo i criteri del mondo, ma camminare lungo la strada, insieme, dietro a Lui e camminare con Lui.
Fratelli, sorelle: non una Chiesa seduta, una Chiesa in piedi.
Non una Chiesa muta, una Chiesa che raccoglie il grido dell’umanità.
Non una Chiesa cieca, ma una Chiesa illuminata da Cristo che porta la luce del Vangelo agli altri.
Non una Chiesa statica, una Chiesa missionaria, che cammina con il Signore lungo le strade del mondo.
E oggi, mentre rendiamo grazie al Signore per il cammino percorso insieme, potremo vedere e venerare la reliquia dell’antica Cattedra di San Pietro, accuratamente restaurata.
Contemplandola con stupore di fede, ricordiamoci che questa è la cattedra dell’amore, è la cattedra dell’unità, è la cattedra della misericordia, secondo quel comando che Gesù diede all’Apostolo Pietro non di dominare sugli altri, ma di servirli nella carità.
E ammirando il maestoso baldacchino berniniano più splendente che mai, riscopriamo che esso inquadra il vero punto focale di tutta la Basilica, cioè la gloria dello Spirito Santo.
Questa è la Chiesa sinodale: una comunità il cui primato è nel dono dello Spirito, che ci rende tutti fratelli in Cristo e ci eleva verso di Lui.
Sorelle e fratelli, proseguiamo allora con fiducia il nostro cammino insieme.
Anche a noi oggi la Parola di Dio ripete, come a Bartimeo: «Coraggio, alzati, ti chiama».
Io mi sento chiamato? Questa è la domanda da farci.
Io mi sento chiamato? Mi sento debole e non posso alzarmi? Chiedo aiuto? Per favore, deponiamo il mantello della rassegnazione e affidiamo al Signore le nostre cecità.
Mettiamoci in piedi e portiamo la gioia del Vangelo, portiamola per le strade del mondo.
Cari fratelli e sorelle,
con il Documento Finale abbiamo raccolto il frutto di anni, almeno tre, in cui ci siamo messi in ascolto del Popolo di Dio per comprendere meglio come essere “Chiesa sinodale” – è l’ascolto dello Spirito Santo – in questo tempo.
I riferimenti biblici che aprono ogni capitolo, dispongono il messaggio incrociandolo ai gesti e alle parole del Signore Risorto che ci richiama a essere testimoni del suo Vangelo, con la vita prima che con le parole.
Il Documento sul quale abbiamo espresso il nostro voto è un triplice dono.
Per primo a me, Vescovo di Roma.
Convocando la Chiesa di Dio in Sinodo ero consapevole di aver bisogno di voi, Vescovi e testimoni del cammino sinodale.
Grazie!
Anche il Vescovo di Roma, lo ricordo a me stesso, frequentemente, e a voi, ha bisogno di praticare l’ascolto, anzi vuole praticare l’ascolto, per potere rispondere alla Parola che ogni giorno gli ripete: «Conferma i tuoi fratelli e le tue sorelle ...
Pasci le mie pecore».
Il mio compito, lo sapete bene, è custodire e promuovere - come ci insegna San Basilio - l’armonia che lo Spirito continua a diffondere nella Chiesa di Dio, nelle relazioni tra le Chiese, nonostante tutte le fatiche, le tensioni, le divisioni che segnano il suo cammino verso la piena manifestazione del Regno di Dio, che la visione del Profeta Isaia ci invita a immaginare come un banchetto preparato da Dio per tutti i popoli.
Tutti, nella speranza che non manchi nessuno.
Tutti, tutti, tutti! Nessuno fuori, tutti.
E la parola chiave è questa: l’armonia.
Quello che fa lo Spirito, la prima manifestazione forte, il mattino di Pentecoste, è armonizzare tutte quelle differenze, tutte quelle lingue… Armonia.
È ciò che il Concilio Vaticano II insegna quando dice che la Chiesa è “come sacramento”: essa è segno e strumento dell’attesa di Dio che ha già apparecchiato la mensa, e attende.
La sua Grazia, tramite il suo Spirito, sussurra nel cuore di ciascuno parole di amore.
A noi è dato di amplificare la voce di questo sussurro, senza ostacolarlo; ad aprire le porte, senza erigere muri.
Quanto male fanno le donne e gli uomini di Chiesa quando erigono dei muri, quanto male! Tutti, tutti, tutti! Non dobbiamo comportarci come “dispensatori della Grazia” che si appropriano del tesoro legando le mani al Dio misericordioso.
Ricordatevi che abbiamo iniziato questa Assemblea sinodale chiedendo perdono, provando vergogna, riconoscendo che siamo tutti dei misericordiati.
C’è una poesia di Madeleine Delbrêl, la mistica delle periferie che esortava: «Soprattutto non essere rigido» - la rigidità è un peccato, è un peccato che a volte entra nei chierici, nei consacrati, nelle consacrate -.
Vi leggo alcuni versi di Madeleine Delbrêl, che sono una preghiera.
Lei dice così:
Perché io penso che tu forse ne abbia abbastanza
della gente che, sempre, parla di servirti col piglio da condottiero,
di conoscerti con aria da professore,
di raggiungerti con regole sportive,
di amarti come si ama in un matrimonio invecchiato
…
Facci vivere la nostra vita,
non come un giuoco di scacchi dove tutto è calcolato,
non come una partita dove tutto è difficile,
non come un teorema che ci rompa il capo,
ma come una festa senza fine dove il tuo incontro si rinnovella,
come un ballo,
come una danza,
fra le braccia della tua grazia,
nella musica che riempie l’universo di amore.
Questi versi possono diventare la musica di fondo con cui accogliere il Documento Finale.
E ora, alla luce di quanto emerso dal cammino sinodale, ci sono e ci saranno decisioni da prendere.
In questo tempo di guerre dobbiamo essere testimoni di pace, anche imparando a dare forma reale alla convivialità delle differenze.
Per tale ragione non intendo pubblicare una “esortazione apostolica”, basta quello che abbiamo approvato.
Nel Documento ci sono già indicazioni molto concrete che possono essere di guida per la missione delle Chiese, nei diversi continenti, nei diversi contesti: per questo lo metto subito a disposizione di tutti, per questo ho detto che sia pubblicato.
Voglio, così, riconoscere il valore del cammino sinodale compiuto, che tramite questo Documento consegno al santo popolo fedele di Dio.
Su alcuni aspetti della vita della Chiesa segnalati nel Documento, come pure sui temi affidati ai dieci “Gruppi di Studio”, che devono lavorare con libertà, per offrirmi proposte, c’è bisogno di tempo, per giungere a scelte che coinvolgono la Chiesa tutta.
Io, allora, continuerò ad ascoltare i Vescovi e le Chiese affidate a loro.
Questo non è il modo classico di rimandare all’infinito le decisioni.
È quello che corrisponde allo stile sinodale con cui anche il ministero petrino va esercitato: ascoltare, convocare, discernere, decidere e valutare.
E in questi passi sono necessari le pause, i silenzi, la preghiera.
È uno stile che stiamo apprendendo insieme, un po’ alla volta.
Lo Spirito Santo ci chiama e ci sostiene in un questo apprendimento, che dobbiamo comprendere come processo di conversione.
La Segreteria Generale del Sinodo e tutti i Dicasteri della Curia mi aiuteranno in questo compito.
Il Documento è un dono a tutto il Popolo fedele di Dio, nella varietà delle sue espressioni.
È ovvio che non tutti si metteranno a leggerlo: sarete soprattutto voi, assieme a tanti altri, a rendere accessibile nelle Chiese locali ciò che esso contiene.
Il testo, senza la testimonianza dell’esperienza compiuta, perderebbe molto del suo valore.
Cari fratelli e sorelle, ciò che abbiamo vissuto è un dono che non possiamo tenere per noi stessi.
Lo slancio che viene da questa esperienza, di cui il Documento è un riflesso, ci dà il coraggio di testimoniare che è possibile camminare insieme nella diversità, senza condannarci l’un l’altro.
Veniamo da tutte le parti del mondo, segnati dalla violenza, dalla povertà, dall’indifferenza.
Insieme, con la speranza che non delude, uniti nell’amore di Dio diffuso nei nostri cuori, possiamo non solo sognare la pace ma impegnarci con tutte le nostre forze perché, magari senza parlare tanto di sinodalità, la pace si realizzi attraverso processi di ascolto, dialogo e riconciliazione.
La chiesa sinodale per la missione, ora, ha bisogno che le parole condivise siano accompagnate dai fatti.
E questo è il cammino.
Tutto questo è dono dello Spirito Santo: è Lui che fa armonia, Lui è l’armonia.
San Basilio ha una teologia molto bella su questo; se potete leggete il trattato di San Basilio sullo Spirito Santo.
Lui è l’armonia.
Fratelli e sorelle, che 1’armonia continui anche uscendo da quest’aula e il Soffio del Risorto ci aiuti a condividere i doni ricevuti.
E ricordate - sono ancora parole di Madeleine Delbrêl - che «ci sono luoghi in cui soffia lo Spirito, ma c’è uno Spirito che soffia in tutti i luoghi».
Vorrei ringraziare tutti voi, e ringraziamoci a vicenda.
Ringrazio il Cardinale Grech e il Cardinale Hollerich per il lavoro che hanno fatto, i due Segretari, Nathalie e San Martín – avete fatto bene! –, don Batocchio e padre Costa che ci hanno aiutato tanto! Saluto tutti questi che hanno lavorato dietro le quinte e senza di loro non avremmo potuto fare tutto questo.
Grazie tante! Che il Signore vi benedica.
Preghiamo l’uno per l’altro.
Grazie!
Cari fratelli e sorelle,
vi ringrazio di essere qui a celebrare insieme questo momento importante per la Diocesi di Roma.
Saluto le Autorità presenti e tutti voi che siete qui rappresentando anche le vostre Comunità parrocchiali e le realtà di cui siete al servizio.
E ringrazio anche tutti coloro che hanno lavorato per riportare alla memoria di tutti noi il Convegno che si è tenuto 50 anni fa e che è passato alla storia con il nome “Convegno sui mali di Roma”.
Si è trattato di un evento che ha segnato il cammino ecclesiale e sociale della Città e, in quell’occasione, la Chiesa di Roma si è messa in ascolto delle tante sofferenze che la segnavano, invitando tutti a riflettere sulle responsabilità dei cristiani di fronte ai mali della Chiesa, ai mali della Città, entrando in dialogo con essa e scuotendo la coscienza civile, politica e cristiana di tanti.
Ho seguito i diversi passaggi del lavoro fatto nel corso di quest’anno e ho ascoltato con interesse la sintesi e le testimonianze che, purtroppo, ci mettono ancora una volta davanti a una triste realtà: anche oggi e ancora oggi sono tante le disuguaglianze e le povertà che colpiscono molti abitanti della Città.
Se da una parte tutto questo ci addolora, dall’altra ci fa comprendere quanto sia ancora lunga la strada da percorrere.
Sapere che ci sono persone che vivono per strada, giovani che non riescono a trovare un lavoro o una casa, ammalati e anziani che non hanno accesso alle cure, ragazzi che sprofondano nelle dipendenze dalle droghe e in molte altre dipendenze “moderne”, persone segnate da sofferenze mentali che vivono in stato di abbandono o disperazione.
E questo non può essere solo un dato statistico; sono volti, sono storie di nostri fratelli e sorelle che ci toccano e ci interpellano: cosa possiamo fare noi? Vediamo nella storia ferita di queste persone il volto di Cristo sofferente? Siamo capaci di vederlo? Avvertiamo il problema per farcene carico? Cosa possiamo fare insieme?
Partendo da questi interrogativi e dalla Parola che abbiamo ascoltato, vorrei riflettere con voi su tre aspetti: portare ai poveri il lieto annuncio, ricucire lo strappo, seminare la speranza.
Anzitutto, portare ai poveri il lieto annuncio.
I poveri saranno sempre con noi.
I poveri sono la carne di Cristo e, come un sacramento, lo rendono visibile ai nostri occhi.
Quando io confesso, quando c’è l’opportunità, domando alla persona: “Ma dimmi, tu dai l’elemosina?” - “Sì, Padre” – “E dimmi, quando tu dai l’elemosina, tu guardi gli occhi del povero al quale dai l’elemosina? Tu tocchi la mano?” E rispondono: “No”.
Buttano la moneta e proseguono.
Non si prendono cura di quella sofferenza umana che è un povero.
I poveri saranno sempre con noi, sono la carne di Cristo e, come un sacramento, lo rendono visibile ai nostri occhi.
Gesù non ci offre una soluzione magica per risolvere la povertà ma ci chiede di portare loro “il lieto annuncio”.
E la buona notizia da annunciare ai poveri è anzitutto dire loro che sono amati dal Signore e che agli occhi di Dio sono preziosi, che la loro dignità, spesso calpestata dal mondo, davanti a Dio è sacra.
Ma tante volte, noi cristiani diciamo questo a parole, e poi non facciamo i gesti che lo rendono credibile.
Per favore: il povero non può essere un numero, non può essere un problema o peggio ancora uno scarto.
Egli è nostro fratello, è carne della nostra carne.
Sono contento che, in questa Diocesi, tante persone si spendono ogni giorno per i poveri: penso ai volontari, agli operatori della Caritas e delle altre realtà e associazioni presenti nel territorio, ai tanti cittadini che sono nel silenzio e che operano il bene; al contempo, però, dobbiamo sentire la questione della povertà come un’urgenza ecclesiale, che diventa impegno e responsabilità di tutti e sempre.
La Chiesa è chiamata ad assumere uno stile che mette al centro coloro che sono segnati dalle diverse povertà – ce ne sono tante, eh! –, i poveri di cibo e di speranza, gli affamati di giustizia, gli assetati del futuro, i bisognosi di legami veri per affrontare la vita.
Rendiamoci presenti presso i poveri e diventiamo per loro segno della tenerezza di Dio! Dio è presente con tre atteggiamenti: la vicinanza, la compassione e la tenerezza.
E un cristiano che non si fa vicino, che non è compassionevole e che non è tenero non è cristiano.
Vicinanza, compassione e tenerezza.
Così imitiamo Dio.
In secondo luogo, ricucire lo strappo.
É un’immagine che prendo dal titolo che si è voluto dare all’incontro di stasera.
È vero, qualcosa si è strappato! Il grande tessuto sociale, a motivo delle disuguaglianze, conosce quotidianamente rotture che fanno male.
Come possiamo accettare che nella nostra Città si buttino quintali di cibo e allo stesso tempo ci siano famiglie che non hanno da mangiare? I poveri vanno a cercare il cibo che i ristoranti buttano tutte le sere.
Come possiamo accettare che ci siano migliaia di spazi vuoti e migliaia di persone che dormono su un marciapiede? Che alcuni ricchi hanno accesso a tutte le cure che necessitano e chi è povero quando sta male non riesce a curarsi dignitosamente? Una città che assiste inerme a queste contraddizioni è una città lacerata, così come lo è l’intero nostro pianeta.
Ecco che allora è necessario ricucire questo strappo impegnandoci a costruire delle alleanze che mettano al centro la persona umana, la sua dignità.
Per fare questo occorre lavorare insieme, armonizzare le differenze, condividere ciascuno il dono e la missione che ha già ricevuto.
E questo significa anche crescere nel dialogo: il dialogo con le istituzioni e le associazioni, il dialogo con la scuola e la famiglia, il dialogo tra le generazioni, il dialogo con tutti, anche con chi la pensa diversamente.
Per ricucire lo strappo serve la pazienza del dialogo senza pregiudizi, confrontandosi con passione sulle idee, sui progetti e sulle proposte utili a rinnovare il tessuto della Città.
Insieme possiamo rischiare delle strade nuove, vincendo il virus dell’indifferenza, che tutti ci contagia come se quanto accade, negli angoli della nostra Città e del pianeta, non ci riguardasse.
“Non è cosa mia”.
Per ricucire abbiamo bisogno innanzitutto di uscire dall’indifferenza e lasciarci coinvolgere in prima persona! Sarebbe bello se dall’incontro di stasera si uscisse con qualche impegno concreto, verificabile sulla linea di uno sforzo comune mirato ad azioni capaci di aiutarci a superare le disuguaglianze.
Ma, intanto, vorrei chiedervi questo: valorizzate di più, nella pastorale ordinaria e nella catechesi, il pensiero sociale della Chiesa.
É importante, è importante infatti, formare le coscienze alla dottrina sociale della Chiesa, perché il Vangelo sia tradotto nelle diverse situazioni di oggi e ci renda testimoni di giustizia, di pace, di fraternità.
E tessitori di una nuova rete sociale e solidale nella Città, per ricucire gli strappi che la lacerano.
Infine, seminare speranza.
É un impegno che siamo chiamati ad assumerci anche in vista del Giubileo ormai vicino, che ho voluto fosse segnato dalla speranza cristiana.
Nella bolla di indizione del Giubileo, ho invitato tutti a pensare dei segni di speranza a favore della pace, della vita umana, degli ammalati, dei carcerati, dei migranti, degli anziani, dei poveri.
Rivolgo a tutti voi un appello forte a realizzare opere concrete di speranza.
La molteplicità delle problematiche sociali prese in esame e presentate anche questa sera potrebbe scoraggiare fino al punto da dire che “non possiamo fare nulla”.
Ma la speranza cristiana, invece, è sempre operosa perché è animata dalla certezza che è il Signore a guidare la storia e che in Lui possiamo costruire ciò che umanamente sembra impossibile.
Sorelle, fratelli, la speranza non delude! Non delude mai.
Andiamo sulla strada della speranza.
In questa Città hanno operato uomini e donne che davanti ai problemi non sono rimasti a guardare e nemmeno si sono limitati a dire o a scrivere tante cose.
Penso specialmente ad alcuni sacerdoti, veri uomini di speranza, come don Luigi Di Liegro; penso anche a tanti laici che si sono messi all’opera rispondendo al bisogno di gettare un seme di bene, di attivare processi nella speranza che qualcun altro si sarebbe preso cura di quel piccolo seme fino a farlo diventare un albero grande.
Se oggi, ad esempio, è molto forte la spinta al volontariato è perché qualcuno ci ha creduto e ha iniziato con piccoli passi.
Quel bene ha contagiato tanti altri fino a diventare stile condiviso.
Oggi dobbiamo avviare nuovi processi, nuovi processi di speranza: sognare la speranza e costruire la speranza attraverso il nostro impegno, che è un impegno responsabile e solidale! Osate! Tutti voi osate nella carità, non abbiate paura di sognare imprese grandi anche se queste iniziano con impegni piccoli.
Il poeta Charles Peguy afferma così, e, a questo proposito, concludo con quanto diceva sulla speranza: “La Fede è una Sposa fedele.
La Carità è una Madre.
La Speranza è una bambina da nulla.
Eppure è questa bambina che attraverserà i mondi”.
Andiamo avanti con la speranza.
Cari fratelli, care sorelle, anche noi possiamo attraversare i mondi della povertà portando la speranza del Vangelo! Grazie per tutto ciò che fate nella Chiesa e nella città di Roma.
Prego per voi, perché siate testimoni audaci del Vangelo capaci di portare la lieta notizia dei poveri e la lieta notizia ai poveri, ricucire gli strappi e seminare la speranza!
E anche voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me.
Grazie.
Al caro Fratello
Mons.
Vincenzo Zani
Bibliotecario e Archivista di Santa Romana Chiesa
Nella ricorrenza del 750° anniversario della morte di San Bonaventura da Bagnoregio e di San Tommaso d’Aquino, la Biblioteca Apostolica Vaticana propone la mostra “Il libro e lo spirito”, dedicata ai due Dottori, di cui essa conserva, tra i suoi tesori, autografi, codici delle opere e documenti relativi alla vita e all’attività.
Mi congratulo per questa opportuna iniziativa.
Già Papa Sisto IV, nel 1475, inaugurò i primi locali della Biblioteca Vaticana proprio in concomitanza con il secondo centenario della morte dei due Santi, non a caso raffigurati insieme, dal Ghirlandaio, nella decorazione della Bibliotheca Latina, tra i grandi autori antichi e cristiani.
Poco più di un secolo dopo, Papa Sisto V – il Pontefice che ha dotato la Biblioteca della sua attuale sede – in un documento [1] poi ripreso da Papa Leone XIII, [2]li associava all’immagine biblica dei «due olivi e i due candelabri che stanno davanti al Signore della terra» ( Ap 11,4).
Di fatto, essi continuano ancora oggi a rappresentare delle fonti di luce e di ispirazione per la Chiesa e per la cultura.
Sono “luminari” per un approccio al sapere, e in particolare alla teologia, in cui si compenetrino e si nutrano reciprocamente la profondità intellettuale e la vita spirituale, la scienza e la sapienza, l’umiltà e la carità, nella disposizione a non trattenere per sé i frutti della speculazione, bensì a condividerli con generoso slancio pastorale e missionario.
In questo senso il Doctor Communis e il Doctor Seraphicus costituiscono una preziosa “compagnia” per ciascun pellegrino in cammino verso Cristo, tracciando un percorso descritto dal primo come “via” dell’intelligenza illuminata dalla fede, dal secondo come “itinerario” della mente, che dalla contemplazione del creato sale verso Dio.
Pensiamo allo sguardo “trinitario” che San Bonaventura propone sulle creature e sulle loro relazioni, [4] con un’integrazione tra “santità dell’intelligenza” e “intelligenza della santità”, che si evince prima di tutto dall’esempio della loro vita.
Ed è proprio questo l’elemento unificante che emerge dalla mostra, allestita dalla Biblioteca Vaticana con l’inserimento in programma anche di una giornata di studio sui due Dottori, alla quale sono invitate tutte le Università e Facoltà Pontificie Romane.
Va lodata inoltre la collaborazione internazionale che si è sviluppata attorno al progetto, con il coinvolgimento dell’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede, del Centro San Luigi di Roma, della Commissione Leonina, delle Pontificie Università Angelicum, Antonianum e Gregoriana, e dell’Università di Parigi I Sorbona, dove sia San Tommaso sia San Bonaventura si sono formati come Maestri di Teologia.
Cinquant’anni fa San Paolo VI, in occasione dell’analoga esposizione realizzata per il settimo centenario della morte dei due grandi Santi, ne sottolineava l’importanza, definendo in particolare l’ Angelico come «Luminare della Chiesa e del mondo intero».
[5] Più recentemente, Papa Benedetto XVI, studioso del pensiero e dell’opera del Serafico, in una delle sue catechesi ne richiamava l’elogio, composto da un anonimo notaio pontificio: «Uomo buono, affabile, pio e misericordioso, colmo di virtù, amato da Dio e dagli uomini.
[...] Dio infatti gli aveva donato una tale grazia, che tutti coloro che lo vedevano erano pervasi da un amore che il cuore non poteva celare».
La presente mostra, ponendosi in questa scia, vuole contribuire a trovare oggi linguaggi e strumenti adeguati, affinché il pensiero dei due “giganti” della dottrina cattolica possa continuare a diffondersi, raggiungendo tutti.
Nelle pitture della Bibliotheca Latina San Bonaventura e San Tommaso recano tra le mani cartigli, su cui campeggiano frasi a loro attribuite, complementari nel significato.
San Tommaso “dice”: « Sacrae doctrinae finis est beatitudo aeterna»; San Bonaventura “risponde”: « Fructus Scripturae est plenitudo aeternae felicitatis».
[8] E veramente i due santi maestri ci insegnano a guardare alla felicità eterna come supremo frutto della sapienza, della scienza e della carità, spronandoci a farci pellegrini nella fede, perché «la testimonianza credente possa essere nel mondo lievito di genuina speranza», [9] fiamma che illumina tracciando un cammino.
Caro Fratello, Le esprimo il mio apprezzamento per questa iniziativa, per la quale auspico il miglior successo.
Ringrazio Lei e quanti hanno collaborato a prepararla e organizzarla, e invio Loro di cuore la mia benedizione.
Dal Vaticano, 4 ottobre 2024
Francesco
___________________________________________________
[1] Cfr Sisto V, Bolla Triumphantis Hierusalem, 14 marzo 1588, 13.
[2] Cfr.
Leone XIII, Lett.
Enc.
Aeterni Patris, 4 agosto 1879.
[3] Cfr Lett.
Ap.
Ad theologiam promovendam, 1° novembre 2023, 8.
[4] Cfr Lett.
Enc.
Laudato si’, 24 maggio 2015, 239-240.
[5] S.
Paolo VI, Lett.
Ap.
Lumen ecclesiae, 20 novembre 1974, 1.
[6] J.G.
Bougerol, Bonaventura, in A.
Vauchez (a cura), Storia dei santi e della santità cristiana. Vol.
VI. L’epoca del rinnovamento evangelico, Milano 1991, p.
91; citato da Benedetto XVI, Udienza generale, 3 marzo 2010.
[7] Cfr Lettera per il VII Centenario della canonizzazione di san Tommaso d’Aquino, 30 giugno 2023.
[8] Cfr Biblioteca Apostolica Vaticana, San Tommaso e San Bonaventura nella Biblioteca Vaticana.
Mostra in occasione del VII Centenario (1274-1974).
Catalogo, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano, 1974, pp.
5-6.
[9] Cfr Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025 “Spes non confundit”, 9 maggio 2024.
Cari fratelli, benvenuti, buongiorno!
Saluto il Superiore Generale e tutti voi, Passionisti o “appassionati”!
Sono lieto di incontrarvi in questo momento nel quale vi accingete a concludere il vostro Capitolo Generale, che si è interrogato su come rispondere in modo adeguato al nostro tempo tumultuoso – tutti i tempi sono stati tumultuosi – e come rispondere all’iniziativa di Dio, che sempre chiama a cooperare al suo piano di salvezza.
[breve dialogo: È stato un capitolo elettivo? ...
Sei stato eletto tu? ...
E il predecessore chi era? … Sei stato liberato! Va bene, complimenti].
Lo avete fatto riflettendo in modo particolare sulle parole rivolte da Dio al profeta Isaia: «Chi manderò e chi andrà per noi?» (Is 6,8) e meditando l’invito di Gesù dinanzi alle attese del Regno: «Pregate il Signore della messe perché mandi operai nella sua messe» (Lc 10,3).
[dialogo: E quanti novizi avete? – 150 – E da quali parti sono? – Da tutto il mondo, soprattutto Asia – Anche dall’Europa? – Anche Europa – La vecchia Europa…].
Alla domanda del profeta Isaia, per ripartire come annunciatori del Crocifisso Risorto, con le labbra purificate con il fuoco dell’amore, che si attinge nella contemplazione del mistero, occorre di nuovo rispondere «Eccomi manda me» (Is 6,8).
Si rinnoveranno in tal modo le energie missionarie anche in vista dell’imminente Giubileo.
È auspicabile, anzi è necessaria, una missione che si proponga l’obbiettivo di raggiungere il più vasto numero di persone possibile, poiché tutti, nessuno escluso, hanno un estremo bisogno della luce del Vangelo.
Senza rinunciare ai consueti metodi di azione pastorale, vi auguro di individuare anche nuovi percorsi e creare nuove occasioni per facilitare l’incontro tra le persone e l’incontro con il Signore, il quale non abbandona nessuno, ma «vuole che tutti gli uomini siano salvati ed arrivino alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,4).
Occorre dunque uscire per le strade, le piazze e vicoli del mondo, per non anchilosarsi ed ammuffire, e come prova della propria fede gioiosa e feconda.
Tuttavia tale uscita potrà essere efficace solo se scaturisce dalla pienezza d’amore a Dio e all’umanità, vissuta nella vita contemplativa, nelle relazioni fraterne della comunità e nel reciproco sostegno.
Vita contemplativa e rapporti con la comunità.
Non lasciare la vita contemplativa! Voi avete una ricca traduzione di vita contemplativa.
E questo in modo da camminare insieme, sperimentando la presenza del Signore in mezzo a voi.
Per creare eventi di evangelizzazione, presentando la sublime bellezza della Persona di Cristo insieme al volto di una Chiesa attraente, accogliente e capace di coinvolgere nell’impegno, occorre perciò un costante radicamento nella preghiera e nella Parola di Dio.
Questo radicamento nella preghiera è una parte importante nella vostra tradizione: il ritirarsi per la preghiera e la contemplazione, a volte alcuni mesi o a volte tutti i giorni o parte del giorno.
Siate fedeli al compito di tener vivo il prezioso carisma di San Paolo della Croce.
L’evangelizzazione, basata sulla buona testimonianza di sé, sul kèrigma, sulle omelie, annuncia l’amore di Dio che si dona nel Figlio per la salvezza umana.
Il vostro Fondatore ha colto tutto questo nella sua radice e rapito da questo mistero, guidato dallo Spirito, si trovò immerso in un’esperienza spirituale che l’ha reso uno dei più famosi mistici del suo tempo.
La sua più originale intuizione fu che la morte di Gesù in Croce è la manifestazione suprema dell’amore di Dio.
Esso è il miracolo dei miracoli dell’amor divino, la porta per entrare nell’intimità della preghiera e dell’unione con Lui, la scuola per imparare tutte le virtù, l’energia che rende capaci di sopportare ogni dolore.
Nello stesso tempo il vostro Fondatore fu tormentato dalla percezione che l’umanità non è pienamente consapevole di questo amore.
«L’amore di Dio non è conosciuto, non è apprezzato», esclamava.
Da questa esperienza interiore scaturì la determinazione di radunare compagni che stessero immersi nella contemplazione di quell’amore e fossero pronti ad annunciarlo.
Con la gioia e la forza di questa appartenenza carismatica, i passionisti sappiano anche annunciare la presenza del Crocifisso Risorto nelle sofferenze dei nostri giorni.
Ne conosciamo la vastità e la devastazione nella povertà, nelle guerre, nei gemiti della creazione, nei perversi dinamismi che producono divisioni tra le persone e lo scarto dei deboli.
Si compia tutto il possibile per evitare che il dolore dei nostri fratelli rimanga senza senso e si risolva in uno spreco di umanità e disperazione.
Nelle spire di questo dolore Cristo è passato sofferente e crocifisso, vivendo nell’amore ogni trafittura ed offrendo un senso al dolore offerto per amore.
Il vostro Capitolo si è svolto in contemporanea con la convocazione del Sinodo dei Vescovi sulla sinodalità e non lontano dall’apertura del Giubileo, che ha tra i suoi temi principali, quello della speranza.
La virtù della speranza ha un rapporto particolare con il carisma dei passionisti.
Infatti la sua ragione teologica è la morte e risurrezione di Cristo.
Il sangue ed acqua che fluiscono dal suo cuore dicono che oltre la morte la vita continua, l’amore si effonde sull’umanità nel dono dello Spirito, comunicandosi con una potenza che nessuno può eliminare.
Se nulla può soffocare nell’essere umano la capacità di amare, allora nulla è perduto, tutto ritrova senso e valore, tutto è salvato.
Su questa certezza di fede è arroccata la speranza.
Sentitevi inoltre attratti dalla sollecitudine della Vergine Maria che, agli albori della sua speciale missione nel progetto salvifico del Padre, uscì in fretta verso la montagna, dove si fece dono nell’aiuto all’anziana parente.
Dichiaratasi serva del Signore si pose al servizio del prossimo e venne proclamata Madre del Signore dalla cugina Elisabetta.
Sull’esempio e mediante l’intercessione della Vergine Maria - la quale sul Calvario di fronte al Figlio morente vive «la più profonda “kenosi” della fede della storia dell’umanità» (S.
Giovanni Paolo II, Lett.
Enc.
Redemptoris Mater, 18) - i passionisti vivano la loro consacrazione e missione, consapevoli dell’urgenza di diffondere il messaggio di salvezza.
Non è la fretta dell’orologio, krónos, ma quella della grazia, kairós, dell’amore che corre per raggiungere lo scopo, come l’onda del mare ha fretta di toccare la riva.
Un amore che si esprime con la parola che è l’eco della Parola di verità, con il gesto che solleva il povero e il bisognoso, o con il semplice silenzio nello stare vicino a chi soffre.
Dio benedica ciascuno di voi, la vostra Congregazione e la vostra missione!
Cari fratelli e sorelle, Eminenza, buongiorno!
Saluto Padre Vincenzo Cosatti e tutti voi.
Sono contento di incontrarvi in occasione del 250° anniversario dell’affidamento ai Frati Minori Conventuali del ministero delle Confessioni nella Basilica di San Pietro (cfr Clemente XIV, Motu proprio Miserator Dominus, 10 agosto 1774).
Lo ha fatto Clemente XIV, forse una delle cose buone che ha fatto.
Ma, poveretto, le altre le ha fatte per ispirazione di questo frate vostro, Bontempi, che credo sia ancora all’inferno [ridono], ma non sono sicuro.
Quando è morto Clemente XIV, Bontempi se n’è andato a rifugiarsi all’Ambasciata di Spagna, perché aveva paura.
Passati alcuni mesi, quando c’era la pace, è andato dal Generale e gli ha detto: “Padre Generale, io porto tre Bolle qui.
[In cambio chiedo] primo, che io possa avere denaro – francescano! –; secondo, che possa vivere fuori dalla comunità; e terzo, che possa viaggiare dove voglio”.
E il Generale, un saggio conventuale, prese le Bolle: “Ma caro ne manca una” – “Quale, Padre?”.
“Quella che assicuri la salvezza della tua anima!”.
Questo è storico, perché lui aveva ingannato Papa Ganganelli con tutte queste cose.
Bontempi era un furbone!
Ogni giorno la Basilica di San Pietro è visitata da più di quarantamila persone, ogni giorno! Molte arrivano da lontano e affrontano viaggi, spese e lunghe code per potervi giungere; altri vengono per turismo, la maggioranza.
Ma tra loro tantissimi vengono a pregare sulla tomba del Primo degli Apostoli, per confermare la loro fede e la loro comunione con la Chiesa e affidare al Signore intenzioni care, o per sciogliere voti che hanno fatto.
Altri, anche di fedi diverse, vi entrano “da turisti”, attratti dalla bellezza, dalla storia, dal fascino dell’arte.
Ma in tutti c’è, consapevole o inconsapevole, un’unica grande ricerca: la ricerca di Dio, Bellezza e Bontà eterna, il cui desiderio vive e pulsa in ogni cuore d’uomo e di donna che vive in questo mondo.
Il desiderio di Dio.
E la vostra presenza in tale contesto è importante.
Per i fedeli e i pellegrini, perché permette loro di incontrare il Signore della misericordia nel Sacramento della Riconciliazione.
Carissimi, perdonare tutto, tutto, tutto.
Fatelo sempre: perdonare tutto! Noi siamo per perdonare, qualcun altro sarà per litigare! E per tutti gli altri, perché testimonia loro che la Chiesa li accoglie prima di tutto come comunità di salvati, di perdonati, che credono, sperano e amano nella luce e con la forza della tenerezza di Dio.
Fermiamoci perciò un momento a riflettere sul ministero che svolgete, sottolineandone tre aspetti particolari: l’umiltà, l’ascolto e la misericordia.
Primo: l’umiltà.
Ce la insegna l’Apostolo Pietro, discepolo perdonato, che arriva a versare il suo sangue nel martirio solo dopo aver pianto umilmente per i propri peccati (Lc 22,56-62).
Egli ci ricorda che ogni Apostolo – e ogni Penitenziere – porta il tesoro di grazia che dispensa in un vaso di creta, «affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi» (2Cor 4,7).
Perciò, cari fratelli, per essere buoni confessori, facciamoci «noi per primi penitenti in cerca di perdono» (Bolla Misericordiae Vultus, 17), diffondendo sotto le volte imponenti della Basilica Vaticana il profumo di una preghiera umile, che implora e impetra pietà.
Secondo: l’ascolto, per tutti, e specialmente per i giovani e per i piccoli.
È la testimonianza di Pietro pastore, che cammina in mezzo al suo gregge e che cresce nell’ascolto dello Spirito attraverso la voce dei fratelli (At 10,34-48).
Ascoltare non è infatti solo stare a sentire ciò che le persone dicono, ma prima di tutto accogliere le loro parole come dono di Dio per la propria conversione, docilmente, come argilla nelle mani del vasaio (cfr Is 64,7).
Ci farà bene, in proposito, non dimenticare mai che «Ascoltando davvero il fratello nel colloquio sacramentale, noi ascoltiamo Gesù stesso, povero ed umile […] diventiamo uditori della Parola» (Discorso ai partecipanti al Corso sul Foro interno organizzato dalla Penitenzieria Apostolica, 9 marzo 2018), e che solo così possiamo sperare di offrirgli il servizio più grande: quello di metterlo «in contatto con Gesù» (ivi).
Ascoltare, non tanto domandare; non fare lo psichiatra, per favore: ascoltare, ascoltare sempre, con mitezza.
E quando vedi che c’è un penitente che comincia ad avere un po’ di difficoltà, perché si vergogna, dire “ho capito”; non ho capito nulla, ma ho capito; Dio ha capito e quello è importante.
Questo me lo ha insegnato un grande Cardinale penitenziere: “Ho capito”, il Signore ha capito.
Ma per favore non fare lo psichiatra, quanto meno parli meglio è: ascolta, consola e perdona.
Tu stai lì per perdonare!
Infine, terzo: la misericordia.
Come dispensatori del perdono di Dio, è importante essere “uomini di misericordia”, uomini solari, generosi, pronti a comprendere e a consolare, nelle parole e negli atteggiamenti.
Anche qui Pietro ci è di esempio, con i suoi discorsi intrisi di perdono (cfr At 3,12-20).
Il confessore – vaso di argilla, come abbiamo detto – ha un’unica medicina da versare sulle piaghe dei fratelli: la misericordia di Dio.
Quei tre aspetti di Dio: vicinanza, misericordia e compassione.
Il confessore deve essere vicino, misericordioso e compassionevole.
Quando un confessore comincia a chiedere… No, stai facendo lo psichiatra, fermati, per favore.
Questo lo insegnava San Leopoldo Mandić, che amava ripetere: «Perché dovremmo noi umiliare maggiormente le anime che vengono a prostrarsi ai nostri piedi? Non sono già abbastanza umiliate? Ha forse Gesù umiliato il pubblicano, l’adultera, la Maddalena?»; e aggiungeva: «E se il Signore mi rimproverasse di troppa larghezza potrei dirgli: “Paron benedeto, questo cattivo esempio me l’avete dato voi, morendo sulla croce per le anime, mosso dalla vostra divina carità”» (cfr Lorenzo da Fara, Leopoldo Mandic.
L’umanità, la santità, Velar, 1989).
Ci dia il Signore la grazia di poter ripetere le stesse parole!
Alcune volte ho raccontato la storia di quel Cappuccino che è confessore a Buenos Aires – non so se a voi l’ho raccontata –, l’ho fatto Cardinale non questa volta, l’altra.
Ha 96 anni e continua a confessare; io andavo da lui, perdona tutto! Una volta è venuto a dirmi che aveva paura di perdonare troppo.
“E cosa fai?”, gli ho detto io.
“Vado davanti al Signore: Signore mi perdoni? Scusami, ho perdonato troppo! Ma stai attento che sei stato Tu a darmi il cattivo esempio!”.
Sempre perdonare, tutto e senza domandare tante cose.
E se non capisco? Dio capisce, tu vai avanti! Che sentano la misericordia.
Cari fratelli, grazie per il vostro servizio, per la vostra assiduità e pazienza, per la vostra fedeltà! È morto il mio confessore alcuni mesi fa, vado a confessarmi da voi, a San Pietro.
Fate bene! Grazie per essere, nel cuore della Chiesa, ministri della presenza sacramentale di Dio-amore.
Continuate così il vostro ministero: nell’umiltà – io sono peggio di te –; nell’ascolto, e non tanto nelle domande; e nella misericordia.
Mi raccomando, non dimenticatevi di pregare per me.
E ogni volta che verrò da voi, perdonarmi, si capisce.
Al caro fratello
Cardinale José Tolentino de Mendonça
Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione.
Sono lieto di rivolgerLe un messaggio in occasione del Premio delle Pontificie Accademie.
Onoriamo la ricerca, la passione, e l’impegno di giovani studiosi che hanno scelto di dedicare la loro fatica intellettuale e il loro amore per il sapere all’interpretazione di un patrimonio linguistico e culturale d’inestimabile valore, quale è il latino.
Oggi la Pontificia Academia Latinitatis assegna due importanti riconoscimenti su altrettanti temi impegnativi: De rerum natura, sul latino e le scienze, e De re publica, sul latino e la politica.
Desidero innanzitutto congratularmi con i premiati, per il loro impegno verso la lingua latina e la sua rilevanza nel mondo contemporaneo, come testimoniano le ricerche del professor Enrico Piergiacomi, attivo presso il Department of Humanities and Arts dell’Israel Institute of Technology - Technion di Haifa, focalizzate sull'intersezione tra il pensiero classico e le scienze moderne.
In particolare, il gruppo di studiosi collaboratori all’edizione nazionale dell’Opera Mathematica di Francesco Maurolico sta compiendo un prezioso lavoro di valorizzazione del grande erudito messinese del XVI secolo, che non è stato solamente un matematico, ma anzitutto un sacerdote e un umanista.
Il latino è un tesoro di sapere e di pensiero, una chiave per accedere ai testi classici che hanno forgiato il nostro mondo.
Rappresenta le radici della civiltà occidentale e, in molti modi, la nostra stessa identità.
È una lingua che abbraccia la filosofia, la scienza, l’arte e la politica, dimostrando così il suo valore intrinseco di strumento di riflessione e di dialogo, quanto mai necessario in un mondo frammentato come il nostro.
In proposito, i premiati ci offrono una visione contemporanea e fresca di come questo antico idioma possa ancora parlarci e stimolare la nostra riflessione.
La loro ricerca non solo indaga il pensiero dei grandi maestri del passato, ma integra il loro sapere in un contesto moderno, avvicinandolo alle sfide del nostro tempo.
L’opera di chi ha partecipato al bando di concorso ci invita a esplorare il nesso tra il sapere scientifico e quello politico, sotto l’egida di un linguaggio che vanta una storia millenaria.
Il tema De rerum natura ci fa pensare alle meraviglie della creazione.
In un’epoca in cui siamo sempre più consapevoli della fragilità dell’ambiente, la riflessione sul mondo naturale diventa cruciale.
La scienza ci offre strumenti per comprendere le leggi della natura, per esplorare il mistero della vita e per affrontare le sfide ecologiche.
Tuttavia è solo attraverso un’interpretazione etica, culturale e spirituale che possiamo veramente afferrare il significato profondo del cosmo che ci circonda e di cui siamo parte.
La visione della natura, nella sua totalità, come dono di Dio, ci invita a riflettere sulla nostra responsabilità nei confronti della casa comune.
Scienza e fede possono e devono dialogare: sono infatti entrambe chiamate a guidare la nostra comprensione del mondo.
In particolare, il premio che avete conferito ci ricorda che la scienza non può ridursi a mera accumulazione di dati, ma deve aiutare a cogliere la complessità e la bellezza del creato.
Il tema De re publica ci sollecita a esplorare i fondamenti e le strutture della politica, riflettendo sul bene comune e sulla giustizia.
In tempi d’instabilità sociale la tradizione latina è un valore, perché promuove uno stretto legame tra “cosa pubblica” e principi fondamentali della riflessione.
La politica, quando esercitata con onestà e integrità, è un’arte nobile, una vocazione al servizio della comunità, mai dell’interesse privato.
La proposta di un ethos radicato nei valori umanistici è perciò una chiamata ad azioni responsabili, in un clima di dialogo, di rispetto e di inclusione.
La politica deve affrontare le disuguaglianze e promuovere il bene di tutti, in particolare dei più vulnerabili.
La formazione umana e culturale gioca qui un ruolo essenziale: solo cittadini ben formati e consapevoli possono essere attori di sani cambiamenti nella società.
In definitiva, riflettendo su questi due ambiti di studio, De rerum natura e De re publica, vediamo come il latino prepari un terreno fertile di esplorazione e di sintesi tra scienza, cultura e politica.
La ricerca scrupolosa e sistematica dei premiati non è dunque solo un contributo accademico, ma una vera e propria chiamata rivolta a ciascuno di noi.
Per questo motivo, l’incontro di oggi non si riduce a celebrare la ricerca, ma ci invita a riaffermare il nostro impegno verso una cultura della crescita integrale dell’uomo (cfr Concilio Vaticano II, Cost.
past.
Gaudium et spes, 40).
Chiediamoci, allora: come possiamo tradurre nella vita quotidiana le scoperte che oggi premiamo? Come possiamo incoraggiare le nuove generazioni a intraprendere sentieri di ricerca, a interrogarsi e a non avere paura di esplorare? Come possiamo infondere nei giovani il gusto della cultura e della scienza?
L’intraprendenza del pensiero e la creatività, tanto care alla Chiesa, sgorgano dalla riscoperta della bellezza di un sapere capace di formare cuori e menti, di creare ponti e di abbattere muri.
E in questo senso il latino, e con esso il patrimonio intellettuale dell’umanità, possono diventare strumenti di armonia tra i popoli, di promozione del rispetto reciproco e della dignità umana.
Auspico perciò che il premio conferito oggi diventi un segno di speranza e che la passione dei premiati ispiri altri al medesimo impegno.
Li ringrazio per la dedizione e il lavoro svolto, come pure ringrazio i membri della Pontificia Academia Latinitatis e tutti i presenti.
Eminenza Reverendissima, esprimendo la mia gioia per questa iniziativa, imparto la Benedizione Apostolica, che estendo a tutti i collaboratori e membri delle Pontificie Accademie.
Renda il Signore sempre più fruttiferi i vostri sforzi e il vostro impegno.
Dal Vaticano, 23 ottobre 2024
FRANCESCO
Il testo qui di seguito include anche parti non lette che sono date ugualmente come pronunciate.
Ciclo di Catechesi.
Lo Spirito e la Sposa.
Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza. 10. “Lo Spirito dono di Dio”.
Lo Spirito Santo e il sacramento del matrimonio
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Abbiamo spiegato la volta scorsa ciò che, dello Spirito Santo, proclamiamo nel credo.
La riflessione della Chiesa, però, non si è fermata a quella breve professione di fede.
Essa è proseguita, sia in Oriente che in Occidente, per opera di grandi Padri e Dottori.
Oggi, in particolare, vorremmo raccogliere qualche briciola della dottrina dello Spirito Santo sviluppatasi nella tradizione latina, per vedere come essa illumini tutta la vita cristiana e in modo particolare il sacramento del matrimonio.
L’artefice principale di tale dottrina è sant’Agostino, che ha sviluppato la dottrina sullo Spirito Santo.
Egli parte dalla rivelazione che «Dio è amore» ( 1Gv 4,8).
Ora l’amore suppone uno che ama, uno che è amato e l’amore stesso che li unisce.
Il Padre è, nella Trinità colui che ama, la fonte e il principio di tutto; il Figlio è colui che è amato, e lo Spirito Santo è l’amore che li unisce [1].
Il Dio dei cristiani dunque è un Dio “unico”, ma non solitario; la sua è una unità di comunione, di amore.
In questa linea, qualcuno ha proposto di chiamare lo Spirito Santo, non “la terza persona” singolare della Trinità, ma piuttosto “la prima persona plurale”.
Egli, in altre parole, è il Noi, il Noi divino del Padre e del Figlio, il vincolo di unità tra diverse persone [2], principio stesso dell’unità della Chiesa, che è appunto un “corpo solo” risultante da più persone.
Come ho detto, oggi vorrei riflettere con voi in particolare su ciò che lo Spirito Santo ha da dire alla famiglia.
Che cosa può avere a che fare lo Spirito Santo con il matrimonio, per esempio? Moltissimo, forse l’essenziale, e cerco di spiegare perché! Il matrimonio cristiano è il sacramento del farsi dono, l’uno per l’altra, dell’uomo e della donna.
Così lo ha pensato il Creatore quando «creò l'uomo a sua immagine […]: maschio e femmina li creò» (Gen 1,27).
La coppia umana è perciò la prima e più elementare realizzazione della comunione d’amore che è la Trinità.
Anche gli sposi dovrebbero formare una prima persona plurale, un “noi”.
Stare l’uno davanti all’altro come un “io” e un “tu”, e stare di fronte al resto del mondo, compresi i figli, come un “noi”.
Come è bello sentire una madre che dice ai figli: «Tuo padre ed io…», come disse Maria a Gesù, quando lo ritrovarono dodicenne nel tempio insegnando ai Dottori (cfr Lc 2,48), e sentire un padre che dice: «Tua madre ed io», quasi fossero un unico soggetto.
Quanto bisogno hanno i figli di questa unità - papà e mamma insieme -, unità dei genitori e quanto soffrono quando essa viene meno! Quanto soffrono i figli dei padri che si separano, quanto soffrono!
Per corrispondere a questa vocazione, però, il matrimonio ha bisogno del sostegno di Colui che è il Dono, anzi il donarsi per eccellenza.
Dove entra lo Spirito Santo la capacità di donarsi rinasce.
Alcuni Padri della Chiesa hanno affermato che, essendo il dono reciproco del Padre e del Figlio nella Trinità, lo Spirito Santo è anche la ragione della gioia che regna tra essi, e non hanno avuto paura di usare, parlandone, l’immagine di gesti propri della vita coniugale, quali il bacio e l’abbraccio [3].
Nessuno dice che tale unità sia un traguardo facile, meno che meno nel mondo d’oggi; ma questa è la verità delle cose come le ha pensate il Creatore ed è perciò nella loro natura.
Certo, può sembrare più facile e più sbrigativo costruire sulla sabbia che non sulla roccia; ma Gesù ci dice qual è il risultato (cfr Mt 7,24-27).
In questo caso, poi, non abbiamo bisogno neppure della parabola, perché le conseguenze dei matrimoni costruiti sulla sabbia sono, purtroppo, sotto gli occhi di tutti e a farne le spese sono soprattutto i figli.
I figli soffrono la separazione o la mancanza di amore dei genitori! Di tanti sposi si deve ripetere quello che Maria disse a Gesù, a Cana di Galilea: «Non hanno vino» (Gv 2,3).
Lo Spirito Santo è colui che continua a fare, sul piano spirituale, il miracolo che fece Gesù in quella occasione, e cioè cambiare l’acqua dell’abitudine in una nuova gioia di stare insieme.
Non è una pia illusione: è ciò che lo Spirito Santo ha fatto in tanti matrimoni, quando gli sposi si sono decisi a invocarlo.
Non sarebbe male, perciò se, accanto alle informazioni di natura giuridica, psicologica e morale che si danno, nella preparazione dei fidanzati al matrimonio si approfondisse questa preparazione “spirituale”, lo Spirito Santo che fa l’unità.
“Tra moglie e marito non mettere il dito”, dice un proverbio italiano.
C’è invece un “dito” da mettere tra moglie e marito, ed è proprio il “dito di Dio”: cioè lo Spirito Santo!
_____________________________________________
[1] Cfr S.
Agostino, De Trinitate, VIII,10,14.
[2] Cfr H.
Mühlen, Una mystica persona. La Chiesa come il mistero dello Spirito Santo, Città Nuova, 1968.
[3] Cfr S.
Ilario di Poitiers, De Trinitate, II,1; S.
Agostino, De Trinitate, VI, 10,11.
___________________________________________________________
Saluti
Je salue cordialement les pèlerins de langue française, en particulier les directeurs d’écoles catholiques de Paris et de Besançon, les jeunes confirmés de Bayeux et Lisieux accompagnés de leur évêque, les membres de la télévision catholique francophone.
Je vous encourage à invoquer l’Esprit Saint dans les familles car il est le lien d’amour qui vient tout renouveler.
Dieu vous bénisse !
[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese, in particolare i direttori delle scuole cattoliche di Parigi e Besançon, i giovani cresimati di Bayeux e Lisieux accompagnati dal loro Vescovo, i membri della televisione cattolica francofona.
Vi incoraggio a invocare lo Spirito Santo nelle vostre famiglie, perché è il legame d'amore che rinnova tutto.]
I extend a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors, especially those coming from England, Denmark, Norway, Madagascar, India, Indonesia, Japan, the Philippines, Canada and the United States.
Upon all of you, and upon your families, I invoke the joy and peace of our Lord Jesus Christ.
God bless you!
[Saluto i pellegrini di lingua inglese, specialmente quelli provenienti da Inghilterra, Danimarca, Norvegia, Madagascar, India, Indonesia, Giappone, Filippine, Canada e Stati Uniti.
Su tutti voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace del Signore nostro Gesú Cristo.
Dio vi benedica!]
Herzlich grüße ich die Pilger deutscher Sprache, besonders die Schüler und Schülerinnen des Sankt Raphael Gymnasiums in Heidelberg.
Bitten wir den Heiligen Geist, dass wir mit seiner Hilfe beständig in der Einheit mit Gott und den Brüdern und Schwestern wachsen.
Bleiben wir in seiner Freude!
[Un cordiale saluto ai pellegrini di lingua tedesca, in particolare agli alunni del Sankt Raphael Gymnasium a Heidelberg.
Preghiamo lo Spirito Santo perché con il suo aiuto possiamo costantemente crescere nell’unità con Dio e i fratelli.
Rimaniamo nella sua gioia!]
Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española.
Veo que hay tantos aquí, tantas banderas y la imagen de la Virgen de Guadalupe.
Los invito a que invoquemos siempre al Espíritu Santo para que renueve el amor y la unión en los matrimonios cristianos y en todas las familias.
Que Jesús los bendiga y que la Virgen Santa los cuide.
Muchas gracias.
Saúdo cordialmente os fiéis de língua portuguesa, de modo especial os peregrinos da Paróquia São Vicente de Paulo, em São Paulo.
Roguemos ao Espírito Santo para que possa inspirar nas famílias aquela comunhão que se fundamenta no Amor.
Deus vos abençoe!
[Saluto cordialmente i fedeli di lingua portoghese, in modo speciale i pellegrini della Parrocchia San Vincenzo de Paoli di San Paolo.
Preghiamo lo Spirito Santo affinché possa ispirare nelle famiglie quella comunione che si basa sull’Amore.
Dio vi benedica!]
أُحَيِّي المُؤمِنينَ النَّاطِقينَ باللغَةِ العربِيَّة، وخاصَّةً القادِمينَ مِن لبنان.
لِنَطلُبْ شفاعةَ القدِّيسينَ الجُدُد، الرُّهبانِ الفرنسيسكان والإخوةِ المسابكيِّين، لكي نستطيعَ نحن أيضًا أن نَتبَعَ المسيحَ في الخِدمَة، ونصيرَ شهودَ رجاءٍ للعالم.
باركَكُم الرّبُّ جَميعًا وحَماكُم دائِمًا مِن كُلِّ شَرّ!
[Saluto i fedeli di lingua araba, in particolare quelli provenienti dal Libano.
Chiediamo l’intercessione dei nuovi Santi, i frati Francescani e i fratelli Massabki, perché anche noi possiamo seguire Cristo nel servizio e diventare testimoni di speranza per il mondo.
Il Signore vi benedica tutti e vi protegga sempre da ogni male!]
Pozdrawiam serdecznie wszystkich Polaków.
Wczoraj wspominaliśmy w liturgii św.
Jana Pawła II.
Był on, jak powiedziałem podczas jego kanonizacji, Papieżem rodzin.
Wam Polakom stale przypominał, że rodzina musi być Bogiem silna.
Prośmy o moc Ducha Świętego dla wszystkich rodzin.
Niech odradza w nich zdolność dawania siebie i radość z bycia razem.
Z serca wam błogosławię.
[Saluto cordialmente tutti i polacchi.
Ieri abbiamo ricordato nella liturgia San Giovanni Paolo II.
Egli è stato, come ho detto in occasione della sua canonizzazione, il Papa delle famiglie.
Ricordava costantemente a voi polacchi che la forza della famiglia deve venire da Dio.
Chiediamo la forza dello Spirito Santo per tutte le famiglie, affinché possa far rivivere in loro la capacità di donarsi e la gioia di stare insieme.
Vi benedico di cuore.]
* * *
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana.
In particolare, saluto le parrocchie di San Giovanni Battista, in Celano; Sacro Cuore di Gesù, in San Ferdinando di Puglia; Santi Filippo e Giacomo, in Aversa; come pure l’Associazione Comunità Emmanuel, di Faicchio.
Con la forza dello Spirito Santo, siate coraggiosi e lieti testimoni di Gesù in famiglia, in parrocchia e in ogni ambiente.
Il mio pensiero va infine ai giovani, agli ammalati, agli anziani e agli sposi novelli.
Il mese di ottobre ci invita a rinnovare la nostra attiva cooperazione alla missione della Chiesa.
Sappiate essere missionari del Vangelo dappertutto, offrendo il sostegno spirituale della preghiera e il vostro concreto aiuto a quanti faticano per portarlo a chi ancora non lo conosce.
Fratelli e sorelle preghiamo per la pace! Oggi, al mattino presto, ho ricevuto le statistiche dei morti in Ucraina: è terribile! La guerra non perdona; la guerra è una sconfitta dall’inizio.
Preghiamo il Signore per la pace, che dia pace a tutti, a tutti noi.
E non dimentichiamo il Myanmar; non dimentichiamo la Palestina che sta soffrendo attacchi inumani; non dimentichiamo Israele e non dimentichiamo tutte le nazioni che sono in guerra.
C’è una cifra, fratelli e sorelli, che deve spaventarci: gli investimenti che oggi danno più guadagno sono nelle fabbriche di armi.
Guadagnare con la morte! Preghiamo per la pace, tutti insieme.
E a tutti la mia benedizione!
Prima della conclusione di questa Celebrazione eucaristica, ringrazio tutti voi, venuti a onorare i nuovi Santi.
Saluto i Cardinali, i Vescovi, i sacerdoti, le persone consacrate, in particolare i Frati Minori e i fedeli Maroniti, i Missionari e le Missionarie della Consolata, le Piccole Suore della Santa Famiglia e le Oblate dello Spirito Santo, come pure gli altri gruppi di pellegrini venuti da vari luoghi.
Un deferente saluto rivolgo al Presidente della Repubblica Italiana, alle altre Delegazioni ufficiali e alle Autorità civili.
Saluto il folto gruppo di pellegrini Ugandesi, con il Vice Presidente del Paese, venuti a sessant’anni dalla canonizzazione dei Martiri dell’Uganda.
La testimonianza di San Giuseppe Allamano ci ricorda la necessaria attenzione verso le popolazioni più fragili e più vulnerabili.
Penso in particolare al popolo Yanomami, nella foresta amazzonica brasiliana, tra i cui membri è avvenuto proprio il miracolo legato alla canonizzazione odierna.
Faccio appello alle autorità politiche e civili, affinché assicurino la protezione di questi popoli e dei loro diritti fondamentali e contro ogni forma di sfruttamento della loro dignità e dei loro territori.
Oggi celebriamo la Giornata Missionaria Mondiale, il cui tema – “Andate e invitate al banchetto tutti” (cfr Mt 22,9) – ci ricorda che l’annuncio missionario è portare a tutti l’invito all’incontro festoso con il Signore, che ci ama e che ci vuole partecipi della sua gioia sponsale.
Come ci insegnano i nuovi Santi: «ogni cristiano è chiamato a prendere parte a questa missione universale con la propria testimonianza evangelica in ogni ambiente» (Messaggio per la XCVIII Giornata missionaria mondiale, 25 gennaio 2024).
Sosteniamo, con la nostra preghiera e con il nostro aiuto, tutti i missionari che, spesso con grande sacrificio, portano l’annuncio luminoso del Vangelo in ogni parte della terra.
E continuiamo a pregare per le popolazioni che soffrono a causa della guerra – la martoriata Palestina, Israele, Libano, la martoriata Ucraina, Sudan, Myanmar e tutte le altre – e invochiamo per tutti il dono della pace.
La Vergine Maria ci aiuti ad essere, come Lei e come i Santi, coraggiosi e lieti testimoni del Vangelo.
A Giacomo e Giovanni, Gesù chiede: «Cosa volete che io faccia per voi?» (Mc 10,36).
E subito dopo li incalza: «Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?» (Mc 10,38).
Gesù pone domande e, proprio così, ci aiuta a fare discernimento, perché le domande ci fanno scoprire ciò che è dentro di noi, illuminano quello che portiamo nel cuore e che a volte noi non sappiamo.
Lasciamoci interrogare dalla Parola del Signore.
Immaginiamo che chieda a noi, a ciascuno di noi: «Che cosa vuoi che io faccia per te?»; e la seconda domanda: «puoi bere il mio stesso calice?»
Attraverso queste domande, Gesù fa emergere il legame e le attese che i discepoli hanno verso di lui, con le luci e le ombre tipiche di ogni relazione.
Infatti, Giacomo e Giovanni, sono legati a Gesù ma hanno delle pretese.
Essi esprimono il desiderio di stare vicino a Lui, ma solo per occupare un posto d'onore, per rivestire un ruolo importante, per «sedere, nella sua gloria, alla destra e alla sinistra» (Mc 10,37).
Evidentemente pensano a Gesù come Messia, un Messia vittorioso, glorioso e da Lui si aspettano che condivida la sua gloria con loro.
Vedono in Gesù il Messia, ma lo immaginano secondo la logica del potere.
Gesù non si ferma alle parole dei discepoli, ma scende in profondità, ascolta e legge il cuore di ognuno di loro e anche di ognuno di noi.
E, nel dialogo, attraverso due domande, cerca di fare emergere il desiderio che c’è dentro a quelle richieste.
Dapprima chiede: «Cosa volete che io faccia per voi?»; e questa domanda svela i pensieri del loro cuore, mette in luce le attese nascoste e i sogni di gloria che i discepoli coltivano segretamente.
É come se Gesù chiedesse: “Chi vuoi che io sia per te?” e, così, smaschera quello che essi desiderano davvero: un Messia potente, un Messia vittorioso che dia loro un posto di onore.
E a volte nella Chiesa viene questo pensiero: l’onore, il potere…
Poi, con la seconda domanda, Gesù smentisce questa immagine di Messia e in questo modo li aiuta a cambiare sguardo, cioè a convertirsi: «Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?».
In questo modo, svela a loro che Egli non è il Messia che essi pensano; è il Dio dell’amore, che si abbassa per raggiungere chi è in basso; che si fa debole per rialzare i deboli, che opera per la pace e non per la guerra, che è venuto per servire e non per essere servito.
Il calice che il Signore berrà è l’offerta della sua vita, è la sua vita donata a noi per amore, fino alla morte e alla morte di croce.
E, allora, alla sua destra e alla sua sinistra staranno due ladroni, appesi come Lui alla croce e non accomodati nei posti di potere; due ladroni inchiodati con Cristo nel dolore e non seduti nella gloria.
Il re crocifisso, il giusto condannato si fa schiavo di tutti: costui è davvero il Figlio di Dio! (cf.
Mc 15,39).
Vince non chi domina, ma chi serve per amore.
Ripetiamo: vince non chi domina, ma chi serve per amore.
Ce lo ha ricordato anche la Lettera agli Ebrei: «Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi» (Eb 4,15).
A questo punto, Gesù può aiutare i discepoli a convertirsi, a cambiare mentalità: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono» (Mc 10,42).
Ma non deve essere così, per chi segue un Dio che si è fatto servo per raggiungere tutti col Suo amore.
Chi segue Cristo, se vuole essere grande deve servire, imparando da Lui.
Fratelli e sorelle, Gesù svela pensieri, svela desideri e proiezioni del nostro cuore, smascherando talvolta le nostre attese di gloria, di dominio, di potere, di vanità.
Egli ci aiuta a pensare non più secondo i criteri del mondo, ma secondo lo stile di Dio, che si fa ultimo perché gli ultimi vengano rialzati e diventino i primi.
E queste domande di Gesù, con il suo insegnamento sul servizio, spesso sono incomprensibili, incomprensibili per noi come lo erano per i discepoli.
Ma seguendo Lui, camminando alla Sua sequela e accogliendo il dono del Suo amore che trasforma il nostro modo di pensare, possiamo anche noi imparare lo stile di Dio: lo stile di Dio, il servizio.
Non dimentichiamo le tre parole che fanno vedere lo stile di Dio per servire: vicinanza, compassione e tenerezza.
Dio si fa vicino per servire; si fa compassionevole per servire; si fa tenero per servire.
Vicinanza, compassione e tenerezza…
A questo dobbiamo anelare: non al potere, ma al servizio.
Il servizio è lo stile di vita cristiano.
Non riguarda un elenco di cose da fare, quasi che, una volta fatte, possiamo ritenere finito il nostro turno; chi serve con amore non dice: “adesso toccherà qualcun altro”.
Questo è un pensiero da impiegati, non da testimoni.
Il servizio nasce dall’amore e l’amore non conosce confini, non fa calcoli, si spende e si dona.
L’amore non si limita a produrre per portare risultati, non è una prestazione occasionale, ma è qualcosa che nasce dal cuore, un cuore rinnovato dall’amore e nell’amore.
Quando impariamo a servire, ogni nostro gesto di attenzione e di cura, ogni espressione di tenerezza, ogni opera di misericordia diventano un riflesso dell’amore di Dio.
E così tutti noi - e ognuno di noi - continuiamo l’opera di Gesù nel mondo.
In questa luce possiamo ricordare i discepoli del Vangelo, che oggi vengono canonizzati.
Lungo la storia tormentata dell’umanità, essi sono stati servi fedeli, uomini e donne che hanno servito nel martirio e nella gioia, come fra Manuel Ruiz Lopez e i suoi compagni.
Sono sacerdoti e consacrate ferventi, e ferventi di passione missionaria, come don Giuseppe Allamano, suor Paradis Marie Leonie e suor Elena Guerra.
Questi nuovi santi hanno vissuto lo stile di Gesù: il servizio.
La fede e l’apostolato che hanno portato avanti non ha alimentato in loro desideri mondani e smanie di potere ma, al contrario, essi si sono fatti servi dei fratelli, creativi nel fare il bene, saldi nelle difficoltà, generosi fino alla fine.
Chiediamo fiduciosi la loro intercessione, perché anche noi possiamo seguire il Cristo, seguirlo nel servizio e diventare testimoni di speranza per il mondo.
Cari fratelli e sorelle,
Auguri! Cento anni sono un traguardo importante, un bel trofeo da mettere nella vostra bacheca! Più grande ancora di quello per la tiratura di due milioni di copie vendute in occasione della vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio del 2006! Avete fatto una bella corsa in questi cento anni: del resto, tra coloro che hanno contribuito alla nascita del giornale c’era un certo Enzo Ferrari, che si intendeva di motori e di vittorie!
Ringrazio il Direttore Ivan Zazzaroni per avermi inviato una bella lettera parlando del centenario del giornale, e mi fa piacere essere vicino a voi in questo giorno di festa.
Se penso allo sport, e alla mia patria, l’Argentina, prima ancora che pensare ai grandi impianti calcistici, come la Bombonera, penso a quando da bambini si giocava a calcio con una palla fatta di stracci.
Tanti campioni hanno iniziato così, giocando con gli amici in modo spensierato in campi improvvisati tra le case, anche in contesti molto poveri.
Quanto è bello sperimentare il senso della fraternità: si gioca, e si gioca insieme, e si sa che si è avversari soltanto sul campo, mai nemici.
Si impara la gioia per la vittoria e si conosce il sudore e l’impegno che sono costati, si impara anche dalla sconfitta, cercando di rialzarsi e di far tesoro degli errori commessi per provare a superarli la prossima volta, o semplicemente ad accettare la propria diversità e il proprio limite: siamo tutti preziosi ed unici, ma non siamo perfetti.
Qualcuno dice che io sia tifoso del San Lorenzo, una squadra argentina: rimane un segreto, però una cosa mi pare bella nella storia di quella squadra.
Quando i ragazzi che giocavano in strada all’inizio del novecento erano in cerca di uno spazio sicuro dove poter giocare a calcio, un sacerdote discendente di italiani, un salesiano, don Lorenzo Massa, aprì le porte dell’oratorio, e lì inizio una bella avventura.
Abbiamo bisogno anche oggi di spazi per poter fare sport, soprattutto nei contesti più poveri ed isolati, ma soprattutto abbiamo bisogno di adulti che accolgano in modo autentico i bambini e i ragazzi, sappiano ascoltare i loro sogni, desiderino insieme a loro un futuro migliore.
Pensiamo anche qui in Italia quanto bene è stato fatto tramite i campi delle parrocchie e degli oratori, e quanti giovani ora campioni dello sport spesso ricordino di aver iniziato dai campi della parrocchia.
Il vostro giornale ha lunga storia, e nella sua intenzione intende abbracciare tutta l’Italia, per gli eventi sportivi che la riguardano all’interno dei confini e all’estero: lo sport è uno dei fattori che ci fa sentire un popolo solo, come quando ci si alza per cantare l’inno, a casa, allo stadio o nei palazzetti dello sport.
Quanto è importante camminare uniti, sentirsi parte di una unica famiglia, e di una famiglia di nazioni durante le olimpiadi o i campionati mondiali o continentali: in questi anni troppo spesso abbiamo visto ancora popoli vicini, o gruppi all’interno di medesimi paesi, alzarsi gli uni contro gli altri armati.
La competizione dello sport è sana, perché chiede pazienza, ascolto dell’allenatore, rispetto per gli avversari, per le regole e per gli arbitri, coordinamento con i compagni: nel mondo invece spesso si mira alla distruzione dell’avversario, al farsi le regole da soli, a rifiutare chi vuole moderare il confronto tra le parti secondo il diritto internazionale.
Diffondere una sana cultura dello sport in questo senso significa far crescere l’umanità nei suoi valori più belli e autentici e per questo vi ringrazio.
Per quanto purtroppo anche negli ultimi anni abbiamo assistito ad episodi di intolleranza, che vanno condannati, sono certo che siano molti di più gli esempi in cui nello sport si è stati capaci di “fare squadra”, senza che la razza, il ceto, o la confessione religiosa siano ostacoli o barriere: vi incoraggio a favorire questo clima di umanità autentica ed accogliente.
Dobbiamo respingere ogni logica di esclusione e violenza, e per questo sappiamo bene che la parola ha il suo valore, per educare al bene e al bello, piuttosto che distruggere.
Un articolo di giornale, anche sportivo, può fare molto bene, ma può anche danneggiare o fomentare un clima di sfiducia: voi non siate così però, mi raccomando!
A proposito di accoglienza e promozione umana integrale: soltanto per questioni organizzative non è possibile vivere in contemporanea le Olimpiadi e le Paralimpiadi.
Nelle recenti edizioni a Parigi abbiamo gioito per tanti successi di ragazzi e ragazze incredibili: per alcuni di loro la medaglia d’oro l’aveva data la vita, per come hanno saputo vincere, grazie alla forza interiore e all’aiuto di tutti, le sfide della propria disabilità.
Le loro gare sono un inno alla vita! Che il vostro giornale racconti di vittorie e sconfitte, ma sia un modo di pensare e vivere lo sport come un inno alla vita!
Grazie per quello che siete e per quello che fate.
Non dimenticatevi di pregare per me.
Roma, San Giovanni in Laterano, 19 ottobre 2024
FRANCESCO
Signori e Signore Ministri,
Signori e signore Delegati,
scusatemi per l’ora, ma c’erano tante cose oggi. Vi saluto con gratitudine e stima per il vostro impegno nel promuovere la dignità e i diritti delle persone con disabilità.
Una volta, parlando delle persone con disabilità, un tizio mi dice: “Ma state attento che tutti noi ne abbiamo qualcuna, eh!” Tutti noi.
É vero.
Questo incontro, in occasione del G7, è un segno concreto della volontà di costruire un mondo più giusto, un mondo più inclusivo, dove ogni persona, con le proprie capacità, possa vivere pienamente e contribuire alla crescita della società.
Invece di parlare di “discapacità”, parliamo di capacità differenti.
Ma tutti hanno capacità.
Io ricordo per esempio un gruppo che è venuto qui, di una ditta, un ristorante; sia i cuochi, sia quelli che servivano la mensa, tutti erano ragazzi e ragazze con disabilità.
Ma lo facevano benissimo.
Benissimo.
Ringrazio l’Onorevole Alessandra Locatelli che è venuta qui, Ministro per la disabilità, per aver promosso questa importante iniziativa.
Grazie.
Ieri avete firmato “La Carta di Solfagnano”, frutto del vostro lavoro su temi fondamentali quali l’inclusione, l’accessibilità, la vita autonoma e la valorizzazione delle persone.
Questi temi si incontrano con la visione che la Chiesa ha della dignità umana.
Ogni persona infatti è parte integrante della famiglia universale e nessuno dev’essere vittima della cultura dello scarto, nessuno.
Questa cultura genera pregiudizi e reca danno alla società.
In primo luogo l’inclusione delle persone con disabilità è necessario che venga riconosciuta come una priorità da tutti i Paesi.
A me questa parola “disabilità” non piace tanto.
Mi piace l’altra: “abilità differenti”.
Purtroppo in alcune Nazioni ancora oggi si stenta a riconoscere la pari dignità di queste persone (cfr Lett.
enc.
Fratelli tutti, 98).
Rendere il mondo inclusivo significa non solo adattare le strutture, ma cambiare la mentalità, affinché le persone con disabilità siano considerate a tutti gli effetti partecipi della vita sociale.
Non c’è vero sviluppo umano senza l’apporto dei più vulnerabili.
In tal senso, l’accessibilità universale diventa una grande finalità da perseguire, affinché ogni barriera fisica, sociale, culturale e religiosa venga rimossa, permettendo a ciascuno di mettere a frutto i propri talenti e contribuire al bene comune.
E questo in tutte le fasi della sua esistenza, dall’infanzia alla vecchiaia.
A me fa dolore quando si vive con quella cultura dello scarto con i vecchi.
I vecchi sono saggezza e si scartano come se fossero scarpe brutte.
Garantire servizi adeguati alle persone con disabilità non è solo una questione di assistenza – quella politica dell’assistenzialismo: no, non è questo – ma di giustizia e di rispetto della loro dignità.
Tutti i Paesi, pertanto, hanno il dovere di assicurare le condizioni perché ogni persona possa svilupparsi integralmente, in comunità inclusive (cfr Fratelli tutti, 107).
È dunque importante operare insieme perché sia reso possibile alle persone con disabilità di scegliere il proprio cammino di vita, liberandole dalle catene del pregiudizio.
La persona umana – ricordiamolo – non dev’essere mai mezzo, sempre fine! Questo significa ad esempio valorizzare le capacità di ciascuno, offrendo opportunità di lavoro dignitoso.
Una grave forma di discriminazione è escludere qualcuno dalla possibilità di lavorare (cfr Fratelli tutti, 162).
Il lavoro è dignità; è l’unzione della dignità.
Se tu escludi la possibilità, gli togli questo.
Lo stesso si può dire per la partecipazione alla vita culturale e sportiva: questo è un’offesa alla dignità umana.
Anche le nuove tecnologie possono essere strumenti potenti di inclusione e partecipazione, se rese accessibili a tutti.
Esse vanno orientate al bene comune, al servizio della cultura dell’incontro e della solidarietà.
La tecnologia va utilizzata con saggezza, affinché non crei ulteriori disuguaglianze, ma diventi invece un mezzo per abbatterle.
Il tema dell’inclusione, infine, deve tener conto delle urgenze della nostra casa comune.
Non possiamo ignorare le emergenze umanitarie legate alle crisi climatiche e ai conflitti che colpiscono in modo sproporzionato le persone più vulnerabili, incluse quelle con disabilità (cfr Lett.
enc.
Laudato si’, 25).
È nostro dovere garantire che le persone con disabilità non siano lasciate indietro in queste situazioni, che siano protette, che siano assistite in modo adeguato.
Occorre costruire un sistema di prevenzione e di risposta alle emergenze che tenga conto delle loro esigenze specifiche e garantisca che nessuno sia escluso dalla protezione e dal soccorso.
Signore e Signori, vedo questo vostro lavoro come un segno di speranza, per un mondo che troppo spesso dimentica le persone con disabilità o purtroppo le manda via prima che nascano: vedono la radiografia e … al mittente.
Vi esorto a continuare su questa strada, ispirati dalla fede e dalla convinzione che ogni persona è un dono; ogni persona è un dono prezioso per la società.
San Francesco d’Assisi, testimone di un amore senza confini per i più fragili, ci ricorda che la vera ricchezza si trova nell’incontro con gli altri – questa cultura dell’incontro che va sviluppata –, specialmente con coloro che una falsa cultura del benessere tende a scartare.
Tra questi che sono vittima dello scarto, ci sono i nonni: i nonni, i vecchi, alla casa di riposo.
È una cosa molto brutta.
C’è una storia molto bella.
Si dice che il nonno abitava con la famiglia.
Ma il nonno è invecchiato e a tavola mangiava, si sporcava … Un giorno il papà fa fare un tavolo in cucina e dice: “Il nonno mangerà in cucina, così noi possiamo invitare gente”.
Passa il tempo e un giorno il papà torna a casa dal lavoro e trova il figlio di cinque anni che gioca con tavole.
[Gli dice]: “Cosa fai?” – “Sto facendo un tavolino” – “Un tavolino? Perché?” – “Per te, papà.
Quando sarai vecchio”.
Quello che noi facciamo con i vecchi, lo faranno i nostri figli con noi.
Non dimentichiamolo.
Insieme, possiamo costruire un mondo dove la dignità di ogni persona sia pienamente riconosciuta e rispettata.
Che Dio vi benedica e vi accompagni sempre, a tutti voi.
Grazie.
Sono lieto di intervenire all’apertura del vostro nuovo Anno Accademico 2024/2025.
La prolusione integrale vi verrà poi consegnata.
Mi pongo idealmente sulle orme di San Giovanni Paolo II, che visitò la Facoltà di Sicilia il 21 novembre del 1982, in occasione della sua visita pastorale nel Belice e a Palermo.
La vostra Facoltà, nata con una forte vocazione ecclesiologica, è chiamata da dentro la storia e in ascolto del fiuto della fede che il popolo di Dio possiede, a farsi protagonista per affrontare quelle sfide che il Mediterraneo pone alla teologia: il dialogo ecumenico con l’Oriente; il dialogo interreligioso con l’Islam e l’Ebraismo; la difesa della dignità umana del Mare nostrum, spesso reso monstrum dalle logiche di morte; la forza culturale e sociale della religiosità popolare – la “pietà popolare”, come ha detto san Paolo VI –; la risorsa della letteratura per il riscatto della dignità culturale del popolo; e, soprattutto, le sfide di liberazione che giungono dal grido delle vittime della mafia.
Si tratta di imparare l’artigianato della teologia come una tessitura di reti evangeliche di salvezza, proprio lungo le rive siciliane del Mediterraneo; è un paziente lavoro che prova a narrare l’amore del Maestro, capace di suscitare lo stupore dell’incontro e dell’amicizia.
Lo stupore, che è proprio il nervo che suscita la fede.
Immaginate allora quel momento in cui il Maestro si è fermato, lungo il mare di Galilea, a contemplare quei pescatori che riassettavano le reti (Mt 4,18-22): che cosa lo ha spinto a chiamarli intorno a sé, a cingersi della loro umanità, a inviarli come pescatori di uomini? E perché le reti, nella mente di Gesù, nel suo modo di pensare, diventano segno e strumento di salvezza? Ecco il compito della teologia dal Mediterraneo: intessere reti di salvezza, reti evangeliche fedeli al modo di pensare e di amare di Gesù, costruite con i fili della grazia e intrecciate con la misericordia di Dio, con le quali la Chiesa può continuare ad essere, anche nel Mediterraneo, segno e strumento di salvezza del genere umano (cfr Lumen gentium, 2).
E questo è il modo con cui la teologia può amare, può diventare carità.
Si tratta di una vera e propria analogia crucis: «Dall’alto della croce il teologo è provocato a guardare la realtà umana con gli occhi di colui che si è abbassato a tal punto da divenire il più piccolo tra gli uomini, rinunciando alle sue prerogative divine e assumendo la condizione del servitore.
[1] Mi piace pensare pertanto ad un salto della prossimità, che completi il salto della fede, così da non essere un balconero della storia, ma un tessitore di reti che sa annodare attorno a sé l’umanità del Cristo e del suo Vangelo.
Fratelli, sorelle, le reti si tessono e si riassettano seduti per terra, spesso stando in ginocchio.
Non dimentichiamo che questa è la posizione migliore per amare il Signore: in ginocchio.
Significa assumere lo stile della lavanda dei piedi e quello del buon samaritano che si china dinanzi alle ferite del malcapitato nelle mani dei briganti.
Le mani dei teologi possiamo immaginarle così: mani che narrano l’abbraccio di Dio, mani che offrono tenerezza – non dimenticare questa parola, tenerezza, che è lo stile di Dio –, mani che rialzano chi è caduto e orientano alla speranza.
E non dimentichiamo che soltanto una volta è lecito guardare una persona dall’alto in basso: soltanto per aiutarla a sollevarsi.
Così, la teologia richiede e include la testimonianza fino al sacrificio della vita, al dono di sé attraverso il martirio.
Questa terra conosce grandi testimoni e martiri, da Padre Pino Puglisi al giudice Rosario Livatino, senza dimenticare i magistrati Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, e tanti altri servitori dello Stato.
Essi sono “vere cattedre” di giustizia, che invitano la teologia a contribuire, con le parole del Vangelo, al riscatto culturale di un territorio ancora drammaticamente segnato dalla piaga della mafia.
Non dimentichiamo questo.
Fare teologia nel Mediterraneo, dunque, vuol dire ricordare che l’annuncio del Vangelo passa attraverso l’impegno per la promozione della giustizia, il superamento delle disuguaglianze e la difesa delle vittime innocenti, perché risplenda sempre il Vangelo della vita e il male venga respinto in tutte le sue forme.
C’è bisogno di una teologia con-promessa, che si immerge nella storia e in essa fa risplendere la carità di Cristo.
In tal senso, vorrei che la Facoltà avviasse processi di ricerca teologica e sociale sul perdono, al crocevia della legalità, della resistenza e della santità.
Iniziate con creatività un vero e proprio laboratorio teologico e sociale del perdono, per una vera rivoluzione di giustizia!
E questa, mi piace dire, è la vocazione della vostra Isola.
Essa, però, è anche luogo dove si incontrano in armonia culture, storie, e volti diversi, che impegnano la teologia a coltivare il dialogo con le Chiese sorelle d’Oriente che si affacciano anch’esse sul Mediterraneo. La rotta del dialogo ecumenico e interreligioso, per quanto difficoltosa, è quella da riproporre e sostenere attraverso esperienze di incontro, esperienze anche di confronto e collaborazione nel comune ascolto dello Spirito Santo.
È eredità di tanti martiri del dialogo nel Mediterraneo.
A voi è perciò affidata la missione di costituirvi come laboratorio di una teologia del dialogo ecumenico e di una teologia delle religioni che sfoci in una teologia del dialogo interreligioso.
Sempre la parola dialogo, dialogo, apertura.
In questo contesto appare fecondo, infine, il confronto tra la teologia e la letteratura, nota che ha caratterizzato in questi anni anche la ricerca della vostra Facoltà Teologica, soprattutto per la scelta di riconoscere quel fiuto della fede che appartiene all’esperienza del popolo.
La letteratura lo narra spesso e permette una lettura della realtà siciliana e mediterranea, aiutando tutti voi a riscoprire la vostra identità nel segno del dialogo e rendendovi capaci di togliervi i sandali «davanti alla terra sacra dell’altro (cfr Es 3,5)» (Evangelii gaudium, 169).
D’altra parte, come potrebbe capirsi il poliedrico pensiero siciliano senza la letteratura, senza Pirandello, Verga, Sciascia, e senza le tematiche esistenziali su cui essi hanno scritto pagine memorabili?
Cari fratelli e sorelle, il Mediterraneo ha bisogno di una teologia viva, che coltivi fino in fondo la sua dimensione contestuale, diventando un appello per tutti.
Coltivate questa teologia con-promessa con la storia, così come Dio nella carne del Figlio si è compromesso con le nostre lacrime e le nostre speranze.
Promuovete una teologia che, dall’alto della croce e in ginocchio davanti al prossimo, usi parole umili, sobrie e radicali, per aiutare tutti ad affacciarsi alla compassione; e parole che ci insegnino a fare reti di salvezza e di amore, per generare una storia nuova, radicata nella storia del popolo.
Vi abbraccio e vi chiedo, per favore, di pregare per me.
Grazie.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno.
Sono lieto di incontrarvi in occasione del 126.mo Congresso nazionale della Società italiana chirurgia, dal titolo “Il futuro del chirurgo – il chirurgo del futuro”, svoltosi qui a Roma.
Saluto cordialmente il Presidente della Società, i membri del Consiglio e tutti voi.
Chi parla di futuro, parla di speranza, di progetto, di impegno.
Avete sviluppato un bel tema! E in questo senso la vostra opera è preziosa per l’uomo, che è una creatura bella e fragile, una creatura desiderosa di vita e di futuro e al tempo stesso tanto vulnerabile.
Per questo è importante che il vostro stile sia sempre umano e professionale, di chi si prende cura dei sofferenti, perché anzitutto se li prenda a cuore, coniugando in ogni vostro intervento competenza e deontologia, secondo la cultura della salute, che sia servizio alla persona nella sua integrità.
Pensate al futuro del chirurgo a partire da una cultura della dedizione al fratello, soprattutto se povero ed emarginato.
È sempre l’uomo che vive e che muore, che patisce e guarisce, non solo i suoi organi o tessuti.
All’opposto c’è il rischio, anche per i medici, di smarrire la propria vocazione, collocandosi fuori da quell’alleanza terapeutica, che pone al centro chi è malato o ferito.
La medicina moderna, infatti, a volte tende a concentrarsi molto sulla dimensione fisica dell’uomo, piuttosto che considerarlo nella sua totalità e unicità.
Così, però, il corpo diventa un nudo oggetto d’indagine scientifica e di manipolazione tecnica, a scapito del paziente, che va in secondo piano.
Invece la scienza è per l’uomo, non l’uomo per la scienza! Una scienza umana.
Oggi, in un tempo in cui la chirurgia si avvale di molte nuove tecnologie, tra cui l’intelligenza artificiale, è bene non dimenticare mai che nulla può prescindere dalla “mano” del chirurgo.
Chirurgia significa “opera fatta con la mano”, “operazione della mano”.
Ed è proprio così: per curare, i chirurghi devono ferire, incidere, tagliare.
Quando dunque avete tra le mani il corpo dell’uomo, creato a immagine di Dio, agite come “artigiani della salute”, operando gli altri con la stessa cura con cui vorreste essere trattati voi.
Riflettete sui gesti che, da professionisti, mettere in pratica, insieme, in squadra coi vostri cooperatori, e non abbiate paura di promuovere, specialmente tra i giovani, una formazione umana, scientifica, tecnologica e psicologica: verranno da qui le migliori caratteristiche dei futuri chirurghi.
Il vostro lavoro e la vostra missione saranno sempre importantissimi: vi invito perciò a essere custodi della vita di chi soffre – custodi della vita di chi soffre.
Anche quando una persona non può guarire, può però sempre essere curata, perché nessuno sia mai considerato o si senta uno scarto.
E a questo riguardo, stimati chirurghi, vorrei concludere consegnandovi un’icona che può ispirare il futuro della vostra professione: l’icona di Gesù medico delle anime e dei corpi – ossia di tutto l’uomo – narrata nella parabola del buon Samaritano (cfr Lc 10,30-37).
In essa, colui che si prende cura vede e si ferma senza fretta: ha compassione di chi incontra, gli si fa vicino e ne fascia le ferite.
Vede, ha compassione, si fa vicino e ne fascia le ferite.
Sono questi gli atteggiamenti che io vi raccomando: vedere con amore, provare compassione, farsi vicino e prendersi cura.
È così che ogni buon medico diventa il prossimo del paziente.
Grazie per tutto quello che fate, anche con tanto sacrificio.
Vi incoraggio a dedicarvi con passione all’umanità che soffre, della quale tutti facciamo parte.
Maria, salute degli infermi, accompagni il vostro servizio, confortandovi nelle fatiche del lavoro e della ricerca.
Benedico ciascuno di voi, le vostre famiglie e tutti gli operatori sanitari che collaborano con la vostra Società.
E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me: ma pregare a favore … Grazie!
[Benedizione]
A Sua Eccellenza il Signor
QU DONGYU
Direttore Generale della FAO
Signor Direttore Generale
La 44a Giornata Mondiale dell’Alimentazione ci invita a riflettere sul diritto al cibo per una vita e un futuro migliori.
Questo è qualcosa di prioritario, in quanto soddisfa uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano, ovvero quello di nutrirsi per vivere secondo adeguati standard qualitativi e quantitativi che garantiscano un’esistenza dignitosa della persona umana.
Tuttavia, vediamo spesso come questo diritto sia minato e non applicato in modo equo, con tutte le dannose conseguenze che ne derivano.
Nell’interesse di promuovere il diritto al cibo, la FAO propone di considerare in modo adeguato una trasformazione dei sistemi alimentari che tengano conto della pluralità e della varietà di alimenti nutrienti, accessibili, sani e sostenibili come mezzo per raggiungere la sicurezza alimentare e una dieta sana per tutti.
Per questo è importante non dimenticare la dimensione intrinseca, sociale e culturale, dell’atto di alimentarsi.
A questo proposito, i responsabili politici ed economici a livello internazionale devono ascoltare le richieste di coloro che si trovano alla base della catena alimentare, come i piccoli agricoltori e i gruppi sociali intermedi, come le famiglie, che sono direttamente coinvolti nell’alimentazione delle persone.
Le soluzioni energiche necessarie per affrontare e risolvere il problema alimentare del nostro tempo richiedono che consideriamo i principi di sussidiarietà e solidarietà come fondamento dei nostri programmi e progetti di sviluppo, affinché non si rimanga in ascolto delle esigenze di quanti vengono dal basso, dei lavoratori e degli agricoltori, dei poveri e degli affamati e di quanti vivono in condizioni di disagio nelle aree rurali isolate.
Gesù Cristo ci ha insegnato: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti».
(Mt 7,12).
L’umanità, ferita da tante ingiustizie, reclama con urgenza misure efficaci per condurre una vita migliore, agendo insieme, animati dallo stesso spirito di fraternità e sapendo che questo pianeta che Dio ci ha donato deve essere un giardino aperto alla serena convivenza.
A questo pensavo quando ho proposto di considerare il paradigma dell’ecologia integrale, affinché si tenessero in conto le necessità di ciascun uomo e di tutti gli uomini, affinché si protegga la sua dignità nelle sue relazioni con gli altri e in stretta connessione con la cura del creato.
Soltanto se prendiamo l’ideale della giustizia come guida del nostro agire si riusciranno a soddisfare i bisogni delle persone.
Questo richiede anche che ci lasciamo interpellare e commuovere dalla condizione dell’altro e che la solidarietà si trasformi nel principio delle nostre decisioni.
In questo modo, la protezione delle generazioni future andrà di pari passo con l’ascolto e l’azione a favore delle richieste delle generazioni attuali, attraverso un’alleanza intergenerazionale che chiami tutti alla fraternità e dia un senso nuovo e più autentico alla cooperazione internazionale, una cooperazione che deve animare questa Organizzazione e l’intero sistema multilaterale.
In questo cammino, pieno di ostacoli e di difficoltà, ma allo stesso tempo entusiasmante e ricco di sfide, la Comunità internazionale potrà contare sull’incoraggiamento della Santa Sede e della Chiesa cattolica, che non cessano mai di dare il loro tenace contributo affinché tutti abbiano cibo in quantità e qualità adeguate per se stessi e per le proprie famiglie, affinché ogni persona possa condurre una vita dignitosa e affinché il doloroso flagello della miseria e la fame nel mondo siano definitivamente sconfitti.
Con questi sentimenti e desideri, su tutti voi e su coloro che lavorano per questa nobile causa, invoco la benedizione di Dio Onnipotente, che non si stanca mai di sostenere coloro che hanno a cuore il bene dell’intera umanità.
Francesco
________________________________
L'Osservatore Romano, Edizione Qootidiana, Anno CLXIV n.
235, mercoledì 15 ottobre 2024, p.
5.
Il testo qui di seguito include anche parti non lette che sono date ugualmente come pronunciate.
Ciclo di Catechesi.
Lo Spirito e la Sposa.
Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza.
9.“Credo nello Spirito Santo”.
Lo Spirito Santo nella fede della Chiesa
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Con la catechesi di oggi passiamo da ciò che sullo Spirito Santo ci è stato rivelato nella Sacra Scrittura a come Egli è presente e operante nella vita della Chiesa, nella nostra vita cristiana.
Nei primi tre secoli, la Chiesa non ha sentito il bisogno di dare una formulazione esplicita della sua fede nello Spirito Santo.
Per esempio, nel più antico Credo della Chiesa, il cosiddetto Simbolo apostolico, dopo aver proclamato: “Credo in Dio Padre, creatore del cielo e della terra, e in Gesù Cristo, nato, morto, disceso agli inferi, risorto e asceso al cielo”, si aggiunge: “[credo] nello Spirito Santo” e niente di più, senza alcuna specificazione.
Ma fu l’eresia a spingere la Chiesa a precisare questa sua fede.
Quando questo processo iniziò – con Sant’Atanasio nel quarto secolo – fu proprio l’esperienza che essa faceva dell’azione santificatrice e divinizzatrice dello Spirito Santo a condurre la Chiesa alla certezza della piena divinità dello Spirito Santo.
Questo avvenne nel Concilio Ecumenico di Costantinopoli, del 381, che definì la divinità dello Spirito Santo con le note parole che ancora oggi ripetiamo nel Credo: «Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà vita, e procede dal Padre e dal Figlio.
Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti».
Dire che lo Spirito Santo “è Signore” era come dire che Egli condivide la “Signoria” di Dio, che appartiene al mondo del Creatore, non a quello delle creature.
L’affermazione più forte è che a Lui si deve la stessa gloria e adorazione che al Padre e al Figlio.
È l’argomento dell’uguaglianza nell’onore, caro a San Basilio Magno, che fu l’artefice principale di quella formula: lo Spirito Santo è Signore, è Dio.
La definizione conciliare non era un punto di arrivo, ma di partenza.
E infatti, superati i motivi storici che avevano impedito una affermazione più esplicita della divinità dello Spirito Santo, questa verrà tranquillamente proclamata nel culto della Chiesa e nella sua teologia.
Già San Gregorio di Nazianzo, all’indomani di quel Concilio, affermerà senza più remore: «Lo Spirito Santo è dunque Dio? Certamente! È consustanziale? Sì, se è vero Dio» (Oratio 31, 5.10).
Cosa dice a noi, credenti di oggi, l’articolo di fede che proclamiamo ogni domenica nella Messa: “Credo nello Spirito Santo? Di esso, in passato, ci si è occupati principalmente a proposito dell’affermazione che lo Spirito Santo “procede dal Padre”.
La Chiesa latina ben presto integrò questa affermazione aggiungendo, nel Credo della Messa, che lo Spirito Santo procede “anche dal Figlio”.
Siccome in latino l’espressione “e dal Figlio” si dice “Filioque”, ne è nata la disputa conosciuta con questo nome, che è stata la ragione (o il pretesto) per tante dispute e divisioni tra Chiesa d’Oriente e Chiesa d’Occidente.
Non è certo il caso di trattare qui tale questione che, del resto, nel clima di dialogo instauratosi tra le due Chiese, ha perso l’asprezza di un tempo e oggi permette di sperare in una piena accettazione reciproca, come una delle principali “differenze riconciliate”.
A me piace dire questo: “differenze riconciliate”.
Fra i cristiani ci sono tante differenze: questo è di questa scuola, dell’altra; questo è protestante, quello… L’importante è che queste differenze siano riconciliate, nell’amore di camminare insieme.
Superato questo scoglio, oggi possiamo valorizzare la prerogativa per noi più importante che viene proclamata nell’articolo del Credo, e cioè che lo Spirito Santo è “vivificante”, cioè dà la vita.
Ci domandiamo: che vita dà lo Spirito Santo? All’inizio, nella creazione, il soffio di Dio dà ad Adamo la vita naturale; da statua di fango, lo rende “un essere vivente” (cfr Gen 2,7).
Ora, nella nuova creazione, lo Spirito Santo è Colui che dà ai credenti la vita nuova, la vita di Cristo, vita soprannaturale, da figli di Dio.
Paolo può esclamare: «La legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte» (Rm 8,2).
Dove sta, in tutto questo, la grande e consolante notizia per noi? È che la vita che ci è data dallo Spirito Santo è vita eterna! La fede ci libera dall’orrore di dover ammettere che tutto finisce qui, che non c’è alcun riscatto per la sofferenza e l’ingiustizia che regnano sovrane sulla terra.
Ce lo assicura un’altra parola dell’Apostolo: «Se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (Rm 8,11).
Lo Spirito abita in noi, è dentro di noi.
Coltiviamo questa fede anche per chi, spesso non per colpa propria, ne è privo e non riesce a dare un senso alla vita.
E non dimentichiamo di ringraziare Colui che, con la sua morte, ci ha ottenuto questo dono inestimabile!
______________________
Saluti
Je salue cordialement les pèlerins de langue française, en particuliers les jeunes et les professeurs venus d’institutions scolaires de France, les prêtres et diacres d’Auch et l’association Regina Pacis du Canada.
Implorons l’Esprit-Saint qui nous donne sans cesse la vie de Jésus ressuscité afin de témoigner de son amour dans le monde.
Que Dieu vous bénisse.
[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese, in particolare i giovani e gli insegnanti venuti da istituzioni scolastiche della Francia, i sacerdoti e i diaconi di Auch e l'associazione Regina Pacis del Canada.
Imploriamo lo Spirito Santo che ci dona continuamente la vita di Gesù risorto per testimoniare il suo amore nel mondo.
Dio vi benedica.]
I extend a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors, especially those coming from England, Denmark, Norway, South Africa, India, Kuwait, Malaysia, the Phillipines, South Korea, Canada and the United States.
I greet in particular the delegation from the NATO Defense College, the priests of the Institute for Continuing Theological Education at the North American College and the memebers of the Gregorian University Foundation.
Upon all of you, and upon your families, I invoke the joy and peace of our Lord Jesus Christ.
God bless you!
[Saluto i pellegrini di lingua inglese, specialmente quelli provenienti da Inghilterra, Danimarca, Norvegia, Sud Africa, India, Kuwait, Malesia, Filippine, Corea, Canada e Stati Uniti.
Rivolgo un saluto particolare alla delegazione del NATO Defense College, ai sacerdoti dell’Istituto di Formazione Teologica Permanente del Pontificio Collegio Americano del Nord, nonché ai membri della Gregorian University Foundation.
Su tutti voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace del Signore nostro Gesú Cristo.
Dio vi benedica!]
Liebe Brüder und Schwestern, bitten wir den Heiligen Geist, dass er das Feuer seiner göttlichen Liebe in uns stets lebendig hält, die uns zu Kindern Gottes macht und uns befähigt, Gott und den Nächsten zu lieben und so das Ewige Leben zu erlangen.
Wenn ihr nicht wisst, worum ihr beten sollt, betet um den Heiligen Geist!
[Cari fratelli e sorelle, chiediamo allo Spirito Santo di mantenere sempre vivo in noi il fuoco del suo amore divino che ci rende figli di Dio e capaci di amare Dio e il prossimo e conseguire così la vita eterna.
Se non sapete cosa chiedere nella preghiera, chiedete lo Spirito Santo!]
Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española, que son tantos.
El próximo domingo se celebra la Jornada Mundial de las Misiones, y canonizaré a catorce beatos; catorce nuevos santos.
Los invito a conocer a esos nuevos santos y a pedir su intercesión, ya que son un claro testimonio de la acción del Espíritu Santo en la vida de la Iglesia.
Que Jesús los bendiga y la Virgen Santa los cuide.
Muchas gracias.
Saúdo cordialmente os fiéis de língua portuguesa, de modo especial os peregrinos da Basílica São João Batista da Lagoa, no Rio de Janeiro, e da Paróquia Divino Espírito Santo, de Itápolis.
Peçamos ao Espírito Santo o dom da vida nova em Cristo, para nós e para aqueles que ainda não encontraram um sentido para as suas vidas.
Deus vos abençoe!
[Saluto cordialmente i fedeli di lingua portoghese, in modo speciale i pellegrini della Basilica San Giovanni Battista da Lagoa a Rio de Janeiro e della Parrocchia Divino Spirito Santo a Itápolis.
Chiediamo allo Spirito Santo il dono della vita nuova in Cristo per noi e per coloro che non hanno ancora trovato un senso alla loro vita.
Dio vi benedica!]
أُحَيِّي المُؤمِنينَ النَّاطِقينَ باللغَةِ العربِيَّة.
الإيمانُ بالرُّوحِ القُدُس هو أنْ نُوكِلَ أنفُسَنا إلى مَن هو حاضِرٌ دائمًا بيننا، ويُعَزِّينا ويَسنِدُنا ويُرافِقُنا في مسيرةِ إيمانِنا.
باركَكُم الرّبُّ جَميعًا وحَماكُم دائِمًا مِن كُلِّ شَرّ!
[Saluto i fedeli di lingua araba.
Credere nello Spirito Santo è affidarsi a Colui che è sempre presente in mezzo a noi, che ci conforta, ci sostiene e ci accompagna nel nostro cammino di fede.
Il Signore vi benedica tutti e vi protegga sempre da ogni male!]
Serdecznie pozdrawiam Polaków, a szczególnie uczestników konferencji poświęconej bł.
ks.
Jerzemu Popiełuszce, jaka odbyła się w Rzymie w 40.
rocznicę jego męczeństwa.
Niech ten Błogosławiony, który uczył jak zło dobrem zwyciężać, wspiera was w budowaniu jedności w duchu prawdy i poszanowania godności osoby ludzkiej.
Z serca wam błogosławię.
[Saluto cordialmente i polacchi, in particolare i partecipanti alla conferenza dedicata al Beato Don Popiełuszko, tenutasi a Roma nel 40° anniversario del suo martirio.
Questo Beato, che ha insegnato a vincere il male con il bene, vi sostenga nel costruire l’unità nello spirito della verità e del rispetto per la dignità della persona umana.
Vi benedico di cuore.]
* * *
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana.
In particolare, saluto i partecipanti al convegno mondiale di Radio Maria, provenienti da diversi Paesi e li esorto a diffondere i valori della fraternità e della solidarietà, facendosi eco della vita della Chiesa.
Saluto i fedeli di Roseto Valforte e quelli di Polla, come pure i Sottoufficiali dei Carabinieri in congedo.
Accolgo con affetto i cresimati della Diocesi di Faenza-Modigliana, accompagnati dal loro Vescovo Mons.
Mario Toso; cari ragazzi, aprite il cuore ai suggerimenti dello Spirito Santo per essere coraggiosi testimoni del Vangelo.
Il mio pensiero va infine ai giovani, agli ammalati, agli anziani e agli sposi novelli.
Domani la liturgia ci fa celebrare la memoria di sant’Ignazio di Antiochia, pastore ardente di amore per Cristo.
Il suo esempio aiuti tutti a riscoprire la gioia di essere cristiani.
E non dimentichiamo i Paesi in guerra; non dimentichiamo la martoriata Ucraina, la Palestina, Israele, Myanmar.
Fratelli e sorelli non dimentichiamo che la guerra sempre, sempre, è una sconfitta.
Non dimentichiamo questo e preghiamo per la pace e lottiamo per la pace.
A tutti la mia benedizione!
Cari fratelli e sorelle, buona domenica!
Il Vangelo della liturgia odierna (Mc 10,17-30) ci parla di un uomo ricco che corre incontro a Gesù e gli chiede: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?» (v.
17).
Gesù lo invita a lasciare tutto e a seguirlo, ma quello, rattristato, se ne va poiché – dice il testo – «possedeva infatti molti beni» (v.
23).
Costa lasciare tutto.
Possiamo vedere i due movimenti di quest’uomo: all’inizio corre, per andare da Gesù; alla fine, però, se ne va rattristato, se ne va via triste.
Prima corre incontro, e poi se ne va.
Soffermiamoci su questo.
Anzitutto, questo tale va da Gesù correndo.
È come se qualcosa nel suo cuore lo spingesse: in effetti, pur avendo tante ricchezze, è insoddisfatto, porta dentro un’inquietudine, è alla ricerca di una vita più piena.
Come fanno spesso ammalati e indemoniati (cfr Mc 3,10; 5,6), nel Vangelo si vede, egli si butta ai piedi del Maestro; è ricco, eppure ha bisogno di guarigione.
E’ ricco ma ha bisogno di guarigione.
Gesù lo guarda con amore (v.
21); poi, gli propone una “terapia”: vendere tutto quello che ha, darlo ai poveri e seguirlo.
Ma, a questo punto, arriva una conclusione inattesa: quest’uomo si fa triste in volto e se ne va via! Tanto grande e impetuoso è stato il desiderio di incontrare Gesù, quanto freddo e veloce il congedo da Lui.
Anche noi, portiamo nel cuore un insopprimibile bisogno di felicità e di una vita colma di significato; tuttavia, possiamo cadere nell’illusione di pensare che la risposta si trovi nel possesso delle cose materiali e nelle sicurezze terrene.
Gesù invece vuole riportarci alla verità dei nostri desideri e farci scoprire che, in realtà, il bene a cui aneliamo è Dio stesso, il suo amore per noi e la vita eterna che Lui e Lui solo può donarci.
La vera ricchezza è essere guardati con amore dal Signore - è una grande ricchezza questa - , e come fa Gesù con quell’uomo, amarci tra di noi facendo della nostra vita un dono per gli altri.
Fratelli e sorelle, perciò, Gesù ci invita a rischiare, a “rischiare l’amore”: vendere tutto per darlo ai poveri, che significa spogliarci di noi stessi e delle nostre false sicurezze, facendoci attenti a chi è nel bisogno e condividendo i nostri beni, non solo le cose ma ciò che siamo: i nostri talenti, la nostra amicizia, il nostro tempo, e così via.
Fratelli e sorelle, quell’uomo ricco non ha voluto rischiare, rischiare che? Non ha voluto rischiare l’amore e se n’è andato col volto triste.
E noi? Chiediamoci: a che cosa è attaccato il nostro cuore? Come saziamo la nostra fame di vita e di felicità? Sappiamo condividere con chi è povero, con chi è in difficoltà o ha bisogno di un po' di ascolto, che ha bisogno di un sorriso, di una parola che lo aiuti a ritrovare speranza? O che ha bisogno di essere ascoltato… Ricordiamoci questo: la vera ricchezza non sono i beni di questo mondo, la vera ricchezza è essere amati da Dio e imparare ad amare come Lui.
Ed ora chiediamo l’intercessione della Vergine Maria, perché ci aiuti a scoprire in Gesù il tesoro della vita.
_________________
Dopo l'Angelus
Cari fratelli e sorelle!
Continuo a seguire con preoccupazione quanto sta avvenendo in Medio Oriente, e chiedo ancora una volta un immediato cessate il fuoco su tutti i fronti.
Si percorrano le vie della diplomazia e del dialogo per ottenere la pace.
Sono vicino a tutte le popolazioni coinvolte, in Palestina, in Israele e in Libano, dove chiedo che siano rispettate le forze di pace delle Nazioni Unite.
Prego per tutte le vittime, per gli sfollati, per gli ostaggi che auspico siano subito rilasciati, e spero che questa grande inutile sofferenza, generata dall’odio e dalla vendetta, finisca presto.
Fratelli e sorelle, la guerra è un’illusione, è una sconfitta, non porterà mai la pace, non porterà mai la sicurezza, è una sconfitta per tutti, soprattutto per chi si crede invincibile.
Fermatevi, per favore!
Rivolgo il mio appello affinché gli ucraini non siano lasciati morire di freddo, cessino gli attacchi aerei contro la popolazione civile, che è sempre la più colpita.
Basta uccidere innocenti!
Seguo la drammatica situazione in Haiti, dove continuano le violenze contro la popolazione, forzata a fuggire dalle proprie case in cerca di sicurezza altrove, dentro e fuori il Paese.
Non dimentichiamo mai i nostri fratelli e sorelle haitiani.
Chiedo a tutti di pregare affinché cessi ogni forma di violenza e, con l’impegno della Comunità internazionale, si continui a lavorare per costruire la pace e la riconciliazione nel Paese, difendendo sempre la dignità e i diritti di tutti.
Saluto voi, romani e pellegrini d’Italia e di tanti Paesi, in particolare, l’Associazione Milizia dell’Immacolata fondata da San Massimiliano Kolbe, le parrocchie di Resuttano (Caltanissetta), gli atleti paralimpici italiani con le guide e gli assistenti e il gruppo di Pax Christi International.
Saluto un’altra volta i nuovi alunni del Collegio Urbano che ho incontrato questa mattina.
Venerdì prossimo, 18 ottobre, la Fondazione “Aiuto alla Chiesa che soffre” promuove l’iniziativa “Un milione di bambini recita il Rosario per la pace nel mondo”.
Grazie a tutti i bambini e le bambine che partecipano! Ci uniamo a loro e affidiamo all’intercessione della Madonna – della quale oggi ricorre l’anniversario dell’ultima apparizione a Fatima – all’intercessione della Madonna affidiamo la martoriata Ucraina, il Myanmar, il Sudan e le altre popolazioni che soffrono per la guerra e ogni forma di violenza e di miseria.
Saluto i ragazzi dell’Immacolata e vedo bandiere polacche, brasiliane, argentine, ecuadoriane, francesi… saluto tutti!
Auguro a tutti buona domenica.
Per favore non dimenticatevi di pregare per me.
Buon pranzo e arrivederci!
Testo consegnato
«Io ho dato loro la stessa gloria che tu hai dato a me» (Gv 17,22).
Queste parole della preghiera di Gesù prima della Passione, si possono riferire in modo eminente ai martiri, glorificati per la testimonianza resa a Cristo.
In questo luogo ricordiamo i Primi Martiri della Chiesa a Roma: sul loro sangue è stata costruita questa basilica, sul loro sangue è stata edificata la Chiesa.
Possano questi Martiri rafforzare la nostra certezza che, avvicinandoci a Cristo, ci avviciniamo gli uni agli altri, sostenuti dalla preghiera di tutti i santi delle nostre Chiese, già perfettamente uniti dalla loro partecipazione al Mistero pasquale.
Come afferma il Decreto Unitatis redintegratio, di cui ricorre il sessantesimo anniversario, quanto più i cristiani sono vicini a Cristo, tanto più sono vicini tra loro (cfr n.
7).
In questo giorno, nel quale ricordiamo l’apertura del Concilio Vaticano II, che ha segnato l’ingresso ufficiale della Chiesa cattolica nel movimento ecumenico, siamo riuniti insieme ai Delegati fraterni, ai nostri fratelli e sorelle delle altre Chiese.
Perciò faccio mie le parole che San Giovanni XXIII rivolse agli osservatori all’apertura del Concilio: «La vostra stimata presenza qui, la commozione che abbraccia il mio cuore di sacerdote, di vescovo della Chiesa di Dio […] mi invitano ad affidarvi l’anelito del mio cuore, che arde dal desiderio di lavorare e soffrire per l’avvicinarsi dell’ora in cui si compirà per tutti la preghiera di Cristo nell’Ultima Cena» (13 ottobre 1962).
Entriamo in questa preghiera di Gesù, facciamola nostra nello Spirito Santo, accompagnata da quella dei Martiri.
Unità dei cristiani e sinodalità sono collegate.
Infatti, se «il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio» (Discorso nel 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, 17 ottobre 2015), esso va percorso con tutti i cristiani.
«Il cammino della sinodalità […] è e dev’essere ecumenico, così come il cammino ecumenico è sinodale» (Discorso a Sua Santità Mar Awa III, 19 novembre 2022).
In entrambi i processi, si tratta non tanto di costruire qualcosa quanto di accogliere e far fruttare il dono che già abbiamo ricevuto.
E come si presenta il dono dell’unità? L’esperienza sinodale ci aiuta a scoprirne alcuni aspetti.
L’unità è una grazia, un dono imprevedibile.
Il vero protagonista non siamo noi, ma lo Spirito Santo che ci guida verso una maggiore comunione.
Come non sappiamo in anticipo quale sarà l’esito del Sinodo, così non sappiamo esattamente come sarà l’unità a cui siamo chiamati.
Il Vangelo ci dice che Gesù, in quella sua grande preghiera, “alzò gli occhi al cielo”: l’unità non è innanzitutto un frutto della terra, ma del Cielo.
È un dono di cui non possiamo prevedere i tempi e i modi; dobbiamo riceverlo «senza porre alcun ostacolo alla Provvidenza e senza pregiudicare i futuri suggerimenti dello Spirito Santo», come dice ancora il Decreto conciliare (UR, 24).
Padre Paul Couturier soleva dire che l’unità dei cristiani va implorata “come Cristo vuole” e “con i mezzi che Egli vuole”.
Un altro insegnamento che viene dal processo sinodale è che l’unità è un cammino: matura nel movimento, strada facendo.
Cresce nel servizio reciproco, nel dialogo della vita, nella collaborazione di tutti i cristiani che «fa emergere più chiaramente il volto di Cristo servitore» (UR, 12).
Ma dobbiamo camminare secondo lo Spirito (cfr Gal 5,16-25); o, come dice Sant’Ireneo, come tôn adelphôn synodía, “una carovana di fratelli”.
L’unione tra i cristiani cresce e matura nel comune pellegrinaggio “al ritmo di Dio”, come i pellegrini di Emmaus accompagnati da Gesù risorto.
Un terzo insegnamento è che l’unità è armonia.
Il Sinodo ci sta aiutando a riscoprire la bellezza della Chiesa nella varietà dei suoi volti.
Così l’unità non è uniformità, né frutto di compromessi o di equilibrismi.
L’unità dei cristiani è armonia nella diversità dei carismi suscitati dallo Spirito per l’edificazione di tutti i cristiani (cfr UR, 4).
L’armonia è la via dello Spirito, perché Egli stesso, come dice San Basilio, è armonia (cfr Sul Salmo 29, 1).
Noi abbiamo bisogno di percorrere il sentiero dell’unità in virtù del nostro amore per Cristo e per tutte le persone che siamo chiamati a servire.
Lungo questa via, non lasciamoci mai fermare dalle difficoltà! Abbiamo fiducia nello Spirito Santo, che spinge all’unità in un’armonia di multicolore diversità.
Infine, come la sinodalità, l’unità dei cristiani è necessaria per la loro testimonianza: l’unità è per la missione.
«Che tutti siano una cosa sola ...
perché il mondo creda» (Gv 17,21).
Questa era la convinzione dei Padri conciliari nell’affermare che la nostra divisione «è di scandalo al mondo e danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura» (UR, 1).
Il movimento ecumenico è nato dal desiderio di testimoniare insieme, con gli altri e non lontano gli uni dagli altri, o peggio ancora gli uni contro gli altri.
In questo luogo i Protomartiri ci ricordano che oggi, in molte parti del mondo, cristiani di diverse tradizioni danno la vita insieme per la fede in Gesù Cristo, vivendo l’ecumenismo del sangue.
La loro testimonianza è più forte di qualsiasi parola, perché l’unità viene dalla Croce del Signore.
Prima di cominciare questa Assemblea, abbiamo avuto una Celebrazione penitenziale.
Oggi esprimiamo anche la vergogna per lo scandalo della divisione dei cristiani, lo scandalo di non dare insieme testimonianza al Signore Gesù.
Questo Sinodo è un’opportunità per fare meglio, superando i muri che ancora esistono tra noi.
Concentriamoci sul terreno comune del nostro comune Battesimo, che ci spinge a diventare discepoli missionari di Cristo, con una comune missione.
Il mondo ha bisogno di una testimonianza comune, il mondo ha bisogno che siamo fedeli alla nostra comune missione.
Cari fratelli e sorelle, davanti al Crocifisso San Francesco d’Assisi ha ricevuto la chiamata a restaurare la Chiesa.
La Croce di Cristo guidi anche noi, ogni giorno, nel cammino verso la piena unità, nell’armonia tra di noi e con tutta la creazione, «perché piacque a Dio di far abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli» (Col 1,19-20).
Caro Monsignor Lackner,
Eccellenza,
cari atleti, cari amici,
saluto di cuore voi, che dall’Austria siete venuti qui in Vaticano per incontrare il Successore di Pietro.
La vostra Patria, ricca di montagne maestose, offre ottime possibilità per gli sport alpini.
La vostra associazione Ski Austria, fondata nel 1905, si prefigge di promuovere a livello nazionale le diverse attività sciistiche, soprattutto gli atleti nelle loro prestazioni di eccellenza.
Vorrei incoraggiare tutti voi a coltivare sempre nel vostro impegno i valori inerenti allo sport, i valori propri dello sport: la costanza, la sincerità, l’amicizia, la solidarietà.
In questo modo voi date il vostro contributo per un mondo più fraterno – perché lo sport fa fratellanza –, per cantare, in mezzo alle meraviglie della natura del vostro Paese, l’inno di lode al Creatore.
Il Signore vi accompagni e gli Angeli custodi vi proteggano da ogni pericolo.
Io prego per voi e voi pregate per me.
Ich bete für Sie, beten Sie für mich: Diese Arbeit ist nicht einfach! Vielen Dank.
Il testo qui di seguito include anche parti non lette che sono date ugualmente come pronunciate.
Ciclo di Catechesi.
Lo Spirito e la Sposa.
Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza. 8. «Tutti furono colmati di Spirito Santo». Lo Spirito Santo negli Atti degli Apostoli
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Nel nostro itinerario di catechesi sullo Spirito Santo e la Chiesa, oggi facciamo riferimento al Libro degli Atti degli Apostoli.
Il racconto della discesa dello Spirito Santo a Pentecoste inizia con la descrizione di alcuni segni preparatori – il vento fragoroso e le lingue di fuoco –, ma trova la sua conclusione nell’affermazione: «E tutti furono colmati di Spirito Santo» (At 2,4).
San Luca – che ha scritto gli Atti degli Apostoli – mette in luce che lo Spirito Santo è Colui che assicura l’universalità e l’unità della Chiesa.
L’effetto immediato dell’essere “colmati di Spirito Santo” è che gli Apostoli «cominciarono a parlare in altre lingue» e uscirono dal Cenacolo per annunciare Gesù Cristo alla folla (cfr At 2,4ss).
Così facendo, Luca ha voluto mettere in risalto la missione universale della Chiesa, come segno di una nuova unità tra tutti i popoli.
In due modi vediamo che lo Spirito lavora per l’unità.
Da un lato, spinge la Chiesa verso l’esterno, perché possa accogliere un numero sempre maggiore di persone e di popoli; dall’altro lato, la raccoglie al suo interno per consolidare l’unità raggiunta.
Le insegna a estendersi in universalità e a raccogliersi in unità.
Universale e una: questo è il mistero della Chiesa.
Il primo dei due movimenti – l’universalità – lo vediamo in atto nel capitolo 10 degli Atti, nell’episodio della conversione di Cornelio.
Il giorno di Pentecoste gli Apostoli avevano annunciato Cristo a tutti i giudei e gli osservanti della legge mosaica, a qualsiasi popolo appartenessero.
Ci vuole un’altra “pentecoste”, molto simile alla prima, quella in casa del centurione Cornelio, per indurre gli Apostoli ad allargare l’orizzonte e far cadere l’ultima barriera, quella tra giudei e pagani (cfr At 10-11).
A questa espansione etnica si aggiunge quella geografica.
Paolo – si legge sempre negli Atti degli Apostoli (cfr 16,6-10) – voleva annunciare il Vangelo in una nuova regione dell’Asia Minore; ma, è scritto, «lo Spirito Santo glielo aveva impedito»; voleva passare in Bitinia «ma lo Spirito di Gesù non lo permise».
Si scopre subito il perché di questi sorprendenti divieti dello Spirito: la notte seguente l’Apostolo riceve in sogno l’ordine di passare in Macedonia.
Il Vangelo usciva così dalla nativa Asia ed entrava in Europa.
Il secondo movimento dello Spirito Santo – quello che crea l’unità – lo vediamo in atto nel capitolo 15 degli Atti, nello svolgimento del cosiddetto concilio di Gerusalemme.
Il problema è come far sì che l’universalità raggiunta non comprometta l’unità della Chiesa.
Lo Spirito Santo non opera sempre l’unità in maniera repentina, con interventi miracolosi e risolutivi, come a Pentecoste.
Lo fa anche – e nella maggioranza dei casi – con un lavorio discreto, rispettoso dei tempi e delle divergenze umane, passando attraverso persone e istituzioni, preghiera e confronto.
In maniera, diremmo oggi, sinodale.
Così infatti avvenne, nel concilio di Gerusalemme, per la questione degli obblighi della Legge mosaica da imporre ai convertiti dal paganesimo.
La sua soluzione fu annunciata a tutta la Chiesa con le ben note parole: «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi...» (At 15,28).
Sant’Agostino spiega l’unità operata dallo Spirito Santo con una immagine, divenuta classica: «Ciò che è l’anima per il corpo umano, lo Spirito Santo lo è per il corpo di Cristo che è la Chiesa» [1].
L’immagine ci aiuta a capire una cosa importante.
Lo Spirito Santo non opera l’unità della Chiesa dall’esterno; non si limita a comandare di essere uniti.
È Lui stesso il “vincolo di unità”.
È Lui che fa l’unità della Chiesa.
Come sempre, concludiamo con un pensiero che ci aiuta a passare dall’insieme della Chiesa a ciascuno di noi.
L’unità della Chiesa è l’unità tra persone e non si realizza a tavolino, ma nella vita.
Si realizza nella vita.
Tutti vogliamo l’unità, tutti la desideriamo dal profondo del cuore; eppure essa è tanto difficile da ottenere che, anche all’interno del matrimonio e della famiglia, l’unione e la concordia sono tra le cose più difficili da raggiungere e più ancora da mantenere.
Il motivo – per cui è difficile l’unità tra noi – è che ognuno vuole, sì, che si faccia l’unità, ma intorno al proprio punto di vista, senza pensare che l’altro che gli sta davanti pensa esattamente la stessa cosa circa il “suo” punto di vista.
Per questa via, l’unità non fa che allontanarsi.
L’unità di vita, l’unità di Pentecoste, secondo lo Spirito, si realizza quando ci si sforza di mettere al centro Dio, non sé stessi.
Anche l’unità dei cristiani si costruisce così: non aspettando che gli altri ci raggiungano là dove noi siamo, ma muovendoci insieme verso Cristo.
Chiediamo allo Spirito Santo che ci aiuti ad essere strumenti di unità e di pace.
__________________________________________
[1] Discorsi, 267, 4
________________________________
Saluti
Je salue cordialement les pèlerins de langue française, en particulier ceux venus de Haïti, de l’Ile Maurice et de France.
Frères et sœurs, comme Église synodale en marche vers le Christ, demandons à l’Esprit Saint la grâce d’être des instruments d’unité et de paix.
Que Dieu vous bénisse !
[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese, in particolare quelli provenienti da Haiti, Mauritius e Francia.
Fratelli e sorelle, come Chiesa sinodale in cammino verso Cristo, chiediamo allo Spirito Santo la grazia di essere strumenti di unità e di pace.
Dio vi benedica!]
I extend a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors, especially those coming from England, Scotland, Denmark, Greece, India, Indonesia and the United States.
I greet the new seminarians of the Pontifical Beda College and I assure them of my prayers as they begin their studies for the priesthood.
Upon all of you, and upon your families, I invoke the joy and peace of our Lord Jesus Christ.
God bless you!
[Saluto i pellegrini di lingua inglese, specialmente quelli provenienti da Inghilterra, Scozia, Danimarca, Grecia, India, Indonesia e Stati Uniti.
Rivolgo un saluto particolare ai nuovi seminaristi del Pontificio Collegio Beda, assicurando la mia preghiera per la loro preparazione al sacerdozio.
Su tutti voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace del Signore nostro Gesú Cristo.
Dio vi benedica!]
Liebe Brüder und Schwestern, ich lade euch ein, jetzt im Oktober den Rosenkranz zu beten, euch von Maria zu ihrem Sohn Jesus führen zu lassen und gemeinsam für den Frieden in der Welt und die Einheit der Kirche zu beten.
Heilige Maria, Unsere Liebe Frau vom Rosenkranz, bitte für uns!
[Cari fratelli e sorelle, in questo mese di ottobre vi invito a recitare il Rosario, lasciandovi condurre da Maria verso il suo figlio Gesù, e a pregare insieme per la pace nel mondo e per l’unità della Chiesa.
Vergine Santa, Regina del santo Rosario, prega per noi!]
Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española.
En este mes dedicado a las misiones —veo banderas uruguayas, argentinas, colombianas, ecuatorianas, mexicanas, a todos los saludo—, pidamos al Espíritu Santo que nos ayude a renovar nuestro compromiso bautismal, y que sea Cristo la piedra angular de nuestras vidas, para ofrecer un testimonio alegre de la unidad y de la paz que Él nos da.
Que Jesús los bendiga y la Virgen Santa los cuide.
Muchas gracias.
Queridos fiéis de língua portuguesa, sede bem-vindos.
Saúdo, de modo especial, os peregrinos vindos do Brasil e de Alfândega da Fé (Portugal).
Formulo votos para que cada um de vós seja um artesão de unidade onde quer que se encontre, mas sobretudo no seio da família.
E, no caso de encontrardes dificuldades, lembrai-vos que podeis contar sempre com o apoio do Espírito Santo: Ele nunca nos falta.
[Cari fedeli di lingua portoghese, benvenuti.
In modo speciale, saluto i pellegrini provenienti dal Brasile e d’Alfândega da Fé (Portogallo).
Auspico che ognuno di voi sia artigiano dell’unità ovunque si trovi, ma soprattutto all’interno della famiglia.
E se troverete difficoltà, ricordatevi che potete contare sempre sul sostegno dello Spirito Santo: Lui non ci manca mai.]
أُحَيِّي المُؤمِنينَ النَّاطِقينَ باللغَةِ العربِيَّة.
لِنَطلُبْ إلى الرُّوحِ القُدُس أنْ يُساعِدَنا لنكونَ أدواتِ وَحدةٍ وسلامٍ مِن أجلِ خيرِ الكنيسة.
باركَكُم الرّبُّ جَميعًا وحَماكُم دائِمًا مِن كُلِّ شَرّ!
[Saluto i fedeli di lingua araba.
Chiediamo allo Spirito Santo che ci aiuti ad essere strumenti di unità e di pace per il bene della Chiesa.
Il Signore vi benedica tutti e vi protegga sempre da ogni male!]
Pozdrawiam serdecznie pielgrzymów polskich.
Bóg codziennie towarzyszy wam w zmaganiach o jedność i pokój w sercach, w rodzinach, w narodzie.
Szanując ludzką wolność i indywidualność, zsyła swego Ducha, by pokonać sztuczne bariery i poszerzyć serca, otwierając je na innych.
Przyjmijcie Ducha Świętego do swoich serc.
Niech Matka Boża Różańcowa wspiera was, i niech Bóg wam błogosławi.
[Saluto cordialmente i pellegrini polacchi.
Dio vi accompagna ogni giorno nel vostro impegno per l'unità e la pace nei cuori, nelle famiglie e nella nazione.
Rispettando la libertà e l'individualità umana, manda il suo Spirito per superare le barriere artificiali e allargare i cuori, aprendoli agli altri.
Accogliete lo Spirito Santo nei vostri cuori.
La Vergine del Rosario vi sostenga e Dio vi benedica.]
* * *
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana.
In particolare, saluto i Missionari Salesiani e i sacerdoti provenienti dalla Romania.
Saluto l’Opera di San Michele Arcangelo di Petralia, la Scuola Benedetta Cambiagio di Roma e la delegazione del Comune di Cervia.
Il mio pensiero va infine ai giovani, agli ammalati, agli anziani e agli sposi novelli.
Il mese di ottobre, dedicato al Santo Rosario, costituisca un’occasione preziosa per valorizzare questa tradizionale preghiera mariana.
Vi esorto tutti a recitare il Rosario ogni giorno, abbandonandovi fiduciosi nelle mani di Maria.
A Lei, madre premurosa, affidiamo le sofferenze e il desiderio di pace delle popolazioni che subiscono la pazzia della guerra, in particolare la martoriata Ucraina, la Palestina, Israele, il Myanmar, il Sudan.
A tutti la mia benedizione!
Cari fratelli e sorelle,
penso a voi e prego per voi.
Desidero raggiungervi in questo giorno triste.
Un anno fa è divampata la miccia dell’odio; non si è spenta, ma è deflagrata in una spirale di violenza, nella vergognosa incapacità della comunità internazionale e dei Paesi più potenti di far tacere le armi e di mettere fine alla tragedia della guerra.
Il sangue scorre, come le lacrime; la rabbia aumenta, insieme alla voglia di vendetta, mentre pare che a pochi interessi ciò che più serve e che la gente vuole: dialogo, pace.
Non mi stanco di ripetere che la guerra è una sconfitta, che le armi non costruiscono il futuro ma lo distruggono, che la violenza non porta mai pace.
La storia lo dimostra, eppure anni e anni di conflitti sembrano non aver insegnato nulla.
E voi, fratelli e sorelle in Cristo che dimorate nei Luoghi di cui più parlano le Scritture, siete un piccolo gregge inerme, assetato di pace.
Grazie per quello che siete, grazie perché volete rimanere nelle vostre terre, grazie perché sapete pregare e amare nonostante tutto.
Siete un seme amato da Dio.
E come un seme, apparentemente soffocato dalla terra che lo ricopre, sa sempre trovare la strada verso l’alto, verso la luce, per portare frutto e dare vita, così voi non vi lasciate inghiottire dall’oscurità che vi circonda ma, piantati nelle vostre sacre terre, diventate germogli di speranza, perché la luce della fede vi porta a testimoniare l’amore mentre si parla d’odio, l’incontro mentre dilaga lo scontro, l’unità mentre tutto volge alla contrapposizione.
Con cuore di padre mi rivolgo a voi, popolo santo di Dio; a voi, figli delle vostre antiche Chiese, oggi “martiriali”; a voi, semi di pace nell’inverno della guerra; a voi che credete in Gesù «mite e umile di cuore» (Mt 11,29) e in Lui diventate testimoni della forza di una pace non armata.
Gli uomini oggi non sanno trovare la pace e noi cristiani non dobbiamo stancarci di chiederla a Dio.
Perciò oggi ho invitato tutti a vivere una giornata di preghiera e digiuno.
Preghiera e digiuno sono le armi dell’amore che cambiano la storia, le armi che sconfiggono il nostro unico vero nemico: lo spirito del male che fomenta la guerra, perché è «omicida fin da principio», «menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44).
Per favore, dedichiamo tempo alla preghiera e riscopriamo la potenza salvifica del digiuno!
Ho nel cuore una cosa che voglio dire a voi, fratelli e sorelle, ma anche a tutti gli uomini e le donne di ogni confessione e religione che in Medio Oriente soffrono per la follia della guerra: vi sono vicino, sono con voi.
Sono con voi, abitanti di Gaza, martoriati e allo stremo, che siete ogni giorno nei miei pensieri e nelle mie preghiere.
Sono con voi, forzati a lasciare le vostre case, ad abbandonare la scuola e il lavoro, a vagare in cerca di una meta per scappare dalle bombe.
Sono con voi, madri che versate lacrime guardando i vostri figli morti o feriti, come Maria vedendo Gesù; con voi, piccoli che abitate le grandi terre del Medio Oriente, dove le trame dei potenti vi tolgono il diritto di giocare.
Sono con voi, che avete paura ad alzare lo sguardo in alto, perché dal cielo piove fuoco.
Sono con voi, che non avete voce, perché si parla tanto di piani e strategie, ma poco della situazione concreta di chi patisce la guerra, che i potenti fanno fare agli altri; su di loro, però, incombe l’indagine inflessibile di Dio (cfr Sap 6,8).
Sono con voi, assetati di pace e di giustizia, che non vi arrendete alla logica del male e nel nome di Gesù «amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano» (Mt 5,44).
Grazie a voi, figli della pace, perché consolate il cuore di Dio, ferito dal male dell’uomo.
E grazie a quanti, in tutto il mondo, vi aiutano; a loro, che curano in voi Cristo affamato, ammalato, forestiero, abbandonato, povero e bisognoso, chiedo di continuare a farlo con generosità.
E grazie, fratelli vescovi e sacerdoti, che portate la consolazione di Dio nelle solitudini umane.
Vi prego di guardare al popolo santo che siete chiamati a servire e a lasciarvi toccare il cuore, lasciando, per amore dei vostri fedeli, ogni divisione e ambizione.
Fratelli e sorelle in Gesù, vi benedico e vi abbraccio con affetto, di cuore.
La Madonna, Regina della pace, vi custodisca.
San Giuseppe, Patrono della Chiesa, vi protegga.
Fraternamente,
FRANCESCO
Roma, San Giovanni in Laterano, 7 ottobre 2024.
O Maria, Madre nostra, siamo nuovamente qui davanti a te.
Tu conosci i dolori e le fatiche che in quest’ora appesantiscono il nostro cuore.
Noi alziamo lo sguardo a te, ci immergiamo nei tuoi occhi e ci affidiamo al tuo cuore.
Anche a te, o Madre, la vita ha riservato difficili prove e umani timori, ma sei stata coraggiosa e audace: hai affidato tutto a Dio, hai risposto a Lui con amore, hai offerto te stessa senza risparmiarti.
Come intrepida Donna della carità, in fretta ti sei recata ad aiutare Elisabetta, con prontezza hai colto il bisogno degli sposi durante le nozze di Cana; con fortezza d’animo, sul Calvario hai rischiarato di speranza pasquale la notte del dolore.
Infine, con tenerezza di Madre hai dato coraggio ai discepoli impauriti nel Cenacolo e, con loro, hai accolto il dono dello Spirito.
E ora ti supplichiamo: accogli il nostro grido! Abbiamo bisogno del tuo sguardo, del tuo sguardo amorevole che ci invita ad avere fiducia nel tuo Figlio Gesù.
Tu che sei pronta ad accogliere le nostre pene vieni a soccorrerci in questi tempi oppressi dalle ingiustizie e devastati dalle guerre, tergi le lacrime sui volti sofferenti di quanti piangono la morte dei propri cari, dei propri figli, ridestaci dal torpore che ha oscurato il nostro cammino e disarma i nostri cuori dalle armi della violenza, perché si avveri subito la profezia di Isaia: «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un'altra nazione, non impareranno più l'arte della guerra» (Is 2,4).
Madre, rivolgi il tuo sguardo materno alla famiglia umana, che ha smarrito la gioia della pace e ha perso il senso della fraternità.
Madre, intercedi per il nostro mondo in pericolo, perché custodisca la vita e rigetti la guerra, si prenda cura di chi soffre, dei poveri, degli indifesi, degli ammalati e degli afflitti, e protegga la nostra Casa Comune.
Invochiamo da te, Madre, la misericordia di Dio, tu che sei Regina della pace! Converti gli animi di chi alimenta l’odio, silenzia il rumore delle armi che generano morte, spegni la violenza che cova nel cuore dell’uomo e ispira progetti di pace nell’agire di chi governa le Nazioni.
Maria, Regina del santo Rosario, sciogli i nodi dell’egoismo e dirada le nubi oscure del male.
Riempici con la tua tenerezza, sollevaci con la tua mano premurosa e dona a noi figli la tua carezza di Madre, che ci fa sperare nell’avvento di nuova umanità dove « … il deserto diventerà un giardino e il giardino sarà considerato una selva.
Nel deserto prenderà dimora il diritto e la giustizia regnerà nel giardino.
Praticare la giustizia darà pace…» (Is 32,15-17).
O Madre, Salus Populi Romani, prega per noi!
O Maria, Madre nostra, siamo nuovamente qui davanti a te.
Tu conosci i dolori e le fatiche che in quest’ora appesantiscono il nostro cuore.
Noi alziamo lo sguardo a te, ci immergiamo nei tuoi occhi e ci affidiamo al tuo cuore.
Anche a te, o Madre, la vita ha riservato difficili prove e umani timori, ma sei stata coraggiosa e audace: hai affidato tutto a Dio, hai risposto a Lui con amore, hai offerto te stessa senza risparmiarti.
Come intrepida Donna della carità, in fretta ti sei recata ad aiutare Elisabetta, con prontezza hai colto il bisogno degli sposi durante le nozze di Cana; con fortezza d’animo, sul Calvario hai rischiarato di speranza pasquale la notte del dolore.
Infine, con tenerezza di Madre hai dato coraggio ai discepoli impauriti nel Cenacolo e, con loro, hai accolto il dono dello Spirito.
E ora ti supplichiamo: accogli il nostro grido! Abbiamo bisogno del tuo sguardo, del tuo sguardo amorevole che ci invita ad avere fiducia nel tuo Figlio Gesù.
Tu che sei pronta ad accogliere le nostre pene vieni a soccorrerci in questi tempi oppressi dalle ingiustizie e devastati dalle guerre, tergi le lacrime sui volti sofferenti di quanti piangono la morte dei propri cari, dei propri figli, ridestaci dal torpore che ha oscurato il nostro cammino e disarma i nostri cuori dalle armi della violenza, perché si avveri subito la profezia di Isaia: «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un'altra nazione, non impareranno più l'arte della guerra» (Is 2,4).
Madre, rivolgi il tuo sguardo materno alla famiglia umana, che ha smarrito la gioia della pace e ha perso il senso della fraternità.
Madre, intercedi per il nostro mondo in pericolo, perché custodisca la vita e rigetti la guerra, si prenda cura di chi soffre, dei poveri, degli indifesi, degli ammalati e degli afflitti, e protegga la nostra Casa Comune.
Invochiamo da te, Madre, la misericordia di Dio, tu che sei Regina della pace! Converti gli animi di chi alimenta l’odio, silenzia il rumore delle armi che generano morte, spegni la violenza che cova nel cuore dell’uomo e ispira progetti di pace nell’agire di chi governa le Nazioni.
Maria, Regina del santo Rosario, sciogli i nodi dell’egoismo e dirada le nubi oscure del male.
Riempici con la tua tenerezza, sollevaci con la tua mano premurosa e dona a noi figli la tua carezza di Madre, che ci fa sperare nell’avvento di nuova umanità dove « … il deserto diventerà un giardino e il giardino sarà considerato una selva.
Nel deserto prenderà dimora il diritto e la giustizia regnerà nel giardino.
Praticare la giustizia darà pace…» (Is 32,15-17).
O Madre, Salus Populi Romani, prega per noi!
Cari fratelli e sorelle, buona domenica!
Oggi nel Vangelo della liturgia (cfr Mc 10,2-16) Gesù ci parla dell’amore coniugale.
Come già altre volte, alcuni farisei gli fanno una domanda provocatoria su un tema controverso: il ripudio della moglie da parte del marito.
Vorrebbero trascinarlo in una polemica, ma Lui non ci sta, anzi coglie l’occasione per richiamare la loro attenzione su un discorso più importante: il valore dell’amore tra uomo e donna.
Al tempo di Gesù la condizione della donna nel matrimonio era di grande svantaggio rispetto a quella dell’uomo: il marito poteva cacciare, ripudiare la moglie, anche per motivi futili, e ciò veniva giustificato con interpretazioni legalistiche delle Scritture.
Per questo il Signore riconduce i suoi interlocutori alle esigenze dell’amore.
Ricorda loro che donna e uomo sono stati voluti dal Creatore uguali nella dignità e complementari nella diversità, per poter essere l’uno per l’altra aiuto, compagnia, ma al tempo stesso stimolo e sfida a crescere (cfr Gen 2,20-23).
E perché ciò avvenga, sottolinea la necessità che il loro dono reciproco sia pieno, coinvolgente, senza “mezze misure” – questo è l’amore –, che sia l’inizio di una vita nuova (cfr Mc 10,7; Gen 2,24), destinata a durare non “fino a quando mi va”, ma per sempre, accogliendosi reciprocamente e vivendo uniti come “una carne sola” (cfr Mc 10,8; Gen 2,24).
Certo, questo non è facile, richiede fedeltà, anche nelle difficoltà, richiede rispetto, sincerità, semplicità (cfr Mc 10,15).
Richiede di essere disponibili al confronto, a volte alla discussione, quando ci vuole, ma sempre pronti al perdono e alla riconciliazione.
E mi raccomando: marito e moglie, litigate quanto volete, a patto che si faccia la pace prima che finisca la giornata! Sapete perché? Perché la guerra fredda del giorno dopo è pericolosa.
“E mi dica, Padre, come si fa la pace?” – “Basta una carezza, così”, ma mai andare a finire la giornata senza fare la pace.
Non dimentichiamo, poi, che per gli sposi è essenziale essere aperti al dono della vita, al dono dei figli, che sono il frutto più bello dell’amore, la benedizione più grande di Dio, fonte di gioia e di speranza per ogni casa e tutta la società.
Fate figli! Ieri ho avuto una grande consolazione.
Era il giorno della Gendarmeria, ed è venuto un gendarme con i suoi otto figli! Era bellissimo vederlo.
Per favore, aperti alla vita, quello che Dio manda.
Care sorelle, cari fratelli, l’amore è esigente, sì, ma è bello, e più ce ne lasciamo coinvolgere, più scopriamo, in esso, la vera felicità.
E adesso ognuno si chieda nel suo cuore: com’è il mio amore? È fedele? È generoso? È creativo? Come sono le nostre famiglie? Sono aperte alla vita, al dono dei figli?
La Vergine Maria aiuti gli sposi cristiani.
Ci rivolgiamo a lei in unione spirituale con i fedeli radunati presso il Santuario di Pompei per la tradizionale Supplica alla Madonna del santo Rosario.
__________________
Dopo l'Angelus
Cari fratelli e sorelle!
Domani sarà passato un anno dall’attacco terroristico contro la popolazione in Israele, alla quale rinnovo la mia vicinanza.
Non dimentichiamo che ancora ci sono molti ostaggi a Gaza, per i quali chiedo l’immediata liberazione.
Da quel giorno il Medio Oriente è precipitato in una sofferenza sempre più grave, con azioni militari distruttive che continuano a colpire la popolazione palestinese.
Questa popolazione sta soffrendo tantissimo a Gaza e negli altri territori.
Si tratta perlopiù di civili innocenti, tutta gente e che deve ricevere tutti gli aiuti umanitari necessari.
Chiedo un cessate il fuoco immediato su tutti i fronti, compreso il Libano.
Preghiamo per i libanesi, specialmente per gli abitanti del sud, costretti a lasciare i loro villaggi.
Faccio appello alla comunità internazionale, affinché si metta fine alla spirale della vendetta e non si ripetano più gli attacchi, come quello compiuto dall’Iran qualche giorno fa, che possono far precipitare quella Regione in una guerra ancora più grande.
Tutte le Nazioni hanno il diritto di esistere in pace e sicurezza, e i loro territori non devono essere attaccati o invasi, la sovranità dev’essere rispettata e garantita dal dialogo e dalla pace, non dall’odio e dalla guerra.
In questa situazione, è più che mai necessaria la preghiera.
Oggi pomeriggio tutti andremo alla Basilica di Santa Maria Maggiore a invocare l’intercessione della Madre di Dio; e domani sarà giornata di preghiera e digiuno per la pace nel mondo.
Uniamoci con la forza del Bene contro le trame diaboliche della guerra.
Sono vicino alle popolazioni della Bosnia ed Erzegovina colpite dalle alluvioni.
Il Signore accolga i defunti, conforti i familiari e sostenga quelle comunità.
Saluto voi, romani e pellegrini dall’Italia e da tanti Paesi.
In particolare, saluto la banda musicale di Cabañas (El Salvador) – poi li sentiremo suonare –, i fedeli polacchi devoti del Santuario della Madonna della Misericordia nella diocesi di Radom, e quelli venuti dalla Martinica.
Saluto il gruppo di pellegrini del Santuario della Vergine della Rivelazione alle Tre Fontane, che oggi porteranno la statua della Madonna da San Pietro a questo Santuario mariano di Roma, pregando per la pace.
Saluto gli ex-alunni del Seminario Minore “Poggio Galeso” di Taranto; saluto l’Associazione Teatro Patologico di Roma, la banda della Scuola “Sacra Famiglia” di Cremona e i partecipanti alla manifestazione “Fiabaday”, che operano per l’eliminazione delle barriere architettoniche.
E adesso sono lieto di annunciare che l’8 dicembre prossimo terrò un concistoro per la nomina di nuovi Cardinali.
La loro provenienza esprime l’universalità della Chiesa che continua ad annunciare l’amore misericordioso di Dio a tutti gli uomini della terra.
L’inserimento dei nuovi Cardinali nella Diocesi di Roma, inoltre, manifesta l’inscindibile legame tra la Sede di Pietro e le Chiese particolari diffuse nel mondo.
Ecco i nomi dei nuovi Cardinali:
- S.E.
Mons.
Angelo Acerbi, Nunzio Apostolico;
- S.E.
Mons.
Carlos Gustavo Castillo Mattasoglio, Arcivescovo di Lima, Perù;
- S.E.
Mons.
Vicente Bokalic Iglic, C.M., Arcivescovo di Santiago del Estero, Primate di Argentina;
- S.E.
Mons.
Gerardo Cabrera Herrera, O.F.M., Arcivescovo di Guayaquil, Ecuador;
- S.E.
Mons.
Natalio Chomalí Garib, Arcivescovo Santiago de Chile, Cile;
- S.E.
Mons.
Tarcisio Isao Kikuchi, S.V.D., Arcivescovo di Tokyo, Giappone;
- S.E.
Mons.
Pablo Virgilio Siongco David, Vescovo di Kalookan, Filippine;
- S.E.
Mons.
Ladislav Nemet, S.V.D., Arcivescovo di Beograd, Serbia;
- S.E.
Mons.
Jaime Spengler, O.F.M., Arcivescovo di Porto Alegre, Brasile;
- S.E.
Mons.
Ignace Bessi Dogbo, Arcivescovo di Abidjan, Costa d’Avorio;
- S.E.
Mons.
Jean-Paul Vesco, O.P., Arcivescovo di Alger, Algeria;
- S.E.
Mons.
Paskalis Bruno Syukur, O.F.M., Vescovo di Bogor, Indonesia;
- S.E.
Mons.
Joseph Mathieu, O.F.M.
Conv., Arcivescovo di Teheran-Ispahan dei Latini, Iran;
- S.E.
Mons.
Roberto Repole, Arcivescovo di Torino, Italia;
- S.E.
Mons.
Baldassare Reina, da oggi Vicario Generale per la Diocesi di Roma;
- S.E.
Mons.
Francis Leo, Arcivescovo di Toronto, Canada;
- S.E.
Mons.
Rolandas Makrickas, Arciprete Coadiutore della Basilica Papale di Santa Maria Maggiore;
- S.E.
Mons.
Mykola Bychok, C.Ss.R., Vescovo eparchiale di Saints Peter and Paul of Melbourne degli Ucraini, Australia;
- Rev.do Padre Timothy Peter Joseph Radcliffe, O.P., teologo;
- Rev.do Padre Fabio Baggio, C.S., Sotto-Segretario del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale;
- Rev.do Mons.
George Jacob Koovakad, Officiale della Segretaria di Stato, responsabile dei Viaggi papali.
Preghiamo per i nuovi Cardinali, affinché confermando la loro adesione a Cristo, Sommo Sacerdote misericordioso e fedele, mi aiutino nel ministero di Vescovo di Roma per il bene di tutto il santo popolo di Dio.
E a tutti voi auguro una buona domenica.
E per favore non dimenticatevi di pregare per me.
Buon pranzo e arrivederci!
Caro fratello,
con la creazione a cardinale entrerai a far parte del clero di Roma.
Benvenuto! Un’appartenenza che esprime l’unità della Chiesa e il legame di tutte le Chiese con questa di Roma.
Ti incoraggio a far sì che il tuo cardinalato incarni quelle tre attitudini con cui un poeta argentino (Francisco Luis Bernárdez) descriveva San Giovanni della Croce, ma che si addicono anche a noi: “occhi alti, mani giunte, piedi nudi”.
Occhi alti, perché il tuo servizio richiederà di ampliare lo sguardo e dilatare il cuore, per poter guardare più lontano e amare più universalmente con maggiore intensità.
Entrare alla scuola del Suo sguardo (Benedetto XVI) che è il costato aperto di Cristo.
Mani giunte, perché ciò di cui la Chiesa ha più bisogno - insieme all’annuncio - è la tua preghiera per pascere bene il gregge di Cristo.
La preghiera, che è l’ambito del discernimento per aiutarmi a ricercare e trovare la volontà di Dio per il nostro popolo, e seguirla.
Piedi nudi, toccando la durezza della realtà di tanti angoli del mondo frastornati dal dolore e dalla sofferenza per la guerra, la discriminazione, la persecuzione, la fame e molte forme di povertà che esigeranno da Te tanta compassione e misericordia.
RingraziandoTi per la generosità, prego per Te affinché il titolo di “servo” (diacono) offuschi sempre più quello di “eminenza”.
Prega per me e che Gesù Ti benedica e la Vergine Santa Ti accompagni.
Fraternamente,
FRANCESCO
Roma, San Giovanni in Laterano, 6 ottobre 2024
Desidero inviare un saluto a tutti voi, giovani dell’Arcidiocesi di Madrid che vi siete riuniti.
Voglio starvi vicino, voglio accompagnarvi nel lavoro.
Ma non dimenticatevi che un giovane che non crea movimento, un giovane che sta fermo, è un vecchio morto.
Abbiate coraggio, andate avanti, muovetevi.
E a volte dico una cosa che ad alcuni non piace: fate rumore, fate baccano.
Ma quel baccano costruttivo che nasce dagli ideali.
E insieme a questo, il paradosso di fare baccano e dialogare con tutti.
Dialogate con gli anziani, per favore, che sono la saggezza di un popolo.
Ascoltateli e che loro vi ascoltino.
Non rompete le radici del popolo.
Un albero che taglia le sue radici non ha più linfa.
Aggrappatevi alle radici, ma con creatività.
Un giovane che non è creativo non ha vita.
È un morto in vita.
Andate avanti, ragazze, ragazzi, abbiate coraggio e non perdete la gioia.
Che il Signore vi colmi di gioia! Non perdete il senso dell’umorismo.
Che il Signore vi colmi di umorismo e di grazia.
Che Dio vi benedica.
Vi do la benedizione.
E voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me.
A favore, naturalmente!
La lotta è una realtà quotidiana nella vita cristiana: nel nostro cuore, nella nostra vita, nella nostra famiglia, nel nostro popolo, nella nostra Chiesa.
Se non si lotta, saremo sconfitti.
Il Signore ha affidato questo ufficio principalmente agli angeli: lottare e vincere.
Il diavolo cerca sempre di distruggere l’uomo, presenta le cose come se fossero buone, ma la sua intenzione è distruggere.
Per fortuna, abbiamo la certezza di non essere soli in questa lotta, perché il Signore ha affidato agli arcangeli il compito di difendere l’uomo.
E gli angeli ci difendono.
Tutti abbiamo accanto un angelo che non ci lascia mai soli e ci aiuta a non sbagliare strada.
È proprio il ruolo degli angeli.
E anche voi, sull’esempio di San Michele Arcangelo, siete come angeli, che custodiscono e sono al servizio.
Il vostro è un lavoro, un prezioso lavoro, ma soprattutto un inestimabile servizio alla Chiesa, per il quale desidero ringraziarvi: grazie, grazie tante.
Ogni giorno accogliete in Vaticano e nelle zone extraterritoriali numerose persone e pellegrini; molto spesso siete il primo e anche l’unico volto che incontrano.
Per questo, chiedo a Dio che vi doni sempre la grazia di essere il riflesso della tenerezza di Dio.
Alla luce della Parola di questa domenica, voglio anche rivolgermi alle vostre famiglie.
Grazie per la vostra pazienza.
Il lavoro dei Gendarmi e dei Vigili del fuoco non è possibile senza la pazienza e la comprensione delle rispettive famiglie, alle quali voglio chiedere scusa per tutte le ore in cui i vostri mariti, i vostri papà, i vostri figli o fratelli non sono presenti a casa perché in servizio.
Davvero, scusate.
So che non è facile e per questo affido le vostre famiglie e tutti i vostri cari alla protezione della Vergine, Regina delle famiglie, e a San Michele Arcangelo, perché l’uomo non divida quello che Dio ha unito.
E su questo abbiamo visto che le Letture di oggi sono Letture di unità: la prima Lettura dalla Genesi, quando Dio crea l’uomo e la donna, è in unità; e il Vangelo ci chiama alla unità, non alla divisione.
Per favore, ricordate che l’unità è superiore al conflitto, sempre.
L’unità è superiore al conflitto.
Grazie per il vostro servizio, perché cercate l’unità.
E che Dio, il Signore, vi dia saggezza e pazienza.
E anche, per favore, non perdere il senso dell’umorismo.
Grazie.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Do il benvenuto a voi che rappresentate l’Associazione Italiana delle Aziende Familiari.
La Chiesa è famiglia di Dio e guarda con simpatia tutto ciò che è familiare.
Prima le persone [isolate] e dopo la famiglia? No, prima la famiglia e, dentro la famiglia, le persone.
Le persone isolate sono “in orbita” rispetto all’umanità e anche alla comunità cristiana.
Comunità, primo.
La Chiesa è famiglia di Dio.
Nel vostro caso, vi caratterizza il delicato equilibrio tra famiglia e lavoro, che si esprime nel coraggio e nella responsabilità imprenditoriale.
È buono, è costruttivo quando coraggio e responsabilità vanno insieme.
L’agire che nasce dal cuore è audace, non si ripiega su sé stesso, ma sa guardare lontano; e la responsabilità, poi, è il segreto dell’economia, una parola che significa “la gestione della casa” – “oikos nomos” – ed è quindi espressione di cura.
Cura per la vostra impresa, cura per la famiglia, cura per la nostra casa comune, cura per le future generazioni.
Come la missione della Chiesa, così la vostra attività è generalmente radicata in un territorio, che siete chiamati ad arricchire, sia con la testimonianza di legami familiari, sia con la serietà del vostro impegno professionale.
Il dono della fede orienti sempre di più la vostra presenza nelle realtà locali e rafforzi la vostra partecipazione alle sorti dell’umanità.
Non dimentichiamo che tutto è connesso, niente è isolato.
Anche se la fraternità fra le persone e i popoli è tanto ferita e la casa comune porta i segni dell’ingiusta avidità umana, tutto è connesso.
Anche le cose brutte hanno connessione con tutti noi.
Possiate abitare la dimensione locale con un cuore universale! E quando lavorate in e per diverse parti del mondo, diffondere il valore di essere “famiglia”.
All’inizio la famiglia, non le persone [isolate], la famiglia.
Vi incoraggio ad andare avanti, a sentirvi parte, nella Chiesa, di una famiglia più grande e di un’impresa più grande, che è il servizio al Regno di Dio, alla sua giustizia.
Per questo vi invito ad allargare il cuore e allargare lo sguardo, a coltivare in casa e in azienda l’ascolto fra diverse generazioni – è importante questo: l’ascolto fra diverse generazioni; i nonni con i nipotini, questo è molto importante.
Vi invito a credere nella vocazione dei vostri figli – qualunque essa sia – e ad aprire porte e finestre a chi può fare un pezzo di strada con voi.
Ricordiamo la parabola dei talenti: nulla va “seppellito” di quanto ci è stato affidato! Niente paura, avanti con fiducia!
«Ci ha amati», dice San Paolo riferendosi a Cristo (Rm 8,37), per farci scoprire che da questo amore nulla «potrà mai separarci» (Rm 8,39).
Paolo lo affermava con certezza perché Cristo stesso aveva assicurato ai suoi discepoli: «Io ho amato voi» (Gv 15,9.12).
Ci ha anche detto: «Vi ho chiamato amici» (Gv 15,15).
Il suo cuore aperto ci precede e ci aspetta senza condizioni, senza pretendere alcun requisito previo per poterci amare e per offrirci la sua amicizia: Egli ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4,10).
Grazie a Gesù «abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16).
I.
Per esprimere l’amore di Gesù si usa spesso il simbolo del cuore.
Alcuni si domandano se esso abbia un significato tuttora valido.
Ma quando siamo tentati di navigare in superficie, di vivere di corsa senza sapere alla fine perché, di diventare consumisti insaziabili e schiavi degli ingranaggi di un mercato a cui non interessa il senso della nostra esistenza, abbiamo bisogno di recuperare l’importanza del cuore.
Cosa intendiamo quando diciamo “cuore”?
Nel greco classico profano il termine kardía indica ciò che è più interiore negli esseri umani, negli animali e nelle piante.
In Omero indica non solo il centro corporeo, ma anche l’anima e il nucleo spirituale dell’essere umano.
Nell’ Iliade, il pensiero e il sentimento appartengono al cuore e sono molto vicini tra loro.
[2] Il cuore vi appare come centro del desiderio e luogo in cui prendono forma le decisioni importanti della persona.
[3] In Platone, il cuore assume una funzione in qualche modo “sintetizzante” di ciò che è razionale e delle tendenze di ognuno, poiché sia il mandato delle facoltà superiori sia le passioni si trasmettono attraverso le vene che convergono nel cuore.
[4] Così, fin dall’antichità ci siamo resi conto dell’importanza di considerare l’essere umano non come una somma di capacità diverse, ma come un mondo animo-corporeo con un centro unificatore, che conferisce a tutto ciò che vive la persona lo sfondo di un senso e di un orientamento.
Dice la Bibbia che «la parola di Dio è viva, efficace [...] e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12).
In questo modo ci parla di un nucleo, il cuore, che sta dietro ogni apparenza, anche dietro i pensieri superficiali che ci confondono.
I discepoli di Emmaus, durante il loro misterioso cammino con Cristo risorto, vivevano un momento di angoscia, confusione, disperazione, delusione.
Eppure, al di là di tutto ciò e nonostante tutto, qualcosa accadeva nel profondo: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via?» (Lc 24,32).
Al tempo stesso, il cuore è il luogo della sincerità, dove non si può ingannare né dissimulare.
Di solito indica le vere intenzioni, ciò che si pensa, si crede e si vuole realmente, i “segreti” che non si dicono a nessuno, insomma la propria nuda verità.
Si tratta di quello che non è apparenza né menzogna bensì autentico, reale, totalmente personale.
Per questo a Sansone, che non le diceva il segreto della sua forza, Dalila domandava: «Come puoi dirmi: “Ti amo”, mentre il tuo cuore non è con me?» (Gdc 16,15).
Solo quando le rivelò il suo segreto nascosto, lei «vide che egli le aveva aperto tutto il suo cuore» (Gdc 16,18).
Questa verità di ogni persona è spesso nascosta sotto una gran quantità di “fogliame” che la ricopre, e questo fa sì che difficilmente si arrivi alla certezza di conoscere sé stessi e ancor più di conoscere un’altra persona: «Niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce! Chi lo può conoscere?» (Ger 17,9).
Comprendiamo così perché il libro dei Proverbi ci chiede: «Più di ogni cosa degna di cura custodisci il tuo cuore, perché da esso sgorga la vita.
Tieni lontano da te la bocca bugiarda» (4,23-24).
La mera apparenza, la dissimulazione e l’inganno danneggiano e pervertono il cuore.
Al di là dei tanti tentativi di mostrare o esprimere qualcosa che non siamo, tutto si gioca nel cuore: lì non conta ciò che si mostra all’esterno o ciò che si nasconde, lì siamo noi stessi.
E questa è la base di qualsiasi progetto solido per la nostra vita, poiché niente di valido si può costruire senza il cuore.
Le apparenze e le bugie offrono solo il vuoto.
Come metafora, permettetemi di ricordare una cosa che ho già raccontato in un’altra occasione: «Per carnevale, quando eravamo bambini, la nonna ci faceva delle frittelle, ed era una pasta molto sottile quella che faceva.
Poi la buttava nell’olio e quella pasta si gonfiava, si gonfiava… E quando noi incominciavamo a mangiarla, era vuota.
Quelle frittelle in dialetto si chiamavano “bugie”.
Ed era proprio la nonna che ci spiegava il motivo: “Queste frittelle sono come le bugie, sembrano grandi, ma non hanno niente dentro, non c’è niente di vero, non c’è niente di sostanza”».
Invece di cercare soddisfazioni superficiali e di recitare una parte davanti agli altri, la cosa migliore è lasciar emergere domande che contano: chi sono veramente, che cosa cerco, che senso voglio che abbiano la mia vita, le mie scelte o le mie azioni, perché e per quale scopo sono in questo mondo, come valuterò la mia esistenza quando arriverà alla fine, che significato vorrei che avesse tutto ciò che vivo, chi voglio essere davanti agli altri, chi sono davanti a Dio.
Queste domande mi portano al mio cuore.
In questo mondo liquido è necessario parlare nuovamente del cuore; mirare lì dove ogni persona, di ogni categoria e condizione, fa la sua sintesi; lì dove le persone concrete hanno la fonte e la radice di tutte le altre loro forze, convinzioni, passioni, scelte.
Ma ci muoviamo in società di consumatori seriali che vivono alla giornata e dominati dai ritmi e dai rumori della tecnologia, senza molta pazienza per i processi che l’interiorità richiede.
Nella società di oggi, l’essere umano «rischia di smarrire il centro, il centro di se stesso».
[6] «L’uomo contemporaneo, infatti, si trova spesso frastornato, diviso, quasi privo di un principio interiore che crei unità e armonia nel suo essere e nel suo agire.
Modelli di comportamento purtroppo assai diffusi ne esasperano la dimensione razionale-tecnologica o, all’opposto, quella istintuale».
[7] Manca il cuore.
Ora, il problema della società liquida è attuale, ma la svalutazione del centro intimo dell’uomo – il cuore – viene da più lontano: la troviamo già nel razionalismo greco e precristiano, nell’idealismo postcristiano e nel materialismo nelle sue varie forme.
Il cuore ha avuto poco spazio nell’antropologia e risulta una nozione estranea al grande pensiero filosofico.
Si sono preferiti altri concetti come quelli di ragione, volontà o libertà.
Il suo significato è impreciso e non gli è stato concesso un posto specifico nella vita umana.
Forse perché non era facile collocarlo tra le idee “chiare e distinte” o per la difficoltà che comporta la conoscenza di sé stessi: sembrerebbe che la realtà più intima sia anche la più lontana per la nostra conoscenza.
Probabilmente perché l’incontro con l’altro non si consolida come via per trovare sé stessi, giacché il pensiero sfocia ancora una volta in un individualismo malsano.
Molti si sono sentiti sicuri nell’ambito più controllabile dell’intelligenza e della volontà per costruire i loro sistemi di pensiero.
E non trovando un posto per il cuore, distinto dalle facoltà e dalle passioni umane considerate separatamente le une dalle altre, non è stata sviluppata ampiamente nemmeno l’idea di un centro personale in cui l’unica realtà che può unificare tutto è, in definitiva, l’amore.
Se il cuore è svalutato, si svaluta anche ciò che significa parlare dal cuore, agire con il cuore, maturare e curare il cuore.
Quando non viene apprezzato lo specifico del cuore, perdiamo le risposte che l’intelligenza da sola non può dare, perdiamo l’incontro con gli altri, perdiamo la poesia.
E perdiamo la storia e le nostre storie, perché la vera avventura personale è quella che si costruisce a partire dal cuore.
Alla fine della vita conterà solo questo.
Occorre affermare che abbiamo un cuore, che il nostro cuore coesiste con gli altri cuori che lo aiutano ad essere un “tu”.
Non potendo sviluppare con ampiezza questo tema, ci avvarremo del personaggio di un romanzo, lo Stavròghin di Dostoevskij.
[8] Romano Guardini lo mostra come l’incarnazione stessa del male, perché la sua caratteristica principale è di non avere cuore:«Stavròghin non ha cuore; perciò il suo spirito è freddo e vuoto e il suo corpo s’intossica nella pigrizia e nella sensualità “bestiale”.
Perciò egli non può incontrare intimamente nessuno e nessuno incontra veramente lui.
Poiché solo il cuore crea l’intimità, la vera vicinanza tra due esseri.
Solo il cuore sa accogliere e dare una patria.
L’intimità è l’atto, la sfera del cuore.
Ma Stavròghin è distante.
[…] Infinitamente lontano anche da sé stesso, poiché interiore a sé l’uomo può esserlo soltanto col cuore, non con lo spirito.
Essere interiore a sé con lo spirito non è in potere dell’uomo.
Ora, se il cuore non vive, l’uomo rimane estraneo a sé stesso».
Abbiamo bisogno che tutte le azioni siano poste sotto il “dominio politico” del cuore, che l’aggressività e i desideri ossessivi trovino pace nel bene maggiore che il cuore offre loro e nella forza che ha contro i mali; che anche l’intelligenza e la volontà si mettano al suo servizio, sentendo e gustando le verità piuttosto che volerle dominare come fanno spesso alcune scienze; che la volontà desideri il bene maggiore che il cuore conosce, e che anche l’immaginazione e i sentimenti si lascino moderare dal battito del cuore.
Si potrebbe dire che, in ultima analisi, io sono il mio cuore, perché esso è ciò che mi distingue, mi configura nella mia identità spirituale e mi mette in comunione con le altre persone.
L’algoritmo all’opera nel mondo digitale dimostra che i nostri pensieri e le decisioni della nostra volontà sono molto più “standard” di quanto potremmo pensare.
Sono facilmente prevedibili e manipolabili.
Non così il cuore.
15.
Si tratta di una parola importante per la filosofia e la teologia, che aspirano a raggiungere una sintesi complessiva.
Infatti, la parola “cuore” non può essere spiegata in modo esaustivo dalla biologia, dalla psicologia, dall’antropologia o da qualsiasi scienza.
È una di quelle parole originarie «che indicano la realtà che spetta all’uomo tutt’intero in quanto persona corporea e spirituale».
[10] Così il biologo non è maggiormente realista quando parla del cuore, perché ne vede solo una parte, e l’insieme non è meno reale, ma lo è ancora di più.
Nemmeno un linguaggio astratto potrebbe avere lo stesso significato concreto e contemporaneamente complessivo.
Se il “cuore” ci conduce al centro intimo della nostra persona, ci permette anche di riconoscerci nella nostra interezza e non solo in qualche aspetto isolato.
D’altra parte, questa forza unica del cuore ci aiuta a capire perché si dice che quando si coglie una realtà con il cuore si può conoscerla meglio e più pienamente.
Questo ci porta inevitabilmente all’amore di cui quel cuore è capace, perché «l’amore è il fattore più intimo della realtà».
[11] Per Heidegger, secondo l’interpretazione che ne dà un pensatore contemporaneo, la filosofia non inizia con un concetto puro o con una certezza, ma con una scossa emotiva: «Il pensare dev’essere stato scosso emotivamente prima di lavorare con i concetti o mentre li lavora.
Senza un’emozione profonda il pensare non può iniziare.
La prima immagine mentale sarebbe la pelle d’oca.
La prima cosa che fa pensare e interrogare è l’emozione profonda.
La filosofia avviene sempre in uno stato d’animo fondamentale ( Stimmung)».
[12] E qui compare il cuore, che «ospita gli stati d’animo, lavora come “custode dello stato d’animo”.
Il “cuore” ascolta in modo non metaforico “la silenziosa voce” dell’essere, lasciandosi temperare e determinare da essa».
Il cuore che unisce i frammenti
Al tempo stesso, il cuore rende possibile qualsiasi legame autentico, perché una relazione che non è costruita con il cuore è incapace di superare la frammentazione dell’individualismo: si manterrebbero in piedi solo due monadi che si accostano ma non si legano veramente.
L’anti-cuore è una società sempre più dominata dal narcisismo e dall’autoreferenzialità.
Alla fine si arriva alla “perdita del desiderio”, perché l’altro scompare dall’orizzonte e ci si chiude nel proprio io, senza capacità di relazioni sane.
[14] Di conseguenza, diventiamo incapaci di accogliere Dio.
Come direbbe Heidegger, per ricevere il divino dobbiamo costruire una “casa degli ospiti”.
Vediamo così come nel cuore di ogni persona si produca questa paradossale connessione tra la valorizzazione di sé e l’apertura agli altri, tra l’incontro personalissimo con sé stessi e il dono di sé agli altri.
Si diventa sé stessi solo quando si acquista la capacità di riconoscere l’altro, e si incontra con l’altro chi è in grado di riconoscere e accettare la propria identità.
19.
Il cuore è anche capace di unificare e armonizzare la propria storia personale, che sembra frammentata in mille pezzi, ma dove tutto può avere un senso.
Questo è ciò che il Vangelo esprime nello sguardo di Maria, che guardava con il cuore.
Ella sapeva dialogare con le esperienze custodite meditandole nel suo cuore, dando loro tempo: rappresentandole e conservandole dentro per ricordare.
Nel Vangelo, la migliore espressione di ciò che pensa un cuore sono i due passi di San Luca che ci dicono che Maria «custodiva (syneterei) tutte queste cose, meditandole (symballousa) nel suo cuore» (Lc 2,19; cfr 2,51).
Il verbo symballein (da cui “simbolo”) significa ponderare, riunire due cose nella mente ed esaminare sé stessi, riflettere, dialogare con sé stessi.
In Lc 2,51 dieterei significa “conservava con cura”, e ciò che lei custodiva non era solo “la scena” che vedeva, ma anche ciò che non capiva ancora e tuttavia rimaneva presente e vivo nell’attesa di mettere tutto insieme nel cuore.
Nell’era dell’intelligenza artificiale, non possiamo dimenticare che per salvare l’umano sono necessari la poesia e l’amore.
Ciò che nessun algoritmo potrà mai albergare sarà, ad esempio, quel momento dell’infanzia che si ricorda con tenerezza e che, malgrado il passare degli anni, continua a succedere in ogni angolo del pianeta.
Penso all’uso della forchetta per sigillare i bordi di quei panzerotti fatti in casa con le nostre mamme o nonne.
È quel momento di apprendistato culinario, a metà strada tra il gioco e l’età adulta, in cui si assume la responsabilità del lavoro per aiutare l’altro.
Come questo della forchetta, potrei citare migliaia di piccoli dettagli che compongono le biografie di tutti: far sbocciare sorrisi con una battuta, tracciare un disegno al controluce di una finestra, giocare la prima partita di calcio con un pallone di pezza, conservare dei vermetti in una scatola di scarpe, seccare un fiore tra le pagine di un libro, prendersi cura di un uccellino caduto dal nido, esprimere un desiderio sfogliando una margherita.
Tutti questi piccoli dettagli, l’ordinario-straordinario, non potranno mai stare tra gli algoritmi.
Perché la forchetta, le battute, la finestra, la palla, la scatola di scarpe, il libro, l’uccellino, il fiore...
si appoggiano sulla tenerezza che si conserva nei ricordi del cuore.
Il nucleo di ogni essere umano, il suo centro più intimo, non è il nucleo dell’anima ma dell’intera persona nella sua identità unica, che è di anima e corpo.
Tutto è unificato nel cuore, che può essere la sede dell’amore con tutte le sue componenti spirituali, psichiche e anche fisiche.
In definitiva, se in esso regna l’amore, la persona raggiunge la propria identità in modo pieno e luminoso, perché ogni essere umano è stato creato anzitutto per l’amore, è fatto nelle sue fibre più profonde per amare ed essere amato.
Per questo motivo, vedendo come si susseguono nuove guerre, con la complicità, la tolleranza o l’indifferenza di altri Paesi, o con mere lotte di potere intorno a interessi di parte, viene da pensare che la società mondiale stia perdendo il cuore.
Basta guardare e ascoltare le donne anziane – delle varie parti in conflitto – che sono prigioniere di questi conflitti devastanti.
È straziante vederle piangere i nipoti uccisi, o sentirle augurarsi la morte per aver perso la casa dove hanno sempre vissuto.
Esse, che tante volte sono state modelli di forza e resistenza nel corso di vite difficili e sacrificate, ora che arrivano all’ultima tappa della loro esistenza non ricevono una meritata pace, ma angoscia, paura e indignazione.
Scaricare la colpa sugli altri non risolve questo dramma vergognoso.
Veder piangere le nonne senza che questo risulti intollerabile è segno di un mondo senza cuore.
Quando ognuno riflette, cerca, medita sul proprio essere e sulla propria identità, o analizza le questioni più alte; quando pensa al senso della propria vita e pure se cerca Dio, quand’anche provasse il gusto di aver intravisto qualcosa della verità, tutto ciò esige di trovare il suo culmine nell’amore.
Amando, una persona sente di sapere perché e a che scopo vive.
Così tutto confluisce in uno stato di connessione e di armonia.
Pertanto, di fronte al proprio mistero personale, forse la domanda più decisiva che ognuno si può porre è questa: ho un cuore?
Questo ha conseguenze sulla spiritualità.
Ad esempio, la teologia degli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio di Loyola ha come principio l’ affectus.
La dimensione discorsiva si costruisce su un volere fondamentale (con tutta la forza del cuore), che dà energia e risorse al compito di riorganizzare la vita.
Le regole e le composizioni di luogo che Ignazio mette in atto funzionano sulla base di un “fondamento” diverso da esse, l’ignoto del cuore.
Michel de Certeau evidenzia come le “mozioni” di cui parla Sant’Ignazio siano le irruzioni di una volontà di Dio e di una volontà del proprio cuore che rimane diversa rispetto all’ordine manifesto.
Qualcosa di inaspettato comincia a parlare nel cuore della persona, qualcosa che nasce dall’inconoscibile, rimuove la superficie di ciò che è noto e vi si oppone.
È l’origine di un nuovo “ordinamento della vita” a partire dal cuore.
Non si tratta di discorsi razionali che bisognerebbe mettere in pratica traducendoli nella vita, come se l’affettività e la pratica fossero semplicemente conseguenze – dipendenti – di un sapere assicurato.
Lì dove il filosofo si ferma col suo pensiero, il cuore credente ama, adora, chiede perdono e si offre di servire nel luogo che il Signore gli dà da scegliere per seguirlo.
Allora capisce di essere il “tu” di Dio e che può essere un “sé” perché Dio è un “tu” per lui.
Il fatto è che solo il Signore ci offre di trattarci come un “tu” sempre e per sempre.
Accettare la sua amicizia è una questione di cuore e ci costituisce come persone nel senso pieno del termine.
San Bonaventura diceva che a ben vedere si deve interrogare «non la luce, ma il fuoco».
[17] E insegnava che «la fede è nell’intelletto, in modo da provocare l’affetto.
Per esempio: sapere che Cristo è morto per noi non rimane conoscenza, ma diventa necessariamente affetto, amore».
[18] In questa prospettiva, San John Henry Newman scelse come proprio motto la frase “ Cor ad cor loquitur”, perché, al di là di ogni dialettica, il Signore ci salva parlando al nostro cuore dal suo Sacro Cuore.
Questa stessa logica faceva sì che per lui, grande pensatore, il luogo dell’incontro più profondo con sé stesso e con il Signore non fosse la lettura o la riflessione, ma il dialogo orante, da cuore a cuore, con Cristo vivo e presente.
Perciò Newman trovava nell’Eucaristia il Cuore di Gesù vivo, capace di liberare, di dare senso ad ogni momento e di infondere nell’uomo la vera pace: «O santissimo ed amabilissimo Cuore di Gesù, tu sei nascosto nella santa Eucaristia, e qui palpiti sempre per noi.
[…] Io ti adoro con tutto il mio amore e con tutta la mia venerazione, col mio affetto fervente e con la mia volontà più sottomessa e risoluta.
O mio Dio, quando tu vieni a me nella santa comunione e poni in me la tua dimora, fa’ che il mio cuore batta all’unisono col tuo.
Purificalo da tutto ciò che è orgoglio e senso, che è durezza e crudeltà, da ogni perversità, da ogni disordine, da ogni tiepidezza.
Riempilo talmente di te, che né gli avvenimenti quotidiani, né le circostanze della vita possano riuscire a sconvolgerlo, e nel tuo timore e nel tuo amore possa trovare la pace».
Davanti al Cuore di Gesù vivo e presente, la nostra mente, illuminata dallo Spirito, comprende le parole di Gesù.
Così la nostra volontà si mette in moto per praticarle.
Ma ciò potrebbe rimanere una forma di moralismo autosufficiente.
Sentire e gustare il Signore e onorarlo è cosa del cuore.
Solo il cuore è capace di mettere le altre facoltà e passioni e tutta la nostra persona in atteggiamento di riverenza e di obbedienza amorosa al Signore.
Il mondo può cambiare a partire dal cuore
Solo a partire dal cuore le nostre comunità riusciranno a unire le diverse intelligenze e volontà e a pacificarle affinché lo Spirito ci guidi come rete di fratelli, perché anche la pacificazione è compito del cuore.
Il Cuore di Cristo è estasi, è uscita, è dono, è incontro.
In Lui diventiamo capaci di relazionarci in modo sano e felice e di costruire in questo mondo il Regno d’amore e di giustizia.
Il nostro cuore unito a quello di Cristo è capace di questo miracolo sociale.
Prendere sul serio il cuore ha conseguenze sociali.
Come insegna il Concilio Vaticano II, «ciascuno di noi deve adoperarsi per mutare il suo cuore, aprendo gli occhi sul mondo intero e su tutte quelle cose che gli uomini possono compiere insieme per condurre l’umanità verso un migliore destino».
[20] Perché «gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell’uomo».
[21] Di fronte ai drammi del mondo, il Concilio invita a tornare al cuore, spiegando che l’essere umano «nella sua interiorità, trascende l’universo delle cose: in quelle profondità egli torna, quando fa ritorno a se stesso, là dove lo aspetta quel Dio che scruta i cuori (cfr 1 Sam 16,7; Ger 17,10) là dove sotto lo sguardo di Dio egli decide del suo destino».
Questo non significa fare troppo affidamento su noi stessi.
Stiamo attenti: rendiamoci conto che il nostro cuore non è autosufficiente, è fragile ed è ferito.
Ha una dignità ontologica, ma allo stesso tempo deve cercare una vita più dignitosa.
[23] Dice ancora il Concilio Vaticano II che «il fermento evangelico suscitò e suscita nel cuore dell’uomo questa irrefrenabile esigenza di dignità», [24] tuttavia per vivere secondo questa dignità non basta conoscere il Vangelo né fare meccanicamente ciò che esso ci comanda.
Abbiamo bisogno dell’aiuto dell’amore divino.
Andiamo al Cuore di Cristo, il centro del suo essere, che è una fornace ardente di amore divino e umano ed è la massima pienezza che possa raggiungere l’essere umano.
È lì, in quel Cuore, che riconosciamo finalmente noi stessi e impariamo ad amare.
Infine, questo Cuore Sacro è il principio unificatore della realtà, perché «Cristo è il cuore del mondo; la sua Pasqua di morte e risurrezione è il centro della storia, che grazie a Lui è storia di salvezza».
[25] Tutte le creature «avanzano, insieme a noi e attraverso di noi, verso la meta comune, che è Dio, in una pienezza trascendente dove Cristo risorto abbraccia e illumina tutto».
[26] Davanti al Cuore di Cristo, chiedo al Signore di avere ancora una volta compassione di questa terra ferita, che Lui ha voluto abitare come uno di noi.
Che riversi i tesori della sua luce e del suo amore, affinché il nostro mondo, che sopravvive tra le guerre, gli squilibri socioeconomici, il consumismo e l’uso anti-umano della tecnologia, possa recuperare ciò che è più importante e necessario: il cuore.
II.
Il Cuore di Cristo, che simboleggia il suo centro personale da cui sgorga il suo amore per noi, è il nucleo vivo del primo annuncio.
Lì è l’origine della nostra fede, la sorgente che mantiene vive le convinzioni cristiane.
Il modo in cui Cristo ci ama è qualcosa che Egli non ha voluto troppo spiegarci.
Lo ha mostrato nei suoi gesti.
Guardandolo agire possiamo scoprire come tratta ciascuno di noi, anche se facciamo fatica a percepirlo.
Andiamo allora a guardare lì dove la nostra fede può riconoscerlo: nel Vangelo.
Il Vangelo dice che Gesù «venne fra i suoi» (Gv 1,11).
I suoi siamo noi, perché Egli non ci tratta come qualcosa di estraneo.
Ci considera cosa propria, che Lui custodisce con cura, con affetto.
Ci tratta come suoi.
Non nel senso che siamo suoi schiavi, Lui stesso lo nega: «Non vi chiamo più servi» (Gv 15,15).
Ciò che propone è l’appartenenza reciproca degli amici.
È venuto, ha superato tutte le distanze, si è fatto vicino a noi come le cose più semplici e quotidiane dell’esistenza.
Infatti, Egli ha un altro nome, che è “Emmanuele” e significa “Dio con noi”, Dio vicino alla nostra vita, che vive in mezzo a noi.
Il Figlio di Dio si è incarnato e «svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo» (Fil 2,7).
Questo è evidente quando lo vediamo agire.
È sempre alla ricerca, vicino, costantemente aperto all’incontro.
Lo contempliamo quando si ferma a conversare con la Samaritana al pozzo dove lei andava a prendere l’acqua (cfr Gv 4,5-7).
Lo vediamo che, a notte fonda, incontra Nicodemo, che aveva paura di farsi vedere insieme a Gesù (cfr Gv 3,1-2).
Lo ammiriamo quando senza vergogna si lascia lavare i piedi da una prostituta (cfr Lc 7,36-50); quando dice, occhi negli occhi, alla donna adultera: “Non ti condanno” (cfr Gv 8,11); o quando affronta l’indifferenza dei suoi discepoli e al cieco sulla strada dice con affetto: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (Mc 10,51).
Cristo mostra che Dio è vicinanza, compassione e tenerezza.
Se guariva qualcuno, preferiva avvicinarsi: «Tese la mano e lo toccò» ( Mt 8,3); «le toccò la mano» ( Mt 8,15); «toccò loro gli occhi» ( Mt 9,29).
E si fermava persino a guarire i malati con la sua stessa saliva (cfr Mc 7,33), come una madre, perché non lo sentissero estraneo alla loro vita.
Perché «il Signore sa quella bella scienza delle carezze.
La tenerezza di Dio: non ci ama a parole, si avvicina e nel suo starci vicino ci dà il suo amore con tutta la tenerezza possibile».
Dato che per noi è difficile fidarci, perché siamo stati feriti da tante falsità, aggressioni e delusioni, Egli ci sussurra all’orecchio: «Coraggio, figlio» (Mt 9,2), «Coraggio, figlia» (Mt 9,22).
Si tratta di superare la paura e renderci conto che con Lui non abbiamo nulla da perdere.
A Pietro, che non si fidava, «Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: “[…] Perché hai dubitato?”» (Mt 14,31).
Non temere.
Lascialo venire vicino a te, fallo sedere accanto a te.
Possiamo dubitare di tante persone, ma non di Lui.
E non fermarti a causa dei tuoi peccati.
Ricordati che molti peccatori «se ne stavano a tavola con Gesù» (Mt 9,10) e Lui non si scandalizzava di nessuno di loro.
Gli elitari della religione si lamentavano e lo trattavano come «un mangione e un beone, amico di pubblicani e peccatori» (Mt 11,19).
Quando i farisei criticavano questa sua vicinanza alle persone considerate di bassa condizione o peccatrici, Gesù diceva loro: «Misericordia io voglio e non sacrifici» (Mt 9,13).
Quello stesso Gesù oggi aspetta che tu gli dia la possibilità di illuminare la tua esistenza, di farti alzare, di riempirti con la sua forza.
Prima di morire, infatti, disse ai suoi discepoli: «Non vi lascerò orfani: verrò da voi.
Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete» (Gv 14,18-19).
Egli trova sempre un modo per manifestarsi nella tua vita, perché tu possa incontrarti con Lui.
Narra il Vangelo che un uomo ricco venne da Lui, pieno di ideali ma senza la forza di cambiare vita.
Allora «Gesù fissò lo sguardo su di lui» (Mc 10,21).
Riesci a immaginare quell’istante, quell’incontro tra gli occhi di quest’uomo e lo sguardo di Gesù? Se ti chiama, se ti invita per una missione, prima ti guarda, scruta l’intimo del tuo essere, percepisce e conosce tutto ciò che vi è in te, pone su di te il suo sguardo: «Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli [...].
Andando oltre, vide altri due fratelli» (Mt 4,18.21).
Molti testi del Vangelo ci mostrano Gesù che presta tutta la sua attenzione alle persone, alle loro preoccupazioni, alle loro sofferenze.
Ad esempio: «Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite» (Mt 9,36).
Quando ci sembra che tutti ci ignorino, che nessuno sia interessato a ciò che ci accade, che non siamo importanti per nessuno, Lui è attento a noi.
È quello che fece notare a Natanaele, che se ne stava solitario e assorto: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi» (Gv 1,48).
Proprio perché è attento a noi, Egli è in grado di riconoscere ogni buona intenzione che hai, ogni piccola buona azione che compi.
Il Vangelo racconta che «vide una vedova povera, che vi gettava [nel tesoro del tempio] due monetine» (Lc 21,2) e subito lo fece notare ai suoi apostoli.
Gesù presta attenzione in modo tale da ammirare le cose buone che riconosce in noi.
Quando il centurione lo pregò con totale fiducia, «ascoltandolo, Gesù si meravigliò» (Mt 8,10).
Quanto è bello sapere che se gli altri ignorano le nostre buone intenzioni o le cose positive che possiamo fare, a Gesù non sfuggono, anzi le ammira.
Egli, come uomo, aveva imparato questo da Maria, sua madre.
Lei, che contemplava tutto con cura e lo «custodiva […] nel suo cuore» (Lc 2,19.51), gli insegnò fin da piccolo, insieme a San Giuseppe, a prestare attenzione.
Benché nelle Scritture abbiamo la sua Parola sempre viva e attuale, a volte Gesù ci parla interiormente e ci chiama per portarci nel posto migliore.
E il posto migliore è il suo Cuore.
Ci chiama per farci entrare lì dove possiamo recuperare le forze e la pace: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28).
Per questo ha chiesto ai suoi discepoli: «Rimanete in me» (Gv 15,4).
Le parole che Gesù diceva mostravano che la sua santità non eliminava i sentimenti.
In alcune occasioni manifestavano un amore appassionato, che soffre per noi, si commuove, si lamenta, e arriva fino alle lacrime.
È evidente che non lo lasciavano indifferente le comuni preoccupazioni e ansie della gente, come la stanchezza o la fame: «Sento compassione per la folla; [...] non hanno da mangiare.
[...] Verranno meno lungo il cammino; e alcuni di loro sono venuti da lontano» (Mc 8,2-3).
Il Vangelo non nasconde i sentimenti di Gesù nei confronti di Gerusalemme, la città amata: «Quando fu vicino, alla vista della città, pianse su di essa» (Lc 19,41) ed espresse il suo desiderio più grande: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace!» (19,42).
Gli evangelisti, pur presentandolo talvolta potente o glorioso, non mancano di mostrare i suoi sentimenti di fronte alla morte e al dolore degli amici.
Prima di raccontare che davanti alla tomba di Lazzaro «Gesù scoppiò in pianto» (Gv 11,35), il Vangelo si sofferma a dire che «Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro» (Gv 11,5) e che, vedendo piangere Maria e quelli che stavano con lei, «si commosse profondamente e [fu] molto turbato» (Gv 11,33).
La narrazione non lascia dubbi sul fatto che si trattasse di un pianto sincero, scaturito da un turbamento interiore.
Infine, nemmeno si è voluto nascondere l’angoscia di Gesù davanti alla propria morte violenta per mano di quelli che Lui tanto amava: «Cominciò a sentire paura e angoscia» (Mc 14,33), fino a dire: «la mia anima è triste fino alla morte» (Mc 14,34).
Questo turbamento interiore si esprime in tutta la sua forza nel grido del Crocifisso: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34).
Tutto questo, a uno sguardo superficiale, può sembrare mero romanticismo religioso.
Tuttavia, è la cosa più seria e più decisiva.
Trova la sua massima espressione in Cristo inchiodato ad una croce.
È la parola d’amore più eloquente.
Non è un guscio vuoto, non è puro sentimento, non è un’evasione spirituale.
È amore.
Ecco perché San Paolo, quando cercava le parole giuste per spiegare il suo rapporto con Cristo, disse: «Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20).
Questa era la sua più grande convinzione: sapere di essere amato.
La dedizione di Cristo sulla croce lo soggiogava, ma aveva senso solo perché c’era qualcosa di ancora più grande di quella dedizione: “Mi ha amato”.
Quando molte persone cercavano in varie proposte religiose la salvezza, il benessere o la sicurezza, Paolo, toccato dallo Spirito, ha saputo guardare oltre e meravigliarsi della cosa più grande e fondamentale: “Mi ha amato”.
Dopo aver contemplato Cristo, guardando ciò che i suoi gesti e le sue parole lasciano vedere del suo Cuore, ricordiamo ora come la Chiesa riflette sul santo mistero del Cuore del Signore.
III.
QUESTO È IL CUORE CHE HA TANTO AMATO
La devozione al Cuore di Cristo non è il culto di un organo separato dalla Persona di Gesù.
Ciò che contempliamo e adoriamo è Gesù Cristo intero, il Figlio di Dio fatto uomo, rappresentato in una sua immagine dove è evidenziato il suo cuore.
In questo caso il cuore di carne è assunto come immagine o segno privilegiato del centro più intimo del Figlio incarnato e del suo amore insieme divino e umano, perché più di ogni altro membro del suo corpo è «l’indice naturale, ovvero il simbolo della sua immensa carità».
È indispensabile sottolineare che ci relazioniamo con la Persona di Cristo, nell’amicizia e nell’adorazione, attratti dall’amore rappresentato nell’immagine del suo Cuore.
Veneriamo tale immagine che lo rappresenta, ma l’adorazione è rivolta solo a Cristo vivo, nella sua divinità e in tutta la sua umanità, per lasciarci abbracciare dal suo amore umano e divino.
Al di là dell’immagine utilizzata, è certo che il Cuore vivo di Cristo – mai un’immagine – è oggetto di adorazione, perché è parte del suo corpo santissimo e risorto, inseparabile dal Figlio di Dio che lo ha assunto per sempre.
È adorato in quanto «Cuore della Persona del Verbo, al quale è inseparabilmente unito».
[29] Non lo adoriamo isolatamente, ma in quanto con questo Cuore è il Figlio stesso incarnato che vive, ama e riceve il nostro amore.
Pertanto, ogni atto d’amore o adorazione del suo Cuore è in realtà «veramente e realmente tributato a Cristo stesso», [30] poiché tale figura rimanda spontaneamente a Lui ed è «simbolo e immagine espressiva dell’infinita carità di Gesù Cristo».
Per questo motivo nessuno dovrebbe pensare che questa devozione possa separarci o distrarci da Gesù Cristo e dal suo amore.
In modo spontaneo e diretto ci indirizza a Lui e a Lui solo, che ci chiama a una preziosa amicizia fatta di dialogo, affetto, fiducia, adorazione.
Questo Cristo dal cuore trafitto e ardente è lo stesso che è nato a Betlemme per amore; è quello che camminava per la Galilea guarendo, accarezzando, riversando misericordia; è quello che ci ha amati fino alla fine aprendo le braccia sulla croce.
Infine, è lo stesso che è risorto e vive glorioso in mezzo a noi.
La venerazione della sua immagine
Va notato che l’immagine di Cristo con il suo cuore, pur non essendo in alcun modo oggetto di adorazione, non è una tra le tante che potremmo scegliere.
Non è qualcosa di inventato a tavolino o disegnato da un artista, «non è un simbolo immaginario, è un simbolo reale, che rappresenta il centro, la fonte da cui è sgorgata la salvezza per l’umanità intera».
C’è un’esperienza umana universale che rende unica tale immagine.
È indubitabile, infatti, che nel corso della storia e in varie parti del mondo il cuore sia diventato simbolo dell’intimità più personale e anche degli affetti, delle emozioni, della capacità di amare.
Al di là di ogni spiegazione scientifica, una mano posata sul cuore di un amico esprime un affetto speciale; quando ci si innamora e si sta vicino alla persona amata, il battito del cuore accelera; quando si subisce l’abbandono o l’inganno da parte di una persona cara, si sente come una forte oppressione sul cuore.
Del resto, per esprimere che qualcosa è sincero, che viene davvero dal centro della persona, si dice: “Te lo dico di cuore”.
Il linguaggio poetico non può ignorare la forza di queste esperienze.
È quindi inevitabile che attraverso la storia il cuore abbia raggiunto una capacità simbolica unica, non meramente convenzionale.
Si comprende allora che la Chiesa abbia scelto l’immagine del cuore per rappresentare l’amore umano e divino di Gesù Cristo e il nucleo più intimo della sua Persona.
Tuttavia, benché il disegno di un cuore con fiamme di fuoco possa essere un simbolo eloquente che ci ricorda l’amore di Gesù, è conveniente che questo cuore faccia parte di un’immagine di Gesù Cristo.
In tal modo risulta ancora più significativa la sua chiamata a una relazione personale, di incontro e di dialogo.
[33] Quell’immagine venerata di Cristo, dove risalta il suo cuore amoroso, ha nello stesso tempo uno sguardo che chiama all’incontro, al dialogo, alla fiducia; ha mani forti capaci di sostenerci; ha una bocca che ci rivolge la parola in modo unico e personalissimo.
Il cuore ha il pregio di essere percepito non come un organo separato, ma come un intimo centro unificatore e, allo stesso tempo, come espressione della totalità della persona, cosa che non succede con altri organi del corpo umano.
Se è il centro intimo della totalità della persona, e quindi una parte che rappresenta il tutto, possiamo facilmente snaturarlo se lo contempliamo separatamente dalla figura del Signore.
L’immagine del cuore deve metterci in relazione con la totalità di Gesù Cristo nel suo centro unificatore e, contemporaneamente, da quel centro unificatore, deve orientarci a contemplare Cristo in tutta la bellezza e la ricchezza della sua umanità e della sua divinità.
Questo va al di là dell’attrattiva che possono avere le varie immagini realizzate del Cuore di Cristo, perché, davanti alle immagini di Cristo, non «dobbiamo chiedere loro qualcosa», né «dobbiamo riporre la nostra fiducia nelle immagini, come facevano i pagani nei tempi antichi», ma «attraverso le immagini che baciamo e davanti alle quali ci scopriamo il capo e ci prostriamo, adoriamo Cristo».
Inoltre, alcune di queste immagini possono sembrarci poco attraenti e non muoverci granché all’amore e alla preghiera.
Questo è secondario, poiché l’immagine è solo una figura motivante e, come direbbero gli orientali, non bisogna fissare il dito che indica la luna.
Mentre l’Eucaristia è presenza reale da adorare, in questo caso si tratta solo di un’immagine che, pur essendo benedetta, ci invita ad andare oltre, ci orienta a elevare il nostro cuore a quello di Cristo vivo e a unirlo a Lui.
L’immagine venerata invita, indica, emoziona, affinché dedichiamo un tempo all’incontro con Cristo e alla sua adorazione, come ci sembra meglio immaginarlo.
In questo modo, guardando l’immagine ci poniamo di fronte a Cristo, e dinanzi a Lui «l’amore si raccoglie, contempla il mistero e lo assapora in silenzio».
Detto tutto questo, non dobbiamo dimenticare che l’immagine del cuore ci parla di carne umana, di terra, e perciò ci parla anche di Dio che ha voluto entrare nella nostra condizione storica, farsi storia e condividere il nostro cammino terreno.
Una modalità di devozione più astratta o stilizzata non sarà necessariamente più fedele al Vangelo, perché in questo segno sensibile e accessibile si manifesta il modo in cui Dio ha voluto rivelarsi e farsi vicino.
Amore e cuore non sono necessariamente uniti, perché in un cuore umano possono regnare l’odio, l’indifferenza, l’egoismo.
Ma non raggiungiamo la nostra piena umanità se non usciamo da noi stessi, e non diventiamo completamente noi stessi se non amiamo.
Quindi il centro intimo della nostra persona, creato per l’amore, realizza il progetto di Dio solo se ama.
Così, il simbolo del cuore simboleggia allo stesso tempo l’amore.
Il Figlio eterno di Dio, che mi trascende senza limiti, ha voluto amarmi anche con un cuore umano.
I suoi sentimenti umani diventano sacramento di un amore infinito e definitivo.
Il suo cuore non è dunque un simbolo fisico che esprime soltanto una realtà spirituale o separata dalla materia.
Lo sguardo rivolto al Cuore del Signore contempla una realtà fisica, la sua carne umana, e questa rende possibile che Cristo abbia emozioni e sentimenti umani, come noi, benché pienamente trasformati dal suo amore divino.
La devozione deve raggiungere l’amore infinito della persona del Figlio di Dio, ma dobbiamo affermare che esso è inseparabile dal suo amore umano, e a tale scopo ci aiuta l’immagine del suo cuore di carne.
Se ancora oggi il cuore è percepito nel sentimento popolare come il centro affettivo di ogni essere umano, esso è ciò che meglio può significare l’amore divino di Cristo unito per sempre e inseparabilmente al suo amore integralmente umano.
Già Pio XII ricordava che la Parola di Dio, dove descrive «l’amore del Cuore di Gesù Cristo, non comprende soltanto la carità divina, ma si estende ai sentimenti dell’affetto umano.
[…] Pertanto il Cuore di Gesù Cristo, unito ipostaticamente alla Persona divina del Verbo, dovette indubbiamente palpitare d’amore e di ogni altro affetto sensibile».
Nei Padri della Chiesa, a fronte di alcuni che negavano o relativizzavano la vera umanità di Cristo, troviamo una forte affermazione della realtà concreta e tangibile degli affetti umani del Signore.
Così, San Basilio sottolinea che l’incarnazione del Signore non è qualcosa di fantasioso, ma che «il Signore ha posseduto gli affetti naturali».
[37] San Giovanni Crisostomo propone un esempio: «Se non avesse avuto la nostra natura, non avrebbe sperimentato più volte la tristezza».
[38] Sant’Ambrogio afferma: «Poiché ha preso l’anima, ha preso le passioni dell’anima».
[39] E Sant’Agostino presenta gli affetti umani come una realtà che, una volta assunta da Cristo, non è più estranea alla vita della grazia: «Il Signore Gesù prese tutte queste conseguenze proprie della debolezza umana (come ne prese la morte corporale), non per una necessità impostagli, ma per una volontà di misericordia.
[…] Per cui, se a qualcuno fosse capitato di rattristarsi e di soffrire in mezzo alle tentazioni umane, non dovesse, perciò, ritenersi abbandonato dalla grazia di Cristo».
[40] Infine, San Giovanni Damasceno ritiene che questa reale esperienza affettiva di Cristo nella sua umanità sia la prova che Egli ha assunto la nostra natura interamente e non parzialmente, per redimerla e trasformarla intera.
Cristo ha dunque assunto tutti gli elementi che compongono la natura umana, affinché tutti fossero santificati.
Vale la pena di riprendere qui la riflessione di un teologo, il quale riconosce che, «sotto l’influsso del pensiero greco, la teologia a lungo ha relegato il corpo e i sentimenti nel mondo del pre-umano, dell’infra-umano o della tentazione del vero umano, ma ciò che la teologia non ha risolto in teoria l’ha risolto la spiritualità in pratica.
Essa e la religiosità popolare hanno mantenuto vivo il rapporto con gli aspetti somatici, psicologici e storici di Gesù.
La Via Crucis, la devozione alle sue piaghe, la spiritualità del prezioso sangue, la devozione al cuore di Gesù, le pratiche eucaristiche [...].
Tutto ciò ha colmato le lacune della teologia alimentando l’immaginazione e il cuore, l’amore e la tenerezza per Cristo, la speranza e la memoria, il desiderio e la nostalgia.
La ragione e la logica hanno preso altre strade».
Non ci fermiamo nemmeno soltanto sui suoi sentimenti umani, per quanto belli e commoventi, perché contemplando il Cuore di Cristo riconosciamo come nei suoi nobili e sani sentimenti, nella sua tenerezza, nel vibrare del suo affetto umano, si manifesti tutta la verità del suo amore divino e infinito.
Così lo esprimeva Benedetto XVI: «Dall’orizzonte infinito del suo amore, Dio ha voluto entrare nei limiti della storia e della condizione umana, ha preso un corpo e un cuore; così che noi possiamo contemplare e incontrare l’infinito nel finito, il Mistero invisibile e ineffabile nel Cuore umano di Gesù, il Nazareno».
In realtà, c’è un triplice amore che è contenuto e ci abbaglia nell’immagine del Cuore del Signore.
Innanzitutto, l’amore divino infinito che troviamo in Cristo.
Ma pensiamo anche alla dimensione spirituale dell’umanità del Signore.
Da questo punto di vista, il cuore «è il simbolo di quell’ardentissima carità, che, infusa nella sua anima, costituisce la preziosa dote della sua volontà umana».
Infine, «è simbolo del suo amore sensibile».
Questi tre amori non sono capacità separate, che funzionano in modo parallelo o slegato, bensì agiscono e si esprimono insieme e in un costante flusso di vita: «Alla luce, infatti, della fede, per la quale crediamo che nella Persona di Cristo esiste il connubio tra la natura umana e la divina, la nostra mente è resa idonea a concepire gli strettissimi vincoli che esistono tra l’amore sensibile del cuore fisico di Gesù e il suo duplice amore spirituale, l’umano e il divino».
Perciò, entrando nel Cuore di Cristo, ci sentiamo amati da un cuore umano, pieno di affetti e sentimenti come i nostri.
La sua volontà umana vuole liberamente amarci, e questa volontà spirituale è pienamente illuminata dalla grazia e dalla carità.
Quando raggiungiamo l’intimo di quel Cuore, siamo inondati dalla gloria incommensurabile del suo amore infinito di Figlio eterno, che non possiamo più separare dal suo amore umano.
È proprio nel suo amore umano, e non allontanandoci da esso, che troviamo il suo amore divino: troviamo «l’infinito nel finito».
È un insegnamento costante e definitivo della Chiesa che la nostra adorazione alla sua Persona è unica e abbraccia inseparabilmente sia la sua natura divina che la sua natura umana.
Fin dai tempi antichi la Chiesa insegna che dobbiamo «adorare un solo e medesimo Cristo, Figlio di Dio e dell’uomo, in due nature inseparabili e indivise».
[47] E questo «con un’unica adorazione […], perché il Verbo si è fatto carne».
[48] In nessun modo Cristo è «adorato in due nature, da cui si introducono due adorazioni», ma «il Verbo Dio incarnato con la propria carne è adorato con una sola adorazione».
San Giovanni della Croce ha voluto esprimere che nell’esperienza mistica l’amore incommensurabile di Cristo risorto non è sentito come estraneo alla nostra vita.
L’Infinito in qualche modo si abbassa affinché attraverso il Cuore aperto di Cristo possiamo vivere un incontro d’amore veramente reciproco: «È infatti possibile che un uccello di basso volo prenda un’aquila reale dal volo sublime, se questa, desiderando di essere presa, viene in basso ».
[50] E spiega che «vedendo la sposa ferita dal suo amore e udendone il gemito, viene ferito dall’amore di lei giacché tra gli innamorati la ferita dell’uno è ferita dell’altro e unico è il sentimento che hanno ».
[51]Questo mistico intende la figura del costato ferito di Cristo come una chiamata alla piena unione con il Signore.
Egli è il cervo vulnerato, ferito quando non ci siamo ancora lasciati toccare dal suo amore, che scende ai ruscelli d’acqua per dissetarsi e trova conforto ogni volta che ci rivolgiamo a Lui:
«Volgiti, o colomba,
poiché il cervo ferito
sull’alto colle spunta
all’aura del tuo volo e il fresco prende».
La devozione al Cuore di Gesù è marcatamente cristologica; è una contemplazione diretta di Cristo che invita all’unione con Lui.
Ciò è legittimo se teniamo presente quanto chiede la Lettera agli Ebrei: correre la nostra corsa «tenendo fisso lo sguardo su Gesù» (12,2).
Tuttavia, non possiamo ignorare che, allo stesso tempo, Gesù si presenta come la via per andare al Padre: «Io sono la via […].
Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» ( Gv 14,6).
Egli vuole condurci al Padre.
Ecco perché la predicazione della Chiesa, fin dall’inizio, non ci fa fermare a Gesù Cristo, ma ci conduce al Padre.
È Lui che alla fine, come pienezza originaria, dev’essere glorificato.
Soffermiamoci, ad esempio, sulla Lettera agli Efesini, dove si può vedere con forza e chiarezza come la nostra adorazione sia rivolta al Padre: «Io piego le ginocchia davanti al Padre» ( Ef 3,14).
«C’è un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti» ( Ef 4,6).
«Rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre» ( Ef 5,20).
Il Padre è Colui al quale siamo destinati (cfr 1 Cor 8,6).
Per questo motivo, San Giovanni Paolo II diceva che «tutta la vita cristiana è come un grande pellegrinaggio verso la casa del Padre».
[54] È ciò che ha sperimentato Sant’Ignazio di Antiochia sulla via del martirio: «Un’acqua viva mormora dentro di me e mi dice: Vieni al Padre!» . [55]
È innanzitutto il Padre di Gesù Cristo: «Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo» ( Ef 1,3).
È «il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria» ( Ef 1,17).
Quando il Figlio si è fatto uomo, tutti i desideri e le aspirazioni del suo cuore umano erano rivolti al Padre.
Se vediamo come Cristo si riferiva al Padre, possiamo cogliere questo fascino del suo cuore umano, questo perfetto e costante orientamento al Padre.
[56] La sua storia su questa nostra terra è stata un camminare sentendo nel suo cuore umano una chiamata incessante ad andare al Padre.
Sappiamo che la parola aramaica con cui Egli si rivolgeva al Padre era “Abbà”, che significa “papà, babbo”.
Ai suoi tempi alcuni erano infastiditi da questa familiarità (cfr Gv 5,18).
È l’espressione che Gesù ha usato per comunicare con il Padre quando è apparsa l’angoscia della morte: «Abbà (papà)! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36).
Sempre Egli si è riconosciuto amato dal Padre: «Mi hai amato prima della creazione del mondo» (Gv 17,24).
E Gesù, nel suo cuore umano, era estasiato nell’ascoltare il Padre che gli diceva: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (Mc 1,11).
Il quarto Vangelo dice che il Figlio eterno del Padre è da sempre «nel seno del Padre» ( Gv 1,18).
[58] Sant’Ireneo afferma che «il Figlio di Dio è sempre esistito al cospetto del Padre».
[59] E Origene sostiene che il Figlio persevera «nell’incessante contemplazione dell’abisso paterno».
[60] Per questo, quando il Figlio si è fatto uomo, passava notti intere a comunicare con il Padre amato, in cima al monte (cfr Lc 6,12).
Diceva: «Devo occuparmi delle cose del Padre mio» ( Lc 2,49).
Guardiamo le sue espressioni di lode: «Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra» ( Lc 10, 21).
E le sue ultime parole, piene di fiducia, furono: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» ( Lc 23,46).
Volgiamo ora lo sguardo allo Spirito Santo, che riempie il Cuore di Cristo e arde in Lui.
Perché, come ha detto San Giovanni Paolo II, il Cuore di Cristo è «il capolavoro dello Spirito Santo».
[61] Non è solo una cosa del passato, perché «nel Cuore di Cristo è viva l’azione dello Spirito Santo, a cui Gesù ha attribuito l’ispirazione della sua missione (cfr Lc 4,18; Is 61,1) e di cui aveva nell’Ultima Cena promesso l’invio.
È lo Spirito che aiuta a cogliere la ricchezza del segno del costato trafitto di Cristo, dal quale è scaturita la Chiesa (cfr Cost.
Sacrosanctum Concilium, 5)».
[62] In definitiva, «solo lo Spirito Santo può aprire dinanzi a noi questa pienezza dell’“uomo interiore”, che si trova nel Cuore di Cristo.
Solo Lui può far sì che da questa pienezza attingano forza, gradatamente, anche i nostri cuori umani».
Se cerchiamo di addentrarci nel mistero dell’azione dello Spirito, vediamo che Egli geme in noi e dice “Abbà”: «Che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!”» (Gal 4,6).
Infatti «lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio» (Rm 8,16).
L’azione dello Spirito Santo nel cuore umano di Cristo provoca incessantemente questa attrazione verso il Padre.
E quando ci unisce per la grazia ai sentimenti di Cristo, ci rende partecipi della relazione del Figlio con il Padre, è «lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (Rm 8,15).
Il nostro rapporto con il Cuore di Cristo si trasforma allora sotto l’impulso dello Spirito, che ci orienta verso il Padre, fonte della vita e origine ultima della grazia.
Cristo stesso non desidera che ci fermiamo solo a Lui.
L’amore di Cristo è «rivelazione della misericordia del Padre».
[64] Il suo desiderio è che, spinti dallo Spirito che sgorga dal suo Cuore, “con Lui e in Lui” andiamo al Padre.
La gloria è rivolta al Padre “per” Cristo, [65] “con” Cristo [66] e “in” Cristo.
[67] San Giovanni Paolo II insegnava che «il Cuore del Salvatore ci invita a risalire all’amore del Padre, che è la sorgente di ogni autentico amore».
[68] È proprio questo che lo Spirito Santo, venendo a noi dal Cuore di Cristo, cerca di alimentare nei nostri cuori.
Per questo la Liturgia, sotto l’azione vivificante dello Spirito, si rivolge sempre al Padre dal Cuore risorto di Cristo.
Espressioni magisteriali recenti
In diverse modalità il Cuore di Cristo è stato presente nella storia della spiritualità cristiana.
Nella Bibbia e nei primi secoli della Chiesa appariva nella figura del costato ferito del Signore, come fonte della grazia o come richiamo a un intimo incontro d’amore.
Così è costantemente riapparso nella testimonianza di molti santi fino al giorno d’oggi.
Negli ultimi secoli questa spiritualità ha assunto la forma di un vero e proprio culto del Cuore del Signore.
Alcuni miei predecessori hanno fatto riferimento al Cuore di Cristo e con espressioni molto differenti hanno invitato a unirsi a Lui.
Alla fine del XIX secolo, Leone XIII ci invitava a consacrarci a Lui e nella sua proposta univa al tempo stesso l’invito all’unione con Cristo e l’ammirazione per lo splendore del suo amore infinito.
[69] Circa trent’anni dopo, Pio XI presentò questa devozione come un compendio dell’esperienza di fede cristiana.
[70]Inoltre, Pio XII ha affermato che il culto del Sacro Cuore esprime in modo eccellente, come una sintesi sublime, il nostro culto a Gesù Cristo.
Più recentemente, San Giovanni Paolo II ha presentato lo sviluppo di questo culto nei secoli passati come una risposta alla crescita di forme di spiritualità rigoriste e disincarnate che dimenticavano la misericordia del Signore, ma allo stesso tempo come un appello attuale davanti a un mondo che cerca di costruirsi senza Dio: «La devozione al Sacro Cuore, così come si è sviluppata nell’Europa di due secoli fa, sotto l’impulso delle esperienze mistiche di Santa Margherita Maria Alacoque, è stata la risposta al rigorismo giansenista, che aveva finito per misconoscere l’infinita misericordia di Dio.
[...] L’uomo del Duemila ha bisogno del Cuore di Cristo per conoscere Dio e per conoscere se stesso; ne ha bisogno per costruire la civiltà dell’amore».
Benedetto XVI invitava a riconoscere il Cuore di Cristo come presenza intima e quotidiana nella vita di ciascuno: «Ogni persona ha bisogno di avere un “centro” della propria vita, una sorgente di verità e di bene a cui attingere per affrontare le varie situazioni e la fatica della vita quotidiana.
Ognuno di noi, quando fa silenzio, ha bisogno di sentire non solo il battito del proprio cuore, ma anche, più profondamente, il battito di una presenza affidabile, percepibile con i sensi della fede e tuttavia molto più reale: la presenza di Cristo, cuore del mondo».
L’immagine espressiva e simbolica del Cuore di Cristo non è l’unica risorsa che lo Spirito Santo ci dà per incontrare l’amore di Cristo, e avrà sempre bisogno di essere arricchita, illuminata e rinnovata attraverso la meditazione, la lettura del Vangelo e la maturazione spirituale.
Già Pio XII diceva che la Chiesa non pretende «di vedere e di adorare nel Cuore di Gesù l’immagine così detta formale, cioè il segno proprio e perfetto del suo amore divino, non essendo possibile che l’intima essenza di questo sia adeguatamente rappresentata da qualsiasi immagine creata».
La devozione al Cuore di Cristo è essenziale per la nostra vita cristiana in quanto significa l’apertura piena di fede e di adorazione al mistero dell’amore divino e umano del Signore, tanto che possiamo affermare ancora una volta che il Sacro Cuore è una sintesi del Vangelo.
[75] Bisogna ricordare che le visioni o le manifestazioni mistiche narrate da alcuni santi che hanno proposto con passione la devozione al Cuore di Cristo non sono qualcosa che i credenti sono obbligati a credere come se fossero la Parola di Dio.
[76] Sono stimoli belli che possono motivare e fare molto bene, anche se nessuno deve sentirsi obbligato a seguirli se non trova che lo aiutino nel suo cammino spirituale.
Va sempre ricordato, del resto, come affermava Pio XII, che non si può dire che questo culto «debba la sua origine a rivelazioni private».
La proposta della Comunione eucaristica il primo venerdì di ogni mese, ad esempio, era un messaggio forte in un momento in cui molte persone smettevano di accostarsi alla Comunione perché non avevano fiducia nel perdono divino, nella sua misericordia, e consideravano la Comunione come una sorta di premio per i perfetti.
In quel contesto giansenista, la promozione di questa pratica fece molto bene, aiutando a riconoscere nell’Eucaristia l’amore gratuito e vicino del Cuore di Cristo che ci chiama all’unione con Lui.
Possiamo affermare che anche oggi farebbe molto bene per un altro motivo: perché in mezzo al vortice del mondo attuale e alla nostra ossessione per il tempo libero, il consumo e il divertimento, i telefonini e i social media, dimentichiamo di nutrire la nostra vita con la forza dell’Eucaristia.
Allo stesso modo, nessuno deve sentirsi obbligato a fare un’ora di adorazione il giovedì.
Ma come non raccomandarla? Quando qualcuno vive questa pratica con fervore insieme a tanti fratelli e sorelle e trova nell’Eucaristia tutto l’amore del Cuore di Cristo, «adora insieme con la Chiesa il simbolo e quasi il vestigio della Carità divina, la quale si è spinta fino ad amare anche col Cuore del Verbo Incarnato il genere umano».
Questo era difficile da capire per molti giansenisti, che guardavano dall’alto in basso tutto ciò che era umano, affettivo, corporeo, e in definitiva ritenevano che tale devozione ci allontanasse dalla più pura adorazione del Dio Altissimo.
Pio XII definì «falsa mistica» [79] l’atteggiamento elitario di alcuni gruppi che vedevano Dio così alto, così separato, così distante, da considerare le espressioni sensibili della pietà popolare pericolose e bisognose del controllo ecclesiastico.
Si potrebbe sostenere che oggi, più che al giansenismo, ci troviamo di fronte a una forte avanzata della secolarizzazione, che aspira ad un mondo libero da Dio.
A ciò si aggiunge che si stanno moltiplicando nella società varie forme di religiosità senza riferimento a un rapporto personale con un Dio d’amore, che sono nuove manifestazioni di una “spiritualità senza carne”.
Questo è vero.
Tuttavia, devo constatare che all’interno della Chiesa stessa il dannoso dualismo giansenista è rinato con nuovi volti.
Ha acquistato nuova forza negli ultimi decenni, ma è una manifestazione di quello gnosticismo che già danneggiava la spiritualità nei primi secoli della fede cristiana, e che ignorava la verità della “salvezza della carne”.
Per questo motivo rivolgo il mio sguardo al Cuore di Cristo e invito a rinnovare la sua devozione.
Spero che possa essere attraente anche per la sensibilità di oggi e in tal modo ci aiuti ad affrontare questi vecchi e nuovi dualismi ai quali offre una risposta adeguata.
Vorrei aggiungere che il Cuore di Cristo ci libera allo stesso tempo da un altro dualismo: quello di comunità e pastori concentrati solo su attività esterne, riforme strutturali prive di Vangelo, organizzazioni ossessive, progetti mondani, riflessioni secolarizzate, su varie proposte presentate come requisiti che a volte si pretende di imporre a tutti.
Ne risulta spesso un cristianesimo che ha dimenticato la tenerezza della fede, la gioia della dedizione al servizio, il fervore della missione da persona a persona, l’esser conquistati dalla bellezza di Cristo, l’emozionante gratitudine per l’amicizia che Egli offre e per il senso ultimo che dà alla vita personale.
Insomma, un’altra forma di trascendentalismo ingannevole, altrettanto disincarnato.
Queste malattie tanto attuali, dalle quali, quando ci siamo lasciati catturare, non sentiamo nemmeno il desiderio di guarire, mi spingono a proporre a tutta la Chiesa un nuovo approfondimento sull’amore di Cristo rappresentato nel suo santo Cuore.
Lì possiamo trovare tutto il Vangelo, lì è sintetizzata la verità che crediamo, lì vi è ciò che adoriamo e cerchiamo nella fede, ciò di cui abbiamo più bisogno.
Davanti al Cuore di Cristo è possibile tornare alla sintesi incarnata del Vangelo e vivere ciò che ho proposto poco tempo fa, ricordando l’amata Santa Teresa di Gesù Bambino: «L’atteggiamento più adeguato è riporre la fiducia del cuore fuori di noi stessi: nell’infinita misericordia di un Dio che ama senza limiti e che ha dato tutto nella Croce di Gesù».
[80] Ella lo viveva intensamente perché aveva scoperto nel Cuore di Cristo che Dio è amore: «A me Egli ha donato la sua Misericordia infinita ed è attraverso essa che contemplo e adoro le altre perfezioni Divine!».
[81] Ecco perché la preghiera più popolare, diretta come un dardo al Cuore di Cristo, dice semplicemente: “Confido in te”.
[82] Non servono altre parole.
Nei prossimi capitoli metteremo in evidenza due aspetti fondamentali che oggi la devozione al Sacro Cuore dovrebbe tenere uniti per continuare a nutrirci e ad avvicinarci al Vangelo: l’esperienza spirituale personale e l’impegno comunitario e missionario.
IV.
Torniamo alle Sacre Scritture, ai testi ispirati che sono il luogo principale in cui troviamo la Rivelazione.
In esse e nella Tradizione viva della Chiesa è contenuto ciò che il Signore stesso ha voluto dirci per tutta la storia.
A partire dalla lettura di testi dell’Antico e del Nuovo Testamento, raccoglieremo alcuni effetti della Parola nel lungo cammino spirituale del Popolo di Dio.
La Bibbia mostra che al popolo che aveva camminato attraverso il deserto e che attendeva la liberazione era annunciata un’abbondanza di acqua vivificante: «Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza» (Is 12,3).
Gli annunci messianici vennero assumendo la forma di una sorgente di acqua purificante: «Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati.
[...] Metterò dentro di voi uno spirito nuovo» (Ez 36,25-26).
È l’acqua che restituirà al popolo un’esistenza piena, come una sorgente che sgorga dal tempio e riversa al suo passaggio vita e salute: «Vidi che sulla sponda del torrente vi era una grandissima quantità di alberi da una parte e dall’altra.
[…] Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il torrente, vivrà [...], perché dove giungono quelle acque, risanano, e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà» (Ez 47,7.9).
La festa ebraica delle Tende ( Sukkot), che commemorava i quarant’anni nel deserto, aveva gradualmente assunto il simbolo dell’acqua come elemento centrale e prevedeva un rito di offerta dell’acqua ogni mattina, che diventava molto solenne l’ultimo giorno della festa: si faceva una grande processione fino al tempio dove, infine, si compivano sette giri intorno all’altare e si offriva l’acqua a Dio in mezzo a un gran baccano.
L’annuncio dell’avvento del tempo messianico era presentato come una sorgente aperta per il popolo: «Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto.
[...] In quel giorno vi sarà per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante per lavare il peccato e l’impurità» (Zc 12,10; 13,1).
Un uomo trafitto, una sorgente aperta, uno spirito di grazia e di preghiera.
I primi cristiani in modo evidente vedevano realizzata questa promessa nel costato aperto di Cristo, fonte da cui promana la vita nuova.
Scorrendo il Vangelo di Giovanni vediamo come quella profezia si sia realizzata in Cristo.
Contempliamo il suo costato aperto, da cui è scaturita l’acqua dello Spirito: «Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34).
Poi l’evangelista aggiunge: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37).
Riprende così l’annuncio del profeta che prometteva al popolo una sorgente aperta a Gerusalemme, quando avrebbero rivolto lo sguardo al trafitto (cfr Zc 12,10).
La fonte aperta è il fianco ferito di Gesù.
Notiamo che il Vangelo stesso annunciava questo momento sacro, precisamente «nell’ultimo, il grande giorno della festa» delle Tende (Gv 7,37).
Allora Gesù gridò al popolo festante nella grande processione: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva […] dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva» (Gv 7,37-38).
Perché ciò si attuasse doveva venire la sua “ora”, perché Gesù «non era ancora stato glorificato» (Gv 7,39).
Tutto si è compiuto nella sorgente traboccante della Croce.
Nel Libro dell’Apocalisse riappaiono sia il Trafitto: «Ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero» (Ap 1,7), sia la fonte aperta: «Chi ha sete venga; chi vuole, prenda gratuitamente l’acqua della vita» (Ap 22,17).
Il costato trafitto è allo stesso tempo la sede dell’amore, un amore che Dio ha dichiarato al suo popolo con tante parole diverse che vale la pena ricordare:
«Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo» (Is 43,4).
«Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai.
Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato» (Is 49,15-16).
«Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace» (Is 54,10).
«Ti ho amato di amore eterno, per questo continuo a esserti fedele» (Ger 31,3).
«Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente.
Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia» (Sof 3,17).
Il profeta Osea arriva a parlare del cuore di Dio: «Li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore» (Os 11,4).
A causa di questo stesso amore disprezzato, poteva dire: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (Os 11,8).
Ma sempre vincerà la misericordia (cfr Os 11,9), che raggiungerà la sua massima espressione in Cristo, la parola d’amore definitiva.
Nel Cuore trafitto di Cristo si concentrano, scritte nella carne, tutte le espressioni d’amore delle Scritture.
Non si tratta di un amore semplicemente dichiarato, ma il suo costato aperto è sorgente di vita per quanti sono amati, è quella fonte che sazia la sete del suo popolo.
Come insegnava San Giovanni Paolo II, «gli elementi essenziali di tale devozione appartengono dunque in modo permanente alla spiritualità della Chiesa nel corso della sua storia, poiché fin dal principio la Chiesa ha rivolto il suo sguardo al cuore di Cristo trafitto sulla croce».
Risonanze della Parola nella storia
Consideriamo alcuni effetti che questa Parola di Dio ha prodotto nella storia della fede cristiana.
Diversi Padri della Chiesa, soprattutto dell’Asia Minore, hanno menzionato la ferita nel costato di Gesù come origine dell’acqua dello Spirito: della Parola, della sua grazia e dei sacramenti che la comunicano.
La forza dei martiri vive della «sorgente celeste dell’acqua viva che sgorga dalle viscere di Cristo», [85] o, come traduce Rufino, delle «sorgenti celesti ed eterne che procedono dalle viscere di Cristo».
[86] Noi credenti, che siamo rinati dallo Spirito, veniamo da quella grotta della roccia, «siamo usciti dal grembo di Cristo».
[87] Il suo costato ferito, che interpretiamo come il suo cuore, è pieno dello Spirito Santo e da Lui giunge a noi come fiumi di acqua viva: «La sorgente dello Spirito è interamente in Cristo».
[88] Ma lo Spirito che riceviamo non ci allontana dal Signore risorto, bensì ci riempie di Lui, perché bevendo lo Spirito beviamo Cristo stesso: «Bevi Cristo, perché Egli è la roccia che riversa acqua.
Bevi Cristo perché Egli è la fonte della vita.
Bevi Cristo perché Egli è il fiume la cui forza rallegra la città di Dio.
Bevi Cristo perché Egli è la pace.
Bevi Cristo, perché dal suo seno sgorga acqua viva».
Sant’Agostino ha aperto la strada alla devozione al Sacro Cuore come luogo di incontro personale con il Signore.
Per lui, cioè, il petto di Cristo non è solo la fonte della grazia e dei sacramenti, ma lo personalizza, presentandolo come simbolo dell’unione intima con Cristo, come luogo di un incontro d’amore.
Lì sta l’origine della sapienza più preziosa, che è quella di conoscere Lui.
Infatti, Agostino scrive che Giovanni, l’amato, quando nell’ultima Cena chinò il capo sul petto di Gesù, si accostò al luogo segreto della sapienza.
[90] Non siamo di fronte a una semplice contemplazione intellettuale di una verità teologica.
San Girolamo spiegava che una persona capace di contemplazione «non gode della bellezza del ruscello d’acqua, ma beve l’acqua viva del costato del Signore».
San Bernardo ha ripreso il simbolismo del costato trafitto del Signore, intendendolo esplicitamente come rivelazione e dono dell’amore del suo Cuore.
Attraverso la ferita diventa accessibile a noi e possiamo fare nostro il grande mistero dell’amore e della misericordia: «Prendo per me dalle viscere del Signore quanto mi manca, perché abbondano in misericordia, né mancano le fenditure per cui possano scorrere fino a me.
Hanno forato le sue mani e i suoi piedi, hanno squarciato il fianco con la lancia, e attraverso queste fessure io posso succhiare il miele della pietra e l’olio del durissimo sasso, cioè gustare e vedere com’è soave il Signore.
[…] Il ferro trapassò la sua anima, e si avvicinò al suo cuore perché ormai non possa più non compatire le mie debolezze.
È aperto l’ingresso al segreto del cuore per le ferite del corpo, appare quel grande sacramento della pietà, appaiono le viscere di misericordia del nostro Dio».
Questo si ripresenta in modo particolare in Guglielmo di Saint-Thierry, che invita ad entrare nel Cuore di Gesù, che ci nutre al suo stesso seno.
[93] Ciò non sorprende, se ricordiamo che per questo autore «l’arte delle arti è l’arte dell’amore.
[...] L’amore è suscitato dal Creatore della natura […].
L’amore è una forza dell’anima, che la conduce come per un peso naturale al luogo e al fine che le è proprio».
[94] E il luogo che le è proprio, dove l’amore regna in pienezza, è il Cuore di Cristo: «Signore, dove conduci coloro che abbracci e stringi tra le tue braccia, se non al tuo cuore? Il tuo cuore, Gesù, è la dolce manna della tua divinità (cfr Eb 9,4), che conservi in te nel vaso d’oro della tua anima, che supera ogni conoscenza.
Beati coloro che sono condotti fin lì dal tuo abbraccio.
Beati coloro che, immersi in queste profondità, sono stati nascosti da te nel segreto del tuo cuore».
San Bonaventura unisce le due linee spirituali intorno al Cuore di Cristo: mentre lo presenta come fonte dei sacramenti e della grazia, propone che questa contemplazione diventi un rapporto di amicizia, un incontro personale di amore.
Da un lato, ci aiuta a riconoscere la bellezza della grazia e dei sacramenti che scaturiscono da quella fonte di vita che è il costato ferito del Signore: «Affinché dal costato di Cristo addormentato sulla croce si formasse la Chiesa e si adempisse la Scrittura che dice: “Guarderanno colui che hanno trafitto”, uno dei soldati lo colpì con una lancia e gli aprì il costato.
E ciò fu permesso dalla divina provvidenza, affinché, sgorgando dalla ferita sangue e acqua, si riversasse il prezzo della nostra salvezza, che, emanando dall’arcana fonte del cuore, desse ai sacramenti della Chiesa la virtù di conferire la vita della grazia, e fosse per coloro che vivono in Cristo come una coppa riempita alla sorgente viva, che zampilla fino alla vita eterna».
Ci invita poi a fare un altro passo, affinché l’accesso alla grazia non diventi qualcosa di magico, o una sorta di emanazione di tipo neoplatonico, ma un rapporto diretto con Cristo, abitando nel suo Cuore, perché chi beve è amico di Cristo, è un cuore che ama: «Alzati, dunque, anima amica di Cristo, e sii la colomba che nidifica nella parete di una grotta; sii il passero che ha trovato una casa e non cessa di custodirla; sii la tortora che nasconde i pulcini del suo casto amore in quell’apertura sacratissima».
La diffusione della devozione al Cuore di Cristo
A poco a poco il costato ferito, dove risiede l’amore di Cristo, da cui a sua volta promana la vita della grazia, venne assumendo la figura del cuore, soprattutto nella vita monastica.
Sappiamo che nel corso della storia il culto del Cuore di Cristo non si è manifestato in modi uguali e che gli aspetti sviluppati in epoca moderna, legati a varie esperienze spirituali, non possono essere estrapolati e accostati alle forme medievali e ancor meno a quelle bibliche in cui possiamo intravedere i semi di questo culto.
Tuttavia, oggi la Chiesa non disprezza nulla del bene che lo Spirito Santo ci ha donato nel corso dei secoli, sapendo che sarà sempre possibile riconoscere un significato più chiaro e pieno di alcuni particolari della devozione, o comprenderne e svelarne nuovi aspetti.
Diverse donne sante hanno raccontato esperienze del loro incontro con Cristo, caratterizzato dal riposo nel Cuore del Signore, fonte di vita e di pace interiore.
È il caso di Santa Lutgarda, di Santa Matilde di Hackeborn, di Santa Angela da Foligno, di Giuliana di Norwich, tra le altre.
Santa Gertrude di Helfta, monaca cistercense, ha narrato un momento di preghiera in cui ha appoggiato il capo sul Cuore di Cristo e ne ha ascoltato il battito.
In un dialogo con San Giovanni Evangelista gli chiese perché nel suo Vangelo non avesse parlato di ciò che aveva provato quando aveva fatto questa medesima esperienza.
Gertrude conclude che «la dolcezza di questi battiti è stata riservata ai tempi moderni, affinché, ascoltandoli, possa rinnovarsi il mondo invecchiato e tiepido nell’amore di Dio».
[98] Potremmo forse pensare che sia un annuncio per i nostri tempi, un richiamo a riconoscere quanto questo mondo sia diventato “vecchio”, bisognoso di percepire il messaggio sempre nuovo dell’amore di Cristo? Santa Gertrude e Santa Matilde sono state considerate tra «le più intime confidenti del Sacro Cuore».
I certosini, incoraggiati soprattutto da Ludolfo di Sassonia, trovarono nella devozione al Sacro Cuore una via per riempire di affetto e di vicinanza il loro rapporto con Gesù Cristo.
Chi entra attraverso la ferita del suo Cuore si infiamma di affetto.
Santa Caterina da Siena ha scritto che le sofferenze patite dal Signore non sono qualcosa a cui possiamo presenziare, ma che il Cuore aperto di Cristo è per noi la possibilità di un incontro attuale e personale con tanto amore: «Questo vi manifestai nell’apritura del lato mio, dove truovi el segreto del cuore: mostrando che Io v’amo più che mostrare non posso con questa pena finita».
La devozione al Cuore di Cristo ha oltrepassato gradualmente la vita monastica e ha colmato la spiritualità di santi maestri, predicatori e fondatori di congregazioni religiose che l’hanno diffusa nei luoghi più remoti della terra.
Di particolare interesse fu l’iniziativa di San Giovanni Eudes, che «dopo aver svolto con i suoi missionari una ferventissima missione a Rennes, ottenne che monsignor Vescovo approvasse per quella diocesi la celebrazione della festa del Cuore adorabile di Nostro Signore Gesù Cristo.
Questa fu la prima volta che tale festa venne ufficialmente autorizzata nella Chiesa.
In seguito, i Vescovi di Coutances, Evreux, Bayeux, Lisieux e Rouen autorizzarono la stessa festa per le rispettive diocesi tra il 1670 e il 1671».
Nei tempi moderni è degno di nota il contributo di San Francesco di Sales.
Egli contemplava spesso il Cuore aperto di Cristo, che invita a dimorare dentro di Lui in una relazione personale di amore, nella quale si illuminano i misteri della vita.
Possiamo vedere nel pensiero di questo santo dottore come, di fronte a una morale rigorista o a una religiosità di mera osservanza, il Cuore di Cristo gli apparisse come un richiamo alla piena fiducia nell’azione misteriosa della sua grazia.
Così lo esprimeva nella sua proposta alla baronessa di Chantal: «Mi è molto chiaro che noi non rimarremo più in noi stessi […] e che dimoreremo per sempre nel fianco squarciato del Salvatore; senza di lui, infatti, noi non solo non possiamo, ma anche se potessimo, non vorremmo fare niente».
Per lui la devozione era ben lontana dal diventare una forma di superstizione o un’indebita oggettivazione della grazia, perché significava l’invito a una relazione personale in cui ciascuno si sente unico davanti a Cristo, riconosciuto nella sua realtà irripetibile, pensato da Cristo e considerato in modo diretto ed esclusivo: «Questo adorabilissimo e amabilissimo cuore del nostro Maestro, ardente dell’amore che professa per noi, cuore in cui vediamo scritti tutti i nostri nomi [...].
È certamente un argomento di grandissima consolazione il fatto di essere amati con tanto affetto da Nostro Signore che ci porta sempre nel suo Cuore».
[104] Quel nome proprio scritto sul Cuore di Cristo era il modo in cui San Francesco di Sales cercava di simboleggiare fino a che punto l’amore di Cristo per ciascuno non è astratto o generico, ma implica una personalizzazione per cui il credente si sente valorizzato e riconosciuto per sé stesso: «Quanto è bello questo cielo ora che il Salvatore ne è divenuto il sole e il suo petto è una sorgente d’amore alla quale i beati bevono a sazietà.
Ognuno va a contemplarlo e vi vede scritto, dentro, il suo amore a caratteri di amore che solo l’amore sa leggere e che solo l’amore ha scolpiti.
Ah, Figlia mia, i nostri nomi non vi figureranno? Sì, vi figureranno senza dubbio, perché sebbene il nostro cuore non abbia l’amore, ha però il desiderio dell’amore e l’inizio dell’amore».
Egli considerava questa esperienza come qualcosa di fondamentale per una vita spirituale che poneva tale convinzione tra le grandi verità di fede: «Sì, mia carissima Figlia, Egli pensa a voi, e non solo a voi, ma anche al più piccolo fra i capelli del vostro capo: è una verità di fede che non bisogna assolutamente mettere in dubbio».
[106] Ne consegue che il credente diventa capace di abbandonarsi completamente nel Cuore di Cristo, dove trova riposo, consolazione e forza: «O Dio, che felicità stare così tra le braccia e sul petto [del Salvatore].
[…] Rimanete così, Figlia cara, e come un altro piccolo San Giovanni, mentre gli altri mangiano vari cibi alla tavola del Salvatore, voi riposate e inclinate, con semplicissima fiducia, la vostra testa, la vostra anima, il vostro spirito sul petto amorevole del caro Signore».
[107] «Spero che voi siate con lo spirito nella caverna della tortorella e nel fianco squarciato del nostro caro Salvatore.
[...] Com’è buono questo Signore, cara figlia mia! Come il suo cuore è amabile! Rimaniamo lì, in quel santo domicilio».
Fedele, tuttavia, al suo insegnamento sulla santificazione nella vita ordinaria, egli propone che ciò sia vissuto in mezzo alle attività, ai compiti e ai doveri della vita quotidiana: «Mi chiedete come debbano comportarsi in tutte le loro azioni le anime che sono attratte nella preghiera a questa santa semplicità e a questo perfetto abbandono a Dio? Rispondo che, non solo nella preghiera, ma nella condotta di tutta la loro vita, devono invariabilmente camminare in spirito di semplicità, abbandonando e consegnando tutta la loro anima, le loro azioni e i loro successi alla volontà di Dio, con un amore di perfetta e assoluta fiducia, abbandonandosi alla grazia e alla cura dell’amore eterno che la Divina Provvidenza prova per loro».
Per tutti questi motivi, quando si trattò di pensare a un simbolo che potesse riassumere la sua proposta di vita spirituale, egli concluse: «Ho dunque pensato, mia cara Madre, se siete d’accordo, che dobbiamo prendere come nostro stemma un unico cuore trafitto da due frecce, racchiuso in una corona di spine».
Una nuova dichiarazione d’amore
119.
È sotto il salutare influsso di questa spiritualità di San Francesco di Sales che si svolsero gli eventi di Paray-le-Monial alla fine del XVII secolo.
Santa Margherita Maria Alacoque ha raccontato importanti apparizioni avvenute tra la fine di dicembre 1673 e il giugno 1675.
Fondamentale è una dichiarazione d’amore che spicca nella prima grande apparizione.
Gesù dice: «Il mio divin Cuore è tanto appassionato d’amore per gli uomini e per te in particolare, che, non potendo più contenere in sé stesso le fiamme del suo ardente Amore, sente il bisogno di diffonderle per mezzo tuo e di manifestarsi agli uomini per arricchirli dei preziosi tesori che ti scoprirò».
Santa Margherita Maria riassume tutto in modo potente e fervoroso: «Mi scoprì le meraviglie del suo Amore e i segreti inesplicabili del suo Sacro Cuore, che mi aveva tenuti nascosti fino a quel momento, nel quale me lo aprì per la prima volta.
E lo fece in modo così reale e sensibile da non permettermi ombra di dubbio».
[112] Nelle manifestazioni successive viene ribadita la bellezza di questo messaggio: «Mi svelò le meraviglie inesplicabili del suo puro Amore e fino a quale eccesso questo lo avesse spinto ad amare gli uomini».
Questo intenso riconoscimento dell’amore di Gesù che Santa Margherita Maria ci ha trasmesso ci offre preziosi stimoli per la nostra unione con Lui.
Ciò non significa che ci sentiamo obbligati ad accettare o ad assumere tutti i dettagli di questa proposta spirituale, dove, come spesso accade, all’azione divina si mescolano elementi umani legati ai desideri, alle preoccupazioni e alle immagini interiori del soggetto.
[114] Tale proposta dev’essere sempre riletta alla luce del Vangelo e di tutta la ricca tradizione spirituale della Chiesa, mentre riconosciamo quanto bene ha fatto in tante sorelle e in tanti fratelli.
Questo ci permette di riconoscere doni dello Spirito Santo all’interno di questa esperienza di fede e di amore.
Più importante dei dettagli è il nucleo del messaggio che ci viene trasmesso e che può essere riassunto in quelle parole che Santa Margherita ha udito: «Ecco quel Cuore che tanto ha amato gli uomini e che nulla ha risparmiato fino ad esaurirsi e a consumarsi per testimoniare loro il suo Amore».
Questa manifestazione è un invito a crescere nell’incontro con Cristo, grazie a una fiducia senza riserve, fino a raggiungere un’unione piena e definitiva: «Il divin Cuore di Gesù si sostituisca talmente a noi da vivere e agire solo in noi e per noi.
La sua Volontà […] possa agire assolutamente senza resistenza da parte nostra; in conclusione, gli affetti, i desideri, i pensieri suoi siano al posto dei nostri, ma soprattutto il suo amore che si amerà da sé stesso in noi e per noi.
E così, quell’amabile Cuore di Gesù essendo per noi tutto in ogni cosa, potremo dire con san Paolo che non viviamo più noi ma che è lui che vive in noi».
In effetti, nel primo messaggio ricevuto, ella presenta questa esperienza in modo più personale, più concreto, pieno di fuoco e di tenerezza: «Mi domandò il cuore e io Lo supplicai di prenderlo.
Lo prese e lo mise nel suo Cuore adorabile, nel quale me lo fece vedere come un piccolo atomo, che si consumava in quella fornace ardente».
In un altro punto notiamo che Colui che si dona a noi è il Cristo risorto, pieno di gloria, pieno di vita e di luce.
Anche se in vari momenti parla delle sofferenze che ha sopportato per noi e dell’ingratitudine che riceve, qui non sono il sangue e le ferite dolorose a risaltare, ma la luce e il fuoco del Vivente.
Le ferite della Passione, che non scompaiono, vengono trasfigurate.
Così, il Mistero della Pasqua si manifesta qui nella sua interezza: «Una volta, […] mentre era esposto il Santo Sacramento, […] Gesù Cristo, il mio dolce Maestro, si presentò a me tutto splendente di gloria con le sue cinque piaghe sfolgoranti come cinque soli.
Da ogni parte di quella sacra Umanità si sprigionavano fiamme, ma soprattutto dal suo adorabile petto, che somigliava a una fornace ardente.
Dopo averlo scoperto, mi mostrò il suo amante e amabilissimo Cuore, sorgente viva di quelle fiamme.
Fu allora che mi svelò le meraviglie inesplicabili del suo puro Amore e fino a quale eccesso questo lo avesse spinto ad amare gli uomini, dai quali poi non riceveva in cambio che ingratitudini e indifferenza».
Quando San Claudio de La Colombière venne a conoscenza delle esperienze di Santa Margherita, ne divenne immediatamente difensore e divulgatore.
Egli ebbe un ruolo speciale nella comprensione e nella diffusione di questa devozione al Sacro Cuore, ma anche nella sua interpretazione alla luce del Vangelo.
Mentre alcune espressioni di Santa Margherita, se fraintese, potevano indurre a confidare troppo nei propri sacrifici e nelle proprie offerte, San Claudio mostra che la contemplazione del Cuore di Cristo, se è autentica, non provoca un compiacimento in sé stessi o una vanagloria nelle esperienze o negli sforzi umani, bensì un indescrivibile abbandono in Cristo che riempie la vita di pace, di sicurezza, di decisione.
Egli ha espresso molto bene questa fiducia assoluta in una famosa preghiera:
«Per me, o mio Dio, son troppo persuaso che voi vegliate sopra coloro che sperano in voi, e che non può mancar loro cosa alcuna, quando sperano tutto da voi.
Son risoluto perciò di vivere per l’avvenire senza cruccio alcuno, e di rimettere a voi tutte le mie inquietudini [...].
Non perderò giammai la mia speranza, la manterrò fino all’ultimo momento di mia vita; e tutti i demoni dell’inferno invano si affaticheranno in quel punto per levarmela [...].
Aspetti pure chi vuole la sua felicità dalle ricchezze o dall’ingegno; confidi altri nell’innocenza della sua vita o nel rigore della sua penitenza, o nell’abbondanza delle sue limosine, o nel fervore delle sue preghiere […].
Per me, Signore, tutta la mia confidenza sta riposta in voi solo.
Né questa confidenza ingannò mai alcuno […].
Posso dunque star sicuro che sarò eternamente felice, perché spero fermamente d’esserlo e perché è voi, o mio Dio, siete quello da cui lo spero».
San Claudio scrisse una nota nel gennaio del 1677, preceduta da alcune righe che si riferiscono alla certezza che sentiva circa la propria missione: «Ho saputo che Dio ha voluto che lo servissi cercando di realizzare i suoi desideri riguardo alla devozione che Egli ha suggerito a una persona a cui si comunica in modo confidenziale, e a favore della quale ha voluto servirsi della mia debolezza; già l’ho ispirata a parecchie persone».
È importante notare come, nella spiritualità di La Colombière, ci sia una felice sintesi tra la ricca e bella esperienza spirituale di Santa Margherita e la contemplazione molto concreta degli Esercizi ignaziani.
Egli scriveva all’inizio della Terza Settimana del mese di Esercizi: «Due cose mi hanno commosso straordinariamente.
La prima è la disposizione con cui Gesù si è presentato a coloro che lo cercavano.
Il suo Cuore è immerso in un’orribile amarezza; tutte le passioni sono sciolte dentro di Lui, l’intera natura è sconcertata, e attraverso tutti questi disordini, tutte queste tentazioni, il Cuore si rivolge direttamente a Dio; non esita a prendere la parte suggeritagli dalla virtù e dalla più alta virtù.
La seconda cosa è il comportamento di questo stesso Cuore nei confronti di Giuda che lo tradisce, degli apostoli che lo abbandonano vigliaccamente, dei sacerdoti e degli altri autori della persecuzione a cui è sottoposto; tutto ciò non è stato in grado di suscitare in Lui il minimo sentimento di odio o di indignazione.
Mi rappresento, dunque, quel Cuore senza amarezza, senza acrimonia, pieno di vera tenerezza verso i suoi nemici».
San Charles de Foucauld e Santa Teresa di Gesù Bambino
San Charles de Foucauld e Santa Teresa di Gesù Bambino, senza averne la pretesa, hanno rimodellato alcuni elementi della devozione al Cuore di Cristo, aiutandoci a comprenderla in modo ancora più fedele al Vangelo.
Vediamo ora come questa devozione si è espressa nella loro vita.
Nel prossimo capitolo torneremo su di loro per mostrare l’originalità della dimensione missionaria che entrambi, in modi diversi, hanno sviluppato.
Iesus Caritas
A Louye, San Charles de Foucauld faceva visita al Santissimo Sacramento con sua cugina, Madame de Bondy, e un giorno lei gli indicò un’immagine del Sacro Cuore.
[122] Questa cugina è stata fondamentale nella conversione di Carlo, come egli stesso riconosce: «Giacché il buon Dio vi ha reso il primo strumento delle sue misericordie nei miei confronti, esse discendono tutte da voi: se voi non mi aveste convertito, ricondotto a Gesù, se non mi aveste insegnato a poco a poco, quasi parola per parola, ciò che è buono e pio, sarei oggi a questo punto?».
[123] Ma ciò che ella ha risvegliato in lui è proprio l’ardente consapevolezza dell’amore di Gesù.
Era tutto lì, questa era la cosa più importante.
E questo si concentrava particolarmente nella devozione al Cuore di Cristo, dove egli trovava una misericordia senza limiti: «Speriamo nella misericordia infinita di Colui del quale mi avete fatto conoscere il Sacro Cuore».
In seguito il suo direttore spirituale, Don Henri Huvelin, lo aiuterà ad approfondire tale prezioso mistero: «Questo Cuore benedetto di cui Lei ci parlava così spesso».
[125] Il 6 giugno 1889, Carlo si consacrò al Sacro Cuore, nel quale trovava un amore assoluto.
Egli dice a Cristo: «Mi avete talmente colmato di benefici che mi sembrerebbe essere ingrati verso il vostro cuore non credere che esso è pronto a colmarmi di ogni bene, per quanto grande esso sia, e che il suo amore come la sua generosità sono senza misura».
[126] Egli sarà l’eremita «sotto il nome del Sacro Cuore».
Il 17 maggio 1906, lo stesso giorno in cui fratel Carlo, da solo, non può più celebrare la Messa, scrive questa promessa: «Lasciar vivere in me il Cuore di Gesù affinché non sia più io che vivo, ma il Cuore di Gesù che vive in me, com’Egli viveva a Nazaret».
[128] La sua amicizia con Gesù, cuore a cuore, non aveva nulla di un devozionismo intimistico.
Era la radice di quella vita spogliata di Nazaret con cui Carlo voleva imitare Cristo e configurarsi a Lui.
Quella tenera devozione al Cuore di Cristo ebbe conseguenze molto concrete sul suo stile di vita e la sua Nazaret si nutriva di tale relazione molto personale con il Cuore di Cristo.
Santa Teresa di Gesù Bambino
Come San Charles de Foucauld, Santa Teresa di Gesù Bambino respirò l’enorme devozione che inondava la Francia nel XIX secolo.
Il sacerdote Almire Pichon era il direttore spirituale della sua famiglia ed era considerato un grande apostolo del Sacro Cuore.
Una delle sue sorelle prese il nome religioso di “Maria del Sacro Cuore”, e il monastero in cui la Santa entrò era dedicato al Sacro Cuore.
Tuttavia, la sua devozione assunse alcune caratteristiche proprie, al di là delle forme in cui si esprimeva all’epoca.
Quando aveva quindici anni, trovò un modo per riassumere il suo rapporto con Gesù: «Colui il cui cuore batteva all’unisono col mio».
[129] Due anni dopo, quando le parlavano di un Cuore coronato di spine, aggiungeva in una lettera: «Tu lo sai: io non guardo al Sacro Cuore come tutti; penso che il cuore del mio sposo è solo mio, così come il mio appartiene solo a lui, e allora nella solitudine gli parlo di questo delizioso cuore a cuore, aspettando di contemplarlo un giorno faccia a faccia».
In una poesia ella ha espresso il senso della sua devozione, fatta più di amicizia e fiducia che di sicurezza nei propri sacrifici:
«Un cuore caldo di tenerezza cerco,
che sostegno mi sia senza ricambio,
che tutto di me, debolezza inclusa,
ami e giorno e notte non m’abbandoni [...].
Io voglio un Dio che con la mia natura
mi sia fratello e soffrire possa [...].
Ben lo so tutte le giustizie nostre
non han valore alcuno agli occhi suoi [...].
Per purgatorio mio scelgo felice
l’Amore tuo ardente, Cuore del mio Dio!».
Forse il testo più importante per poter comprendere il significato della sua devozione al Cuore di Cristo è la lettera che scrisse, tre mesi prima di morire, all’amico Maurice Bellière: «Quando vedo Maddalena avanzarsi in mezzo ai numerosi convitati, bagnare con le sue lacrime i piedi del suo Maestro adorato, che lei tocca per la prima volta, sento che il suo cuore ha compreso gli abissi d’amore e di misericordia del Cuore di Gesù e che, per quanto peccatrice sia, questo Cuore d’amore non solo è disposto a perdonarla, ma anche a prodigarle i benefici della sua intimità divina, ad elevarla fino alle più alte cime della contemplazione.
Ah, caro piccolo Fratello mio, da quando mi è stato dato di capire così l’amore del Cuore di Gesù, le confesso che esso ha scacciato dal mio cuore ogni timore.
Il ricordo delle mie colpe mi umilia, mi induce a non appoggiarmi mai sulla mia forza che non è che debolezza; ma ancor più questo ricordo mi parla di misericordia e di amore».
Le menti moralistiche, che pretendono di controllare la misericordia e la grazia, direbbero che ella poteva dire questo perché era santa, ma che un peccatore non potrebbe dirlo.
Così facendo, tralasciano della spiritualità di Teresa la sua bella novità che riflette il cuore del Vangelo.
Purtroppo, è diventato frequente in alcuni ambienti cristiani questo intento di rinchiudere lo Spirito Santo in uno schema che permetta di avere tutto sotto la propria supervisione.
Tuttavia, questa saggia Dottore della Chiesa li smentisce e contraddice direttamente tale interpretazione riduttiva con le seguenti parole molto chiare: «Se avessi commesso tutti i crimini possibili, avrei sempre la stessa fiducia, sento che tutta questa moltitudine di offese sarebbe come una goccia d’acqua gettata in un braciere ardente».
A suor Maria, che la lodava per il suo generoso amore a Dio, disposto anche al martirio, risponde ampiamente in una lettera che oggi è una delle pietre miliari della storia della spiritualità.
Questa pagina andrebbe letta mille volte per la sua profondità, chiarezza e bellezza.
In essa aiuta la sorella “del Sacro Cuore” a non concentrare tale devozione su un aspetto doloristico, giacché alcuni intendevano la riparazione come una sorta di primato dei sacrifici o di adempimento moralistico.
Lei, invece, riassume tutto nella fiducia come la migliore offerta, gradita al Cuore di Cristo: «I miei desideri di martirio non sono nulla; non sono quei desideri che mi danno la fiducia illimitata che sento nel cuore.
A dire il vero, sono le ricchezze spirituali che rendono ingiusti quando ci si riposa in esse con compiacenza e si crede che siano qualcosa di grande.
[…] Ciò che gli piace è di vedermi amare la mia piccolezza e la mia povertà, è la cieca speranza che ho nella sua misericordia! Ecco il mio solo tesoro.
[…] Se lei desidera sentire gioia, essere attratta dalla sofferenza, lei cerca la sua consolazione.
[…] Comprenda che, per amare Gesù, per essere sua vittima d’amore, più si è deboli, senza desideri né virtù, più si è adatti alle operazioni di questo Amore che consuma e trasforma! […] Oh, come vorrei poterle far capire quel che sento! È la fiducia e null’altro che la fiducia che deve condurci all’Amore!».
In molti dei suoi testi si nota la sua lotta contro forme di spiritualità troppo incentrate sullo sforzo umano, sul merito proprio, sull’offerta di sacrifici, su determinati adempimenti per “guadagnarsi il cielo”.
Per lei, «il merito non consiste nel fare né nel donare molto, ma piuttosto nel ricevere».
[135]Leggiamo ancora una volta alcuni dei testi molto significativi nei quali insiste su questa via, che è un modo semplice e veloce di conquistare il Signore attraverso il cuore.
Così scrive alla sorella Leonia: «Ti assicuro che il buon Dio è assai migliore di quanto tu creda: si accontenta di uno sguardo, di un sospiro d’amore.
Quanto a me, trovo molto facile praticare la perfezione, perché ho capito che non c’è che da prendere Gesù per il cuore! Guarda un bambino, che ha appena recato dispiacere a sua madre.
[…] Se le tenderà le braccine sorridendo e dicendo: “Abbracciami, non ricomincerò più”, potrà forse sua madre non stringerselo al cuore con tenerezza e dimenticare le sue mancanze infantili? Tuttavia ella sa bene che il suo caro piccino ricomincerà alla prossima occasione, ma questo non importa: se egli la prende ancora per il cuore, non sarà mai punito».
In una lettera al padre Adolphe Roulland dice: «La mia via è una via tutta di fiducia e d’amore; io non capisco le anime che hanno paura di un così tenero Amico.
Talvolta, quando leggo certi trattati spirituali, nei quali la perfezione è presentata attraverso mille ostacoli, circondata da una folla di illusioni, il mio povero spirito si stanca molto presto; chiudo il dotto libro, che mi rompe la testa e mi inaridisce il cuore, e prendo la Sacra Scrittura.
Allora tutto mi appare luminoso: una sola parola svela alla mia anima orizzonti infiniti; la perfezione mi appare facile; vedo che basta conoscere il proprio niente e abbandonarsi come un bambino nelle braccia del buon Dio».
E rivolgendosi al Rev.do Maurice Bellière, a proposito di un genitore osserva: «Non credo che il cuore di quel padre felice possa resistere alla fiducia filiale di suo figlio, del quale conosce la sincerità e l’amore.
Tuttavia non ignora che più d’una volta suo figlio ricadrà negli stessi errori, ma è disposto a perdonarlo sempre, se suo figlio lo prenderà sempre dalla parte del cuore».
Risonanze nella Compagnia di Gesù
Abbiamo visto come San Claudio de La Colombière collegasse l’esperienza spirituale di Santa Margherita con la proposta degli Esercizi Spirituali.
Ritengo che il posto del Sacro Cuore nella storia della Compagnia di Gesù meriti un breve cenno.
La spiritualità della Compagnia di Gesù ha sempre proposto una “conoscenza interiore del Signore per meglio amarlo e seguirlo”.
[139] Sant’Ignazio ci invita, nei suoi Esercizi Spirituali, a metterci davanti al Vangelo che ci dice che «il costato [di Gesù] fu ferito con la lancia e venne fuori acqua e sangue».
[140] Quando l’esercitante si trova davanti al costato ferito di Cristo, Ignazio gli propone di entrare nel Cuore di Cristo.
Questa è una via per maturare il proprio cuore per mano di un “maestro degli affetti”, secondo l’espressione usata da San Pietro Favre in una delle sue lettere a Sant’Ignazio.
[141]Anche Padre Juan Alfonso de Polanco ne parla nella sua biografia di Sant’Ignazio: «[il Cardinale Contarini] riconosceva di aver trovato in Padre Ignazio un maestro degli affetti».
[142] I colloqui che Sant’Ignazio propone sono una parte essenziale di questa educazione del cuore, perché sentiamo e gustiamo con il cuore un messaggio del Vangelo e ne conversiamo con il Signore.
Sant’Ignazio dice che possiamo comunicare le nostre cose al Signore e chiedergli consiglio riguardo ad esse.
Qualsiasi esercitante può riconoscere che negli Esercizi c’è un dialogo da cuore a cuore.
Sant’Ignazio termina le contemplazioni ai piedi del Crocifisso invitando l’esercitante a rivolgersi con grande affetto al Signore crocifisso e a chiedergli, «come un amico parla all’altro amico, o un servo al suo signore», cosa debba fare per Lui.
[143] L’itinerario degli Esercizi culmina nella “Contemplazione per raggiungere l’amore”, da cui scaturisce il ringraziamento e l’offerta di “memoria, intelletto e volontà” al Cuore che è fonte e origine di ogni bene.
[144] Tale conoscenza interiore del Signore non si costruisce con le nostre capacità e i nostri sforzi, si chiede come dono.
Questa stessa esperienza è alla base di una lunga catena di sacerdoti gesuiti che hanno fatto esplicito riferimento al Cuore di Gesù, come San Francesco Borgia, San Pietro Favre, Sant’Alonso Rodriguez, Padre Álvarez de Paz, Padre Vincenzo Carafa, Padre Kasper Drużbicki e tanti altri.
Nel 1883 i Gesuiti dichiararono che «la Compagnia di Gesù accetta e riceve con spirito traboccante di gioia e di gratitudine, il dolcissimo fardello affidatole da nostro Signore Gesù Cristo di praticare, promuovere e propagare la devozione al suo divinissimo Cuore».
[145] Nel dicembre 1871, Padre Pieter Jan Beckx consacrò la Compagnia al Sacro Cuore di Gesù e, a testimonianza del fatto che continua a essere un elemento attuale della vita della Compagnia, Padre Pedro Arrupe lo fece nuovamente nel 1972, con una convinzione che si esprime in queste parole: «Voglio dire alla Compagnia qualcosa che ritengo di non dover tacere.
Fin dal mio noviziato, sono stato sempre convinto che quella che chiamiamo “Devozione al Sacro Cuore” racchiuda un’espressione simbolica del nucleo più profondo dello spirito ignaziano, e una straordinaria efficacia – ultra quam speraverint – tanto per la perfezione propria come per la fecondità apostolica.
La stessa convinzione conservo ancora.
[...] In questa devozione trovo una delle sorgenti più intime della mia vita interiore».
Quando San Giovanni Paolo II invitò «tutti i membri della Compagnia a promuovere con maggior zelo ancora tale devozione che risponde più che mai alle attese dei nostri tempi», lo fece perché riconosceva gli intimi legami tra la devozione al Cuore di Cristo e la spiritualità ignaziana, poiché «il desiderio di “conoscere intimamente il Signore” e di “mantenere un dialogo” con Lui, cuore a cuore, è caratteristico, grazie agli Esercizi Spirituali, del dinamismo spirituale e apostolico ignaziano, totalmente al servizio dell’amore del Cuore di Dio».
Una lunga corrente di vita interiore
La devozione al Cuore di Cristo riappare nel cammino spirituale di molti santi molto diversi tra loro e in ognuno di essi tale devozione assume aspetti nuovi.
San Vincenzo de’ Paoli, per fare un esempio, diceva che ciò che Dio vuole è il cuore: «Dio chiede prima di tutto il cuore, il cuore: questa è la cosa principale.
Perché chi non possiede nulla può aver più merito di chi ha grandi possessi ai quali rinunzia? Perché chi non ha nulla va a Lui con più affetto; ed è questo che Dio vuole in modo tutto particolare».
[148] Ciò comporta di accettare che il proprio cuore si unisca a quello di Cristo: «Una suora che fa tutto quello che può per disporre il suo cuore a stare unito a quello di Nostro Signore […] quali benedizioni non riceverà da Dio!».
A volte siamo tentati di considerare questo mistero d’amore come un fatto ammirevole del passato, come una bella spiritualità di altri tempi, e dobbiamo ricordare sempre di nuovo, come diceva un santo missionario, che «Questo Cuore divino che tollerò d’essere squarciato da una lancia nemica per poter effondere da quella sacra apertura i Sacramenti, onde s’è formata la Chiesa, non ha altrimenti finito di amare».
[150] Altri santi più recenti, come San Pio da Pietrelcina, Santa Teresa di Calcutta e molti altri, parlano con sentita devozione del Cuore di Cristo.
Ma vorrei anche ricordare le esperienze di Santa Faustina Kowalska, che ripropongono la devozione al Cuore di Cristo con un forte accento sulla vita gloriosa del Risorto e sulla misericordia divina.
Infatti, motivato da queste esperienze della santa e attingendo dall’eredità spirituale lasciata dal Vescovo San Józef Sebastian Pelczar (1842-1924), [151] San Giovanni Paolo II ha collegato intimamente la sua riflessione sulla misericordia con la devozione al Cuore di Cristo: «La Chiesa sembra professare in modo particolare la misericordia di Dio e venerarla rivolgendosi al Cuore di Cristo.
Infatti, proprio l’accostarci a Cristo nel mistero del suo Cuore ci consente di soffermarci su questo punto […] della rivelazione dell’amore misericordioso del Padre, che ha costituito il contenuto centrale della missione messianica del Figlio dell’Uomo».
[152] Lo stesso San Giovanni Paolo II, riferendosi al Sacro Cuore, ha riconosciuto in modo molto personale: «Mi ha parlato fin dall’età giovanile».
L’attualità della devozione al Cuore di Cristo è particolarmente evidente nell’opera evangelizzatrice ed educativa di numerose congregazioni religiose femminili e maschili che sono state segnate fin dalle loro origini da questa esperienza spirituale cristologica.
Citarle tutte sarebbe un’impresa interminabile.
Vediamo solo due esempi presi a caso: «Il Fondatore [S.
Daniele Comboni] trovò nel mistero del Cuore di Gesù la forza per il suo impegno missionario».
[154] «Spinte dall’amore del Cuore di Gesù, cerchiamo di far crescere le persone nella loro dignità umana e come figli e figlie di Dio, sulla base del Vangelo e delle sue richieste di amore, di perdono, di giustizia e di solidarietà con i poveri e gli emarginati».
[155] Allo stesso modo, i Santuari consacrati al Cuore di Cristo, sparsi per il mondo, sono una fonte attraente di spiritualità e fervore.
A tutti coloro che in qualche modo partecipano a questi luoghi di fede e di carità rivolgo la mia paterna benedizione.
La devozione della consolazione
La ferita del costato, da cui sgorga l’acqua viva, rimane aperta nel Risorto.
Questa grande ferita prodotta dalla lancia e le piaghe della corona di spine, che spesso appaiono nelle rappresentazioni del Sacro Cuore, sono inseparabili da questa devozione.
In essa, infatti, contempliamo l’amore di Gesù che è stato capace di donarsi fino alla fine.
Il cuore del Risorto conserva questi segni della totale donazione di sé che ha comportato un’intensa sofferenza per noi.
È quindi in qualche modo inevitabile che il credente desideri rispondere non solo a questo grande amore, ma anche al dolore che Cristo ha accettato di sopportare per tanto amore.
Vale la pena di recuperare questa espressione dell’esperienza spirituale sviluppata attorno al Cuore di Cristo: il desiderio interiore di dargli consolazione.
Non tratterò ora della pratica della “riparazione”, che considero meglio collocata nel contesto della dimensione sociale di questa devozione e che svilupperò nel prossimo capitolo.
Ora vorrei concentrarmi soltanto su quel desiderio che spesso affiora nel cuore del credente innamorato quando contempla il mistero della Passione di Cristo e lo vive come un mistero che non solo viene ricordato, ma che per grazia si rende presente, o meglio, ci porta a essere misticamente presenti a quel momento redentivo.
Se l’Amato è il più importante, come allora non volerlo consolare?
Papa Pio XI cercò di dare fondamento a questa esperienza invitandoci a riconoscere che il mistero della Redenzione attraverso la Passione di Cristo oltrepassa, per la grazia di Dio, tutte le distanze di tempo e di spazio, così che se Egli sulla Croce si è donato anche per i peccati futuri, i nostri peccati, allo stesso modo i nostri atti offerti oggi per la sua consolazione, superando i tempi, hanno raggiunto il suo Cuore ferito: «Se a causa anche dei nostri peccati futuri, ma previsti, l’anima di Gesù divenne triste sino alla morte, non è a dubitare che qualche conforto non abbia anche fin da allora provato per la previsione della nostra riparazione, quando a lui “apparve l’Angelo dal cielo” ( Lc 22,43) per consolare il suo cuore oppresso dalla tristezza e dalle angosce.
E così anche ora in modo mirabile ma vero, noi possiamo e dobbiamo consolare quel Cuore Sacratissimo che viene continuamente ferito dai peccati degli uomini ingrati».
Può sembrare che questa espressione di devozione non abbia un sufficiente supporto teologico, ma in realtà il cuore ha le sue ragioni.
Il sensus fidelium intuisce che qui c’è qualcosa di misterioso che va oltre la nostra logica umana, e che la Passione di Cristo non è un mero fatto del passato: ad essa possiamo partecipare per la fede.
Meditare il dono di sé di Cristo sulla croce è, per la pietà dei fedeli, qualcosa di più grande di un semplice ricordo.
Tale convinzione è solidamente fondata nella teologia.
[157] A questo si aggiunge la consapevolezza del proprio peccato, che Egli ha portato sulle sue spalle ferite, e della propria inadeguatezza di fronte a tanto amore, che sempre ci supera infinitamente.
In ogni caso, ci chiediamo come sia possibile relazionarsi con il Cristo vivo, risorto, pienamente felice e, allo stesso tempo, consolarlo nella Passione.
Consideriamo il fatto che il Cuore risorto conserva la sua ferita come una memoria costante e che l’azione della grazia provoca un’esperienza che non è interamente contenuta nell’istante cronologico.
Queste due convinzioni ci permettono di ammettere che siamo di fronte a un percorso mistico che supera i tentativi della ragione ed esprime ciò che la stessa Parola di Dio ci suggerisce.
«Ma – scrive il Papa Pio XI – come potrà dirsi che Cristo regni beato nel Cielo se può essere consolato da questi atti di riparazione? “Da’ un’anima che ami e comprenderà quello che dico” ( In Ioannis evangelium, XXVI, 4), rispondiamo con le parole di Agostino, che fanno proprio al nostro proposito.
Ogni anima, infatti, veramente infiammata nell’amore di Dio, se con la considerazione si volge al tempo passato, meditando vede e contempla Gesù sofferente per l’uomo, afflitto, in mezzo ai più gravi dolori, “per noi uomini e per la nostra salvezza”, dalla tristezza, dalle angosce e dagli obbrobri quasi oppresso, anzi “schiacciato dai nostri delitti” ( Is 53,5), e in atto di risanarci con i suoi lividi.
Con tanta maggior verità le anime pie meditano queste cose, in quanto i peccati e i delitti degli uomini, in qualsiasi tempo commessi, furono la causa per la quale il Figlio di Dio fosse dato a morte».
Questo insegnamento di Pio XI va tenuto presente.
Infatti, quando la Scrittura afferma che i credenti che non vivono secondo la loro fede «per quanto sta in loro, […] crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio» (Eb 6,6), o che quando sopporto sofferenze per gli altri «do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne» (Col 1,24), o che Cristo nella sua Passione ha pregato non solo per i suoi discepoli di allora, ma «per quelli che crederanno in me mediante la loro parola» (Gv 17,20), sta dicendo qualcosa che rompe i nostri schemi limitati.
Ci mostra che non è possibile stabilire un prima e un dopo senza alcun legame, anche se il nostro pensiero non sa come spiegarlo.
Il Vangelo, nei suoi vari aspetti, non è solo da riflettere o da ricordare, ma da vivere, sia nelle opere d’amore che nell’esperienza interiore, e questo vale soprattutto per il mistero della morte e della risurrezione di Cristo.
Le separazioni temporali che la nostra mente utilizza non sembrano contenere la verità di questa esperienza credente in cui si fondono l’unione con Cristo sofferente e al tempo stesso la forza, la consolazione e l’amicizia che godiamo con il Risorto.
Vediamo allora l’unità del Mistero Pasquale, nei suoi due aspetti inseparabili che si illuminano a vicenda.
Questo unico Mistero, che si rende presente per la grazia nelle sue due dimensioni, fa sì che mentre cerchiamo di offrire qualcosa a Cristo per la sua consolazione, le nostre stesse sofferenze vengono illuminate e trasfigurate dalla luce pasquale dell’amore.
Ciò che accade è che partecipiamo a tale Mistero nella nostra vita concreta, perché in precedenza Cristo stesso ha voluto partecipare alla nostra vita, ha voluto vivere anticipatamente come capo ciò che avrebbe vissuto il suo corpo ecclesiale, tanto nelle ferite quanto nelle consolazioni.
Quando viviamo in grazia di Dio, questa mutua partecipazione diventa un’esperienza spirituale.
In definitiva, è il Risorto che, attraverso l’azione della sua grazia, rende possibile che ci uniamo misteriosamente alla sua Passione.
Lo sanno i cuori credenti che vivono la gioia della risurrezione, ma allo stesso tempo desiderano partecipare al destino del loro Signore.
Sono disposti a questa partecipazione con le sofferenze, le stanchezze, le delusioni e le paure che fanno parte della loro vita.
Non vivono tale Mistero in solitudine, perché queste ferite sono ugualmente una partecipazione al destino del corpo mistico di Cristo che cammina nel popolo santo di Dio e che porta in sé il destino di Cristo in ogni tempo e luogo della storia.
La devozione della consolazione non è astorica o astratta, si fa carne e sangue nel cammino della Chiesa.
L’insopprimibile desiderio di consolare Cristo, che parte dal dolore di contemplare ciò che Egli ha sofferto per noi, si nutre anche del riconoscimento sincero delle nostre schiavitù, degli attaccamenti, della mancanza di gioia nella fede, delle vane ricerche e, al di là dei peccati concreti, della mancata corrispondenza del cuore al suo amore e al suo progetto.
È un’esperienza che ci purifica, perché l’amore ha bisogno della purificazione delle lacrime che alla fine ci lasciano più assetati di Dio e meno ossessionati da noi stessi.
Vediamo così che quanto più profondo diventa il desiderio di consolare il Signore, tanto più si approfondisce la compunzione del cuore credente, che «non è un senso di colpa che ci butta a terra, non è uno scrupolo che paralizza, ma è un pungolo benefico che brucia dentro e guarisce, perché il cuore, quando vede il proprio male e si riconosce peccatore, si apre, accoglie l’azione dello Spirito Santo, acqua viva che lo scuote e fa scorrere le lacrime sul suo volto [...].
Non si tratta di commiserarsi, come spesso siamo tentati di fare.
[...] Avere lacrime di compunzione, invece, significa pentirsi seriamente di aver rattristato Dio con il peccato; significa riconoscere che siamo sempre in debito e mai in credito [...].
Come una goccia scava una pietra, così le lacrime scavano lentamente i cuori induriti.
In questo modo assistiamo al miracolo della tristezza, della buona tristezza che porta alla dolcezza [...].
La compunzione non è frutto del nostro lavoro, ma è una grazia e come tale va chiesta nella preghiera».
[159] È chiedere «dolore con Cristo abbandonato, tormento con Cristo tormentato, lacrime, intima pena per la grande pena che Cristo soffrì per me».
Chiedo, quindi, che nessuno si faccia beffe delle espressioni di fervore credente del santo popolo fedele di Dio, che nella sua pietà popolare cerca di consolare Cristo.
E invito ciascuno a chiedersi se non ci sia più razionalità, più verità e più saggezza in certe manifestazioni di questo amore che cerca di consolare il Signore che non nei freddi, distanti, calcolati e minimi atti d’amore di cui siamo capaci noi che pretendiamo di possedere una fede più riflessiva, coltivata e matura.
In questa contemplazione del Cuore di Cristo donatosi fino all’estremo noi veniamo consolati.
Il dolore che sentiamo nel cuore lascia il posto a una fiducia totale, e alla fine ciò che rimane è gratitudine, tenerezza, pace; rimane il suo amore che regna nella nostra vita.
La compunzione «non provoca angoscia, ma alleggerisce l’anima dai pesi, perché agisce nella ferita del peccato, disponendoci a ricevere proprio lì la carezza del Signore».
[161] E la nostra sofferenza si unisce a quella di Cristo sulla croce, perché quando diciamo che la grazia ci permette di superare tutte le distanze, ciò significa anche che Cristo, quando soffriva, si univa a tutte le sofferenze dei suoi discepoli nel corso della storia.
Così, se soffriamo, possiamo provare la consolazione interiore di sapere che Cristo stesso soffre con noi.
Desiderosi di consolarlo, ne usciamo consolati.
Ma a un certo punto di questa contemplazione del cuore credente, deve risuonare quel drammatico appello del Signore: «Consolate, consolate il mio popolo» (Is 40,1).
E ci tornano alla mente le parole di San Paolo, che ci ricorda che Dio ci consola «perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio» (2 Cor 1,4).
Questo ci invita ora a cercare di approfondire la dimensione comunitaria, sociale e missionaria di ogni autentica devozione al Cuore di Cristo.
Infatti, nello stesso momento in cui il Cuore di Cristo ci conduce al Padre, ci invia ai fratelli.
Nei frutti di servizio, fraternità e missione che il Cuore di Cristo produce attraverso di noi, si compie la volontà del Padre.
In tal modo il cerchio si chiude: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto» (Gv 15,8).
V.
Nelle esperienze spirituali di Santa Margherita Maria, insieme all’ardente dichiarazione d’amore di Gesù, troviamo anche una risonanza interiore che chiama a dare la vita.
Sapere di essere amati e riporre tutta la nostra fiducia in questo amore non significa annullare tutte le nostre capacità di donazione, non implica di rinunciare all’insopprimibile desiderio di dare qualche risposta con le nostre piccole e limitate capacità.
Un lamento e una richiesta
A partire dalla seconda grande manifestazione a Santa Margherita, Gesù esprime il dolore perché il suo grande amore per gli uomini «non riceveva in cambio che ingratitudini e indifferenza», «freddezze e ripulse».
«Questo – dice il Signore – mi fa soffrire più di tutto ciò che ho patito nella mia Passione».
Gesù parla della sua sete di essere amato, mostrandoci che il suo Cuore non è indifferente alla nostra reazione al suo desiderio: «Ho sete, una sete tanto ardente di essere amato dagli uomini nel Santissimo Sacramento che mi consuma.
Eppure non trovo nessuno che, secondo il mio desiderio, tenti di dissetarmi corrispondendo al mio amore».
[163] La richiesta di Gesù è l’amore.
Quando il cuore credente lo scopre, la risposta che scaturisce spontaneamente non è un’onerosa ricerca di sacrifici o il mero adempimento di un pesante dovere, ma è una questione d’amore: «Ricevetti dal mio Dio grazie straordinarie del suo Amore; mi sentii spinta dal desiderio di ricambiarlo e di rendergli amore per amore».
[164] Così insegna Leone XIII, scrivendo che, mediante l’immagine del Sacro Cuore, la carità di Cristo «ci spinge a ricambiare amore per amore».
Prolungare il suo amore nei fratelli
Dobbiamo tornare alla Parola di Dio per riconoscere che la migliore risposta all’amore del suo Cuore è l’amore per i fratelli; non c’è gesto più grande che possiamo offrirgli per ricambiare amore per amore.
La Parola di Dio lo dice con totale chiarezza:
«Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
«Tutta la Legge trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Gal 5,14).
«Sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli.
Chi non ama rimane nella morte» (1 Gv 3,14).
«Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20).
L’amore per i fratelli non si fabbrica, non è il risultato di un nostro sforzo naturale, ma richiede una trasformazione del nostro cuore egoista.
Nasce allora spontaneamente la ben nota supplica: “Gesù, rendi il nostro cuore simile al tuo”.
Per questo stesso motivo, l’invito di San Paolo non era: “Sforzatevi di fare opere buone”.
Il suo invito era precisamente: «Abbiate tra voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5).
È bene ricordare che nell’Impero romano molti poveri, forestieri e tante altre persone scartate trovavano nei cristiani rispetto, affetto e cura.
Questo spiega il ragionamento dell’imperatore apostata Giuliano, che si chiedeva perché i cristiani fossero così rispettati e seguiti, e riteneva che una delle ragioni fosse il loro impegno di assistere i poveri e i forestieri, visto che l’Impero li ignorava e li disprezzava.
Per questo imperatore era intollerabile che i suoi poveri non ricevessero aiuto da parte sua, mentre gli odiati cristiani «sfamano i loro, e pure i nostri».
[166] In una lettera si sofferma soprattutto sull’ordine di creare istituzioni di beneficenza per competere con i cristiani e attirare il rispetto della società: «Apri in tutte le città numerosi alloggi, affinché gli stranieri possano godere della nostra umanità.
[...] Abitua gli Elleni alle opere di beneficienza».
[167] Ma egli non raggiunse il suo obiettivo, sicuramente perché dietro tali opere non c’era l’amore cristiano, che permetteva di riconoscere ad ogni persona una dignità unica.
Identificandosi con i più piccoli della società (cfr Mt 25,31-46) «Gesù ha portato la grande novità del riconoscimento della dignità di ogni persona, ed anche e soprattutto di quelle persone che erano qualificate come “indegne”.
Questo principio nuovo nella storia umana, per cui l’essere umano è tanto più “degno” di rispetto e di amore quanto più è debole, misero e sofferente, fino a perdere la stessa “figura” umana, ha cambiato il volto del mondo, dando vita a istituzioni che si prendono cura delle persone che si trovano in condizioni disagiate: i neonati abbandonati, gli orfani, gli anziani lasciati soli, i malati mentali, le persone affette da malattie incurabili o con gravi malformazioni, coloro che vivono per strada».
Anche dal punto di vista della ferita del suo Cuore, guardare al Signore, che «ha preso su di sé le nostre infermità e si è caricato delle nostre malattie» ( Mt 8,17), ci aiuta a prestare maggiore attenzione alle sofferenze e ai bisogni degli altri, ci rende forti per partecipare alla sua opera di liberazione, come strumenti per la diffusione del suo amore.
[169] Se contempliamo il dono di sé che Cristo ha fatto per tutti, diventa inevitabile chiederci perché non siamo capaci di dare la vita per gli altri: «In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» ( 1 Gv 3,16).
Alcune risonanze nella storia della spiritualità
Questa unione tra la devozione al Cuore di Gesù e l’impegno verso i fratelli attraversa la storia della spiritualità cristiana.
Vediamo alcuni esempi.
Essere una fonte per gli altri
A partire da Origene, diversi Padri della Chiesa hanno interpretato il testo di Giovanni 7,38 – «dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva» – come riferito al credente stesso, sebbene sia la conseguenza del fatto che egli stesso ha bevuto da Cristo.
Così l’unione con Cristo mira non solo a saziare la propria sete bensì a farci diventare una fonte di acqua fresca per gli altri.
Origene diceva che Cristo realizza la sua promessa facendo sgorgare da noi torrenti d’acqua: «L’anima dell’essere umano, che è a immagine di Dio, può contenere in sé e produrre da sé pozzi, sorgenti e fiumi».
Sant’Ambrogio raccomandava di bere da Cristo «affinché abbondi in te la sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna».
[171] E Mario Vittorino sosteneva che lo Spirito Santo si dona con tale abbondanza che «chi lo riceve diventa un grembo che riversa fiumi di acqua viva».
[172] Sant’Agostino diceva che questo fiume che sgorga dal credente è la benevolenza.
[173] San Tommaso d’Aquino ha ribadito questa idea sostenendo che quando qualcuno «si affretta a comunicare agli altri i vari doni della grazia che ha ricevuto da Dio, dal suo seno sgorga acqua viva».
Infatti, se «il sacrificio della Croce, offerto con animo amante e obbediente, presenta una soddisfazione sovrabbondante e infinita per le colpe del genere umano», [175] la Chiesa, che nasce dal Cuore di Cristo, prolunga e comunica in ogni tempo e in ogni luogo gli effetti dell’unica Passione redentrice, che orientano le persone all’unione diretta con il Signore.
Nel seno della Chiesa, la mediazione di Maria, interceditrice e madre, può essere compresa solo «come partecipazione a questa unica fonte che è la mediazione di Cristo stesso», [176] l’unico Redentore, e «la Chiesa non dubita di riconoscere questa funzione subordinata a Maria».
[177] La devozione al cuore di Maria, infatti, non vuole togliere nulla all’adorazione unica dovuta al Cuore di Cristo, ma stimolarla: «La funzione materna di Maria verso gli uomini in nessun modo oscura o diminuisce questa unica mediazione di Cristo, ma ne mostra l’efficacia».
[178] Grazie all’immensa sorgente che sgorga dal costato aperto di Cristo, la Chiesa, Maria e tutti i credenti, in modi diversi, diventano canali di acqua viva.
In questo modo Cristo stesso dispiega la sua gloria nella nostra piccolezza.
San Bernardo, mentre invitava all’unione con il Cuore di Cristo, utilizzava la ricchezza di questa devozione per proporre un cambiamento di vita fondato sull’amore.
Egli riteneva che fosse possibile una trasformazione dell’affettività, resa schiava dai piaceri, che non si libera con la cieca obbedienza a un comando, ma in una risposta alla dolcezza dell’amore di Cristo.
Il male si supera con il bene, il male si vince con la crescita dell’amore: «Ama dunque il Signore Dio tuo con tutto l’affetto del cuore, amalo con tutta l’attenzione e la cura della ragione, amalo poi con tutte le tue forze; non aver timore di morire per amor suo […].
Il Signore Gesù sia dolce e soave al tuo affetto, contro gli allettamenti piacevoli ma rovinosi della vita carnale; la dolcezza vinca la dolcezza, come chiodo scaccia chiodo».
San Francesco di Sales si lasciava illuminare soprattutto dalla richiesta di Gesù: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» ( Mt 11,29).
In questo modo, diceva, nelle cose più semplici e ordinarie rubiamo il cuore al Signore: «Sarà contento di noi solo se avremo cura di servirlo bene nelle cose importanti e di rilievo come nelle piccole e insignificanti; sia con le une che con le altre, possiamo rapirgli il cuore […].
I piccoli gesti quotidiani di carità, un mal di testa, un mal di denti, un lieve malessere, una stranezza del marito o della moglie, un vaso rotto, un dispetto, una smorfia, la perdita di un guanto, di un anello, di un fazzoletto; quel piccolo sforzo per andare a letto presto la sera e alzarsi al mattino di buon’ora per pregare, per fare la comunione; quella piccola vergogna che si prova a fare in pubblico un atto di devozione; a farla breve, tutte le piccole contrarietà accettate e abbracciate con amore fanno infinitamente piacere alla Bontà divina».
[180] Ma, in definitiva, la chiave della nostra risposta all’amore del Cuore di Cristo è l’amore per il prossimo: «un amore stabile, costante, immutabile, che, non soffermandosi sulle inezie, né sulle qualità o sulle condizioni delle persone, non è soggetto a cambiamenti o ad antipatie.
[...] Nostro Signore ci ama senza interruzione, sopporta i nostri difetti come le nostre imperfezioni; dobbiamo quindi fare lo stesso nei confronti dei nostri fratelli, senza mai stancarci di sopportarli».
San Charles de Foucauld voleva imitare Gesù, vivere come Lui, agire come Lui agiva, fare sempre ciò che Gesù avrebbe fatto al suo posto.
Per realizzare pienamente questo obiettivo, aveva bisogno di conformarsi ai sentimenti del Cuore di Cristo.
Così compare ancora una volta l’espressione “amore per amore”, quando dice: «Desiderio di sofferenze per rendergli amore per amore; […] per partecipare al suo compito offrirmi con lui, nonostante il nulla che sono, come sacrificio, come vittima, per la santificazione degli uomini».
[182] Il desiderio di portare l’amore di Gesù, il suo impegno missionario tra i più poveri e dimenticati della terra, lo condusse ad assumere come motto Iesus Caritas, con il simbolo del Cuore di Cristo sormontato da una croce.
[183] Non è stata una decisione superficiale: «Con tutte le mie forze cerco di mostrare, di provare a questi poveri fratelli sviati che la nostra religione è tutta carità, tutta fraternità, che il suo emblema è un Cuore».
[184] Ed il suo desiderio era di stabilirsi con altri fratelli «in Marocco nel nome del Cuore di Gesù».
[185] In tal modo la loro opera evangelizzatrice sarebbe stata un’irradiazione: «La carità deve irradiare dalle fraternità, come irradia dal cuore di Gesù».
[186] Questo desiderio lo ha reso a poco a poco un fratello universale, perché, lasciandosi plasmare dal Cuore di Cristo, voleva ospitare nel suo cuore fraterno tutta l’umanità sofferente: «Il nostro cuore, come quello della Chiesa, come quello di Gesù, deve abbracciare tutti gli uomini».
[187] «L’amore del Cuore di Gesù per gli uomini, questo amore che Egli manifesta nella sua Passione, ecco quello che dobbiamo avere per tutti gli esseri umani».
Don Huvelin, direttore spirituale di San Charles de Foucauld, diceva che «quando nostro Signore vive in un cuore, gli dà questi sentimenti, e questo cuore si abbassa verso i piccoli.
Tale era la disposizione del cuore di un Vincenzo de’ Paoli.
[...] Quando nostro Signore vive nell’anima di un sacerdote lo inclina verso i poveri».
[189] È importante notare come questa dedizione di San Vincenzo, che Don Huvelin descrive, fosse pure alimentata dalla devozione al Cuore di Cristo.
Vincenzo esortava ad attingere “al cuore di Nostro Signore qualche parola di consolazione per il povero malato”.
[190] Perché questo si realizzi, è necessario che il proprio cuore sia stato trasformato dall’amore e dalla mitezza del Cuore di Cristo, e San Vincenzo ripeteva molto questa convinzione nelle sue prediche e nei suoi consigli, tanto da farla diventare un elemento di spicco delle Costituzioni della sua Congregazione: «Tutti porranno anche il massimo impegno nell’imparare questa lezione insegnataci da Gesù: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore”; tenendo conto che, come dice Egli stesso, con la mitezza si possiede la terra, perché con la pratica di questa virtù si guadagnano i cuori degli uomini per convertirli a Dio, ciò che non possono ottenere quanti si comportano con il prossimo in maniera dura e aspra».
La riparazione: costruire sulle rovine
Tutto questo ci permette di comprendere, alla luce della Parola di Dio, quale significato dobbiamo dare alla “riparazione” offerta al Cuore di Cristo, che cosa il Signore si aspetta veramente che noi ripariamo con l’aiuto della sua grazia.
Si è discusso molto a tale riguardo, ma San Giovanni Paolo II ha offerto una risposta chiara per orientare noi cristiani di oggi verso uno spirito di riparazione più in sintonia con il Vangelo.
Significato sociale della riparazione al Cuore di Cristo
San Giovanni Paolo II ha spiegato che, offrendoci insieme al Cuore di Cristo, «sulle rovine accumulate dall’odio e dalla violenza, potrà essere costruita la civiltà dell’amore tanto desiderato, il regno del cuore di Cristo»; questo implica certamente che siamo in grado di «unire all’amore filiale verso Dio l’amore del prossimo»; ebbene, «questa è la vera riparazione chiesta dal Cuore del Salvatore».
[192] Insieme a Cristo, sulle rovine che noi lasciamo in questo mondo con il nostro peccato, siamo chiamati a costruire una nuova civiltà dell’amore.
Questo vuol dire riparare come il Cuore di Cristo si aspetta da noi.
In mezzo al disastro lasciato dal male, il Cuore di Cristo ha voluto avere bisogno della nostra collaborazione per ricostruire il bene e la bellezza.
È certo che ogni peccato danneggia la Chiesa e la società, per cui «a ciascun peccato si può attribuire […] il carattere di peccato sociale», anche se questo vale soprattutto per alcuni peccati che «costituiscono, per il loro oggetto stesso, un’aggressione diretta al prossimo».
[193] San Giovanni Paolo II ha spiegato che la ripetizione di questi peccati contro gli altri finisce molte volte per consolidare una “struttura di peccato” che influisce sullo sviluppo dei popoli.
[194] Ciò fa spesso parte di una mentalità dominante che considera normale o razionale quello che in realtà è solo egoismo e indifferenza.
Tale fenomeno si può definire alienazione sociale: «È alienata la società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo, rende più difficile la realizzazione di questo dono ed il costituirsi di questa solidarietà interumana».
[195] Non è solo una norma morale ciò che ci spinge a resistere a queste strutture sociali alienate, a metterle a nudo e a propiziare un dinamismo sociale che ripristini e costruisca il bene, ma è la stessa «conversione del cuore» che «impone l’obbligo» [196] di riparare tali strutture.
È la nostra risposta al Cuore amante di Gesù Cristo che ci insegna ad amare.
Proprio perché la riparazione evangelica possiede questo forte significato sociale, i nostri atti di amore, di servizio, di riconciliazione, per essere effettivamente riparatori, richiedono che Cristo li solleciti, li motivi, li renda possibili.
Diceva ancora San Giovanni Paolo II che per costruire la civiltà dell’amore l’umanità di oggi ha bisogno del Cuore di Cristo.
[197] La riparazione cristiana non può essere intesa solo come un insieme di opere esteriori, che pure sono indispensabili e talvolta ammirevoli.
Essa esige una spiritualità, un’anima, un senso che le conferiscano forza, slancio e creatività instancabile.
Ha bisogno della vita, del fuoco e della luce che vengono dal Cuore di Cristo.
Del resto, una riparazione meramente esteriore non basta né al mondo né al Cuore di Cristo.
Se ognuno pensa ai propri peccati e alle loro conseguenze sugli altri, scoprirà che riparare il danno fatto a questo mondo implica anche il desiderio di riparare i cuori feriti, dove si è procurato il danno più profondo, la ferita più dolorosa.
Uno spirito di riparazione «ci invita a sperare che ogni ferita possa essere guarita, anche se è profonda.
Una riparazione completa a volte sembra impossibile, quando beni o persone care vengono persi definitivamente o quando certe situazioni sono diventate irreversibili.
Ma l’intenzione di riparare e di farlo concretamente è essenziale per il processo di riconciliazione e il ritorno della pace nel cuore».
La bellezza di chiedere perdono
La buona intenzione non basta; è indispensabile un dinamismo interiore di desiderio che provochi conseguenze esterne.
In sostanza, «la riparazione, per essere cristiana, per toccare il cuore della persona offesa e non essere un semplice atto di giustizia commutativa, presuppone due atteggiamenti impegnativi: riconoscersi colpevole e chiedere perdono.
[...] È da questo onesto riconoscimento del male arrecato al fratello, e dal sentimento profondo e sincero che l’amore è stato ferito, che nasce il desiderio di riparare».
Non si deve pensare che riconoscere il proprio peccato davanti agli altri sia qualcosa di degradante o dannoso per la nostra dignità umana.
Al contrario, è smettere di mentire a sé stessi, è riconoscere la propria storia così com’è, segnata dal peccato, soprattutto quando abbiamo fatto del male ai nostri fratelli: «Accusare sé stessi fa parte della saggezza cristiana.
[...] Questo piace al Signore, perché il Signore accoglie il cuore contrito».
Fa parte di questo spirito di riparazione l’abitudine di chiedere perdono ai fratelli, che rappresenta una grande nobiltà in mezzo alla nostra fragilità.
Chiedere perdono è un modo di guarire le relazioni perché «riapre il dialogo e manifesta la volontà di ristabilire il legame nella carità fraterna.
[...] Tocca il cuore del fratello, lo consola e suscita in lui l’accoglienza del perdono richiesto».
Così, «se l’irreparabile non può essere completamente riparato, l’amore può sempre rinascere, rendendo sopportabile la ferita».
Un cuore capace di compunzione può crescere nella fraternità e nella solidarietà, perché «chi non piange regredisce, invecchia dentro, mentre chi raggiunge una preghiera più semplice e intima, fatta di adorazione e commozione davanti a Dio, quello matura.
Si lega sempre meno a sé stesso e più a Cristo, e diventa povero in spirito.
In tal modo si sente più vicino ai poveri, i prediletti di Dio».
[202] Di conseguenza, nasce un autentico spirito di riparazione, perché «chi si compunge nel cuore si sente più fratello di tutti i peccatori del mondo, si sente più fratello, senza parvenza di superiorità o asprezza di giudizio, ma sempre con il desiderio di amare e riparare».
[203] Questa solidarietà generata dalla compunzione rende allo stesso tempo possibile la riconciliazione.
La persona capace di compunzione, «anziché adirarsi e scandalizzarsi per il male commesso dai fratelli, piange per i loro peccati.
Non si scandalizza.
Avviene una sorta di ribaltamento, dove la tendenza naturale a essere indulgenti con sé stessi e inflessibili con gli altri si capovolge e, per grazia di Dio, si diventa fermi con sé stessi e misericordiosi con gli altri».
La riparazione: un prolungamento per il Cuore di Cristo
C’è un altro modo complementare di intendere la riparazione, che ci permette di collocarla in un rapporto ancora più diretto con il Cuore di Cristo, senza escludere da questa riparazione l’impegno concreto verso i nostri fratelli e sorelle di cui abbiamo parlato.
In un altro contesto ho affermato che «in qualche modo, Egli [Dio] ha voluto limitare sé stesso» e «molte cose che noi consideriamo mali, pericoli o fonti di sofferenza, fanno parte in realtà dei dolori del parto, che ci stimolano a collaborare con il Creatore».
[205] La nostra collaborazione può permettere alla potenza e all’amore di Dio di diffondersi nella nostra vita e nel mondo, mentre il rifiuto o l’indifferenza possono impedirlo.
Alcune espressioni bibliche lo esprimono metaforicamente, come quando il Signore reclama: «Se vuoi davvero ritornare, Israele, a me dovrai ritornare» ( Ger 4,1).
O quando dice, di fronte al rifiuto del suo popolo: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» ( Os 11,8).
Benché non sia possibile parlare di una nuova sofferenza del Cristo glorioso, «il Mistero pasquale di Cristo […] e tutto ciò che Cristo è, tutto ciò che ha compiuto e sofferto per tutti gli uomini, partecipa dell’eternità divina e perciò abbraccia tutti i tempi e in essi è reso presente».
[206] Possiamo invece dire che Egli stesso ha accettato di limitare la gloria espansiva della sua risurrezione, di contenere la diffusione del suo immenso e ardente amore per lasciare spazio alla nostra libera cooperazione con il suo Cuore.
Questo è tanto reale che il nostro rifiuto lo ferma in tale impulso di donazione, così come la nostra fiducia e l’offerta di noi stessi apre uno spazio, offre un canale libero da ostacoli all’effusione del suo amore.
Il nostro rifiuto o la nostra indifferenza limitano gli effetti della sua potenza e la fecondità del suo amore in noi.
Se non trova in me fiducia e apertura, il suo amore viene privato – perché Lui stesso così ha voluto – del suo prolungamento nella mia vita, che è unica e irripetibile, e nel mondo in cui mi chiama a renderlo presente.
Ciò non deriva da una sua fragilità, ma dalla sua infinita libertà, dalla sua paradossale potenza e dalla perfezione del suo amore per ciascuno di noi.
Quando l’onnipotenza di Dio si mostra nella debolezza della nostra libertà, «soltanto la fede può riconoscerla».
Infatti, Santa Margherita Maria racconta che, in una delle manifestazioni di Cristo, Egli le parlò del suo Cuore appassionato d’amore per noi, che «non potendo più contenere in sé stesso le fiamme del suo ardente Amore, sente il bisogno di diffonderle».
[208] Dal momento che il Signore, che tutto può, nella sua divina libertà ha voluto avere bisogno di noi, la riparazione si intende come rimuovere gli ostacoli che poniamo all’espansione dell’amore di Cristo nel mondo con le nostre mancanze di fiducia, gratitudine e dedizione.
Per riflettere meglio su questo mistero, ci viene nuovamente in aiuto la luminosa spiritualità di Santa Teresa di Gesù Bambino.
Ella sapeva che alcune persone avevano sviluppato una forma estrema di riparazione, con la buona volontà di donarsi per gli altri, che consisteva nell’offrirsi come una sorta di “parafulmine” affinché si realizzasse la giustizia divina: «Pensavo alle anime che si offrono come vittime alla Giustizia di Dio allo scopo di stornare e di attirare su di sé i castighi riservati ai colpevoli».
[209] Ma, per quanto ammirevole potesse sembrare tale offerta, lei non ne era troppo convinta: «Io ero lontana dal sentirmi portata a farla».
[210] Questa insistenza sulla giustizia divina alla fine induceva a pensare che il sacrificio di Cristo fosse incompleto o parzialmente efficace, o che la sua misericordia non fosse sufficientemente intensa.
Con la sua intuizione spirituale Santa Teresa ha scoperto che c’è un altro modo di offrire sé stessi, in cui non è necessario saziare la giustizia divina, ma permettere all’amore infinito del Signore di diffondersi senza ostacoli: «O mio Dio! Il tuo amore disprezzato deve restare nel tuo Cuore? Mi sembra che se tu trovassi anime che si offrono come Vittime di olocausto al tuo Amore, tu le consumeresti rapidamente; mi sembra che saresti felice di non comprimere affatto i torrenti di infinite tenerezze che sono in te».
Non c’è nulla da aggiungere all’unico sacrificio redentore di Cristo, ma è vero che il rifiuto della nostra libertà non permette al Cuore di Cristo di dilatare in questo mondo le sue “ondate di infinita tenerezza”.
Ed è così perché il Signore stesso vuole rispettare tale possibilità.
È questo, più che la giustizia divina, a turbare il cuore di Santa Teresa di Gesù Bambino, poiché per lei la giustizia si comprende solo alla luce dell’amore.
Abbiamo visto che ella adorava tutte le perfezioni divine attraverso la misericordia, e così le vedeva trasfigurate, raggianti d’amore.
Diceva: «Perfino la Giustizia (e forse anche più di ogni altra) mi sembra rivestita d’amore».
Nasce così il suo atto di offerta, non alla giustizia divina, ma all’Amore misericordioso: «Mi offro come vittima d’olocausto al tuo Amore misericordioso, supplicandoti di consumarmi senza posa, lasciando traboccare nella mia anima le onde di infinita tenerezza che sono racchiuse in te, così che io diventi Martire del tuo Amore, o mio Dio!».
[213] È importante notare che non si tratta solo di permettere al Cuore di Cristo di diffondere la bellezza del suo amore nel nostro cuore, attraverso una fiducia totale, ma anche che attraverso la propria vita raggiunga gli altri e trasformi il mondo: «Nel Cuore della Chiesa, mia Madre, sarò l’Amore! [...] Così il mio sogno sarà realizzato».
[214] I due aspetti sono inseparabilmente uniti.
Il Signore ha accettato la sua offerta.
Infatti, qualche tempo dopo lei stessa manifestò un amore intenso per gli altri e affermò che proveniva dal Cuore di Cristo che si prolungava attraverso di lei.
Così diceva a sua sorella Leonia: «Ti amo mille volte più teneramente di quanto si amino le sorelle comuni, poiché posso amarti con il Cuore del nostro Sposo celeste».
[215] E qualche tempo dopo disse a Maurice Bellière: «Come vorrei farle comprendere la tenerezza del Cuore di Gesù, ciò che si aspetta da lei!».
Sorelle e fratelli, propongo che sviluppiamo questa forma di riparazione, che è, in ultima analisi, offrire al Cuore di Cristo una nuova possibilità di diffondere in questo mondo le fiamme della sua ardente tenerezza.
Se è vero che la riparazione implica il desiderio di risarcire gli oltraggi in qualsiasi modo recati all’Amore increato, per dimenticanza o per offesa, [217] il modo più appropriato è che il nostro amore offra al Signore una possibilità di espandersi in cambio di quelle volte in cui è stato rifiutato o negato.
Questo avviene se si va oltre la semplice “consolazione” a Cristo di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, e si traduce in atti di amore fraterno con cui curiamo le ferite della Chiesa e del mondo.
In tal modo offriamo nuove espressioni alla forza restauratrice del Cuore di Cristo.
Le rinunce e le sofferenze richieste da questi atti d’amore per il prossimo ci uniscono alla passione di Cristo, e soffrendo con Cristo in «quella mistica crocifissione di cui parla l’Apostolo, tanto più copiosi frutti di propiziazione e di espiazione raccoglieremo per noi e per gli altri».
[218] Solo Cristo salva con il suo sacrificio sulla croce per noi, solo Lui redime, perché c’è «un solo Dio e un solo mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti» ( 1 Tm 2,5-6).
La riparazione che offriamo è una partecipazione liberamente accettata al suo amore redentore e al suo unico sacrificio.
Così diamo compimento «a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella [nostra] carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» ( Col 1,24), ed è Cristo stesso che prolunga attraverso di noi gli effetti della sua totale donazione per amore.
Le sofferenze hanno spesso a che fare con il nostro ego ferito, ma è proprio l’umiltà del Cuore di Cristo che ci mostra la via dell’abbassamento.
Dio ha voluto venire a noi annientandosi, facendosi piccolo.
Già lo insegna l’Antico Testamento attraverso varie metafore che mostrano un Dio che entra nelle piccolezze della storia e si lascia rifiutare dal suo popolo.
Il suo amore si mescola alla vita quotidiana del popolo amato e si fa mendicante di una risposta, come se chiedesse il permesso di mostrare la sua gloria.
D’altra parte, «forse una sola volta, con parole sue, il Signore Gesù si è richiamato al proprio cuore.
E ha messo in evidenza questo unico tratto: “mitezza e umiltà”.
Come se volesse dire che solo con questa via vuole conquistare l’uomo».
[219] Quando Cristo ha detto: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» ( Mt 11,29) ci ha indicato che «per esprimersi ha bisogno della nostra piccolezza, del nostro abbassarci».
In ciò che abbiamo detto è importante notare diversi aspetti inseparabili, perché queste azioni di amore verso il prossimo, con tutte le rinunce, le abnegazioni, le sofferenze e le fatiche che comportano, compiono tale funzione quando sono alimentate dalla carità di Cristo stesso.
Egli ci permette di amare come Lui ha amato e così Egli stesso ama e serve attraverso di noi.
Se da un lato sembra rimpicciolirsi, annientarsi, perché ha voluto mostrare il suo amore mediante i nostri gesti, dall’altro, nelle più semplici opere di misericordia, il suo Cuore viene glorificato e manifesta tutta la sua grandezza.
Un cuore umano che fa spazio all’amore di Cristo attraverso la fiducia totale e gli permette di espandersi nella propria vita con il suo fuoco, diventa capace di amare gli altri come Cristo, facendosi piccolo e vicino a tutti.
Così Cristo sazia la propria sete e diffonde gloriosamente in noi e attraverso di noi le fiamme della sua tenerezza ardente.
Notiamo la bella armonia che c’è in tutto questo.
Infine, per comprendere questa devozione in tutta la sua ricchezza, è necessario aggiungere, riprendendo quanto detto sulla sua dimensione trinitaria, che la riparazione di Cristo come essere umano si offre al Padre mediante l’opera dello Spirito Santo in noi.
Pertanto, la nostra riparazione al Cuore di Cristo è rivolta in ultima analisi al Padre, che si compiace di vederci uniti a Cristo quando ci offriamo attraverso di Lui, con Lui e in Lui.
La proposta cristiana è attraente quando può essere vissuta e manifestata integralmente: non come semplice rifugio in sentimenti religiosi o in riti sfarzosi.
Che culto sarebbe per Cristo se ci accontentassimo di un rapporto individuale senza interesse per aiutare gli altri a soffrire meno e a vivere meglio? Potrà forse piacere al Cuore che ha tanto amato se rimaniamo in un’esperienza religiosa intima, senza conseguenze fraterne e sociali? Siamo onesti e leggiamo la Parola di Dio nella sua interezza.
Ma per questo stesso motivo diciamo che non si tratta nemmeno di una promozione sociale priva di significato religioso, che alla fine sarebbe volere per l’uomo meno di quello che Dio vuole dargli.
Ecco perché dobbiamo concludere questo capitolo ricordando la dimensione missionaria del nostro amore per il Cuore di Cristo.
San Giovanni Paolo II, oltre a parlare della dimensione sociale della devozione al Cuore di Cristo, ha fatto riferimento alla «riparazione, che è cooperazione apostolica alla salvezza del mondo».
[221] Allo stesso modo, la consacrazione al Cuore di Cristo «è da accostare all’azione missionaria della Chiesa stessa, perché risponde al desiderio del Cuore di Gesù di propagare nel mondo, attraverso le membra del suo Corpo, la sua dedizione totale al Regno».
[222] Di conseguenza, attraverso i cristiani, «l’amore sarà riversato nei cuori degli uomini, perché si edifichi il corpo di Cristo che è la Chiesa e si costruisca anche una società di giustizia, pace e fratellanza».
Il prolungamento delle fiamme d’amore del Cuore di Cristo avviene anche nell’opera missionaria della Chiesa, che porta l’annuncio dell’amore di Dio manifestato in Cristo.
San Vincenzo de’ Paoli lo insegnava molto bene quando invitava i suoi discepoli a chiedere al Signore «questo cuore, questo cuore che ci faccia andare dovunque, questo cuore del Figlio di Dio, cuore di Nostro Signore, […] che ci disponga ad andare, come egli andrebbe […] ed invia anche noi come loro [gli apostoli] a portare dovunque il fuoco».
San Paolo VI, rivolgendosi alle Congregazioni che diffondono la devozione al Sacro Cuore, ricordava che «non vi è dubbio che l’impegno pastorale e lo zelo missionario arderanno in maniera vivissima, se, sacerdoti e fedeli, al fine di propagare la gloria di Dio, contempleranno l’esempio dell’amore eterno che Cristo ci ha mostrato, e rivolgeranno i loro sforzi per rendere partecipi tutti gli uomini delle imperscrutabili ricchezze di Cristo».
[225] Alla luce del Sacro Cuore, la missione diventa una questione d’amore, e il rischio più grande in questa missione è che si dicano e si facciano molte cose, ma non si riesca a provocare il felice incontro con l’amore di Cristo che abbraccia e che salva.
La missione, intesa nella prospettiva di irradiare l’amore del Cuore di Cristo, richiede missionari innamorati, che si lascino ancora conquistare da Cristo e che non possano fare a meno di trasmettere questo amore che ha cambiato la loro vita.
Perciò li addolora perdere tempo a discutere di questioni secondarie o a imporre verità e regole, perché la loro preoccupazione principale è comunicare quello che vivono e, soprattutto, che gli altri possano percepire la bontà e la bellezza dell’Amato attraverso i loro poveri sforzi.
Non è ciò che accade a qualsiasi innamorato? Vale la pena di prendere ad esempio le parole con cui Dante Alighieri, innamorato, cercava di esprimere questa logica:
«Io dico che pensando il suo valore
Amor sì dolce mi si fa sentire,
che s’io allora non perdessi ardire,
farei parlando innamorar la gente».
Parlare di Cristo, con la testimonianza o la parola, in modo tale che gli altri non debbano fare un grande sforzo per amarlo, questo è il desiderio più grande di un missionario dell’anima.
Non c’è proselitismo in questa dinamica d’amore: le parole dell’innamorato non disturbano, non impongono, non forzano, solamente portano gli altri a chiedersi come sia possibile un tale amore.
Con il massimo rispetto per la libertà e la dignità dell’altro, l’innamorato semplicemente spera che gli sia permesso di raccontare questa amicizia che riempie la sua vita.
Cristo ti chiede, senza venir meno alla prudenza e al rispetto, di non vergognarti di riconoscere la tua amicizia con Lui.
Ti chiede di avere il coraggio di raccontare agli altri che è un bene per te averlo incontrato: «Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,32).
Ma per il cuore innamorato non è un obbligo, è una necessità difficile da contenere: «Guai a me se non annuncio il Vangelo» (1 Cor 9,16).
«Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (Ger 20,9).
Non si deve pensare a questa missione di comunicare Cristo come se fosse solo una cosa tra me e Lui.
La si vive in comunione con la propria comunità e con la Chiesa.
Se ci allontaniamo dalla comunità, ci allontaneremo anche da Gesù.
Se la dimentichiamo e non ci preoccupiamo per essa, la nostra amicizia con Gesù si raffredderà.
Non va mai dimenticato questo segreto.
L’amore per i fratelli della propria comunità – religiosa, parrocchiale, diocesana – è come un carburante che alimenta la nostra amicizia con Gesù.
Gli atti d’amore verso i fratelli di comunità possono essere il modo migliore, o talvolta l’unico possibile, di esprimere agli altri l’amore di Gesù Cristo.
L’ha detto il Signore stesso: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).
È un amore che diventa servizio comunitario.
Non mi stanco di ricordare che Gesù l’ha detto con grande chiarezza: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
Egli ti propone di trovarlo anche lì, in ogni fratello e in ogni sorella, soprattutto nei più poveri, disprezzati e abbandonati della società.
Che bell’incontro!
Pertanto, se ci dedichiamo ad aiutare qualcuno, non significa che ci dimentichiamo di Gesù.
Al contrario, lo troviamo in un altro modo.
E quando cerchiamo di sollevare e guarire qualcuno, Gesù è lì accanto a noi.
Infatti, è bene ricordare che quando mandò i suoi discepoli in missione «il Signore agiva insieme con loro» (Mc 16,20).
Egli è lì, lavora, lotta e fa del bene con noi.
In modo misterioso, è il suo amore che si manifesta attraverso il nostro servizio, è Lui stesso che parla al mondo in quel linguaggio che a volte non può avere parole.
Egli ti manda a diffondere il bene e ti spinge da dentro.
Per questo ti chiama con una vocazione di servizio: farai del bene come medico, come madre, come insegnante, come sacerdote.
Ovunque tu sia, potrai sentire che Lui ti chiama e ti manda a vivere questa missione sulla terra.
Egli stesso ci dice: «Vi mando» (Lc 10,3).
Questo fa parte dell’amicizia con Lui.
Perciò, affinché tale amicizia maturi, bisogna che ti lasci mandare da Lui a compiere una missione in questo mondo, con fiducia, con generosità, con libertà, senza paure.
Se ti chiudi nelle tue comodità, questo non ti darà sicurezza, i timori, le tristezze, le angosce appariranno sempre.
Chi non compie la propria missione su questa terra non può essere felice, è frustrato.
Quindi è meglio che ti lasci inviare, che ti lasci condurre da Lui dove vuole.
Non dimenticare che Lui ti accompagna.
Non ti getta nell’abisso e ti lascia abbandonato alle tue forze.
Lui ti spinge e ti accompagna.
L’ha promesso e lo fa: «Io sono con voi tutti i giorni» (Mt 28,20).
In qualche modo devi essere missionario, missionaria, come lo furono gli apostoli di Gesù e i primi discepoli, che andarono ad annunciare l’amore di Dio, andarono a raccontare che Cristo è vivo e vale la pena di conoscerlo.
Santa Teresa di Gesù Bambino lo viveva come elemento imprescindibile della sua offerta all’Amore misericordioso: «Volevo dar da bere al mio Amato e io stessa mi sentivo divorata dalla sete delle anime».
[227] Questa è anche la tua missione.
Ognuno la compie a modo suo, e tu vedrai come potrai essere missionario, missionaria.
Gesù lo merita.
Se ne avrai il coraggio, Lui ti illuminerà.
Ti accompagnerà e ti rafforzerà, e vivrai un’esperienza preziosa che ti farà molto bene.
Non importa se riuscirai a vedere dei risultati, questo lascialo al Signore che lavora nel segreto dei cuori, ma non smettere di vivere la gioia di cercare di comunicare l’amore di Cristo agli altri.
Ciò che questo documento esprime ci permette di scoprire che quanto è scritto nelle Encicliche sociali Laudato si’ e Fratelli tutti non è estraneo al nostro incontro con l’amore di Gesù Cristo, perché, abbeverandoci a questo amore, diventiamo capaci di tessere legami fraterni, di riconoscere la dignità di ogni essere umano e di prenderci cura insieme della nostra casa comune.
Oggi tutto si compra e si paga, e sembra che il senso stesso della dignità dipenda da cose che si ottengono con il potere del denaro.
Siamo spinti solo ad accumulare, consumare e distrarci, imprigionati da un sistema degradante che non ci permette di guardare oltre i nostri bisogni immediati e meschini.
L’amore di Cristo è fuori da questo ingranaggio perverso e Lui solo può liberarci da questa febbre in cui non c’è più spazio per un amore gratuito.
Egli è in grado di dare un cuore a questa terra e di reinventare l’amore laddove pensiamo che la capacità di amare sia morta per sempre.
Ne ha bisogno anche la Chiesa, per non sostituire l’amore di Cristo con strutture caduche, ossessioni di altri tempi, adorazione della propria mentalità, fanatismi di ogni genere che finiscono per prendere il posto dell’amore gratuito di Dio che libera, vivifica, fa gioire il cuore e nutre le comunità.
Dalla ferita del costato di Cristo continua a sgorgare quel fiume che non si esaurisce mai, che non passa, che si offre sempre di nuovo a chi vuole amare.
Solo il suo amore renderà possibile una nuova umanità.
Prego il Signore Gesù che dal suo Cuore santo scorrano per tutti noi fiumi di acqua viva per guarire le ferite che ci infliggiamo, per rafforzare la nostra capacità di amare e servire, per spingerci a imparare a camminare insieme verso un mondo giusto, solidale e fraterno.
Questo fino a quando celebreremo felicemente uniti il banchetto del Regno celeste.
Lì ci sarà Cristo risorto, che armonizzerà tutte le nostre differenze con la luce che sgorga incessantemente dal suo Cuore aperto.
Che sia sempre benedetto!
Dato a Roma, presso San Pietro, il 24 ottobre dell’anno 2024, dodicesimo di Pontificato.
Francesco
[1] Buona parte delle riflessioni di questo primo capitolo si sono lasciate ispirare da scritti inediti del Padre Diego Fares, S.I.
Il Signore lo abbia nella sua santa gloria.
[2] Cfr Omero, Iliade, 21, 441.
[3] Cfr ivi, 10, 244.
[4] Cfr Timeo 65 c-d; 70.
[5] Omelia nella Messa mattutina nella Domus Sanctae Marthae, 14 ottobre 2016: L’Osservatore Romano, 15 ottobre 2016, p.
8.
[6]S.
Giovanni Paolo II, Angelus, 2 luglio 2000: L’Osservatore Romano, 3-4 luglio 2000, p.
4.
[7] Id., Catechesi, 8 giugno 1994: L’Osservatore Romano, 9 giugno 1994, p.
5.
[8] I demoni (1873).
[9] Romano Guardini, Il mondo religioso di Dostojevskij, Brescia 1980, 236.
[10] Karl Rahner, Alcune tesi per una teologia della devozione al cuore di Gesù, in Teologia del Cuore di Cristo, Roma 1995, 60.
[11] Ivi, 61.
[12] Byung-Chul Han, Heideggers Herz.
Zum Begriff der Stimmung bei Martin Heidegger, München 1996, 39.
[13] Ivi, 60; cfr 176.
[14] Cfr Id., Eros in agonia, Milano 2019.
[15] Cfr Martin Heidegger, La poesia di Hölderlin, Milano 1988, 144.
[16] Cfr Michel de Certeau, Lo spazio del desiderio.
Gli «Esercizi spirituali» di Loyola, in Il parlare angelico: figure per una poetica della lingua.
Secoli XVI e XVII, Firenze 1989, 95-110.
[17] Itinerarium mentis in Deum, VII, 6: San Bonaventura, Itinerario della mente in Dio.
Riconduzione delle Arti alla Teologia, Roma 1995, 93.
[18] Id., Proemium in I Sent., q.
3: Opera Omnia, Quaracchi 1882, vol.
1, 13.
[19] S.
John Henry Newman, Meditazioni e Preghiere, Milano 2002, 106.
[20] Cost.
past.
Gaudium et spes, 82.
[23] Cfr Dicastero per la Dottrina della Fede, Dich.
Dignitas infinita (2 aprile 2024), 8.
Cfr L’Osservatore Romano, 8 aprile 2024.
[24] Cost.
past.
Gaudium et spes, 26.
[25] S.
Giovanni Paolo II, Angelus, 28 giugno 1998: L’Osservatore Romano, 30 giugno-1 luglio 1998, p.
7.
[26] Lett.
enc.
Laudato si’ (24 maggio 2015), 83: AAS (2015), 880.
[27] Omelia nella Messa mattutina nella Domus Sanctae Marthae, 7 giugno 2013: L’Osservatore Romano, 8 giugno 2013, p.
8.
[28] Pio XII, Lett.
enc.
Haurietis Aquas (15 maggio 1956), I: AAS 48 (1956), 316.
[29] Pio VI, Cost.
Auctorem fidei (28 agosto 1794), 63: DH, 2663.
[30] Leone XIII, Lett.
enc.
Annum Sacrum (25 maggio 1899): ASS 31 (1898-99), 649.
[31] Ibid.: «Inest in Sacro Corde symbolum atque expressa imago infinitae Iesu Christi caritatis».
[32] Angelus, 9 giugno 2013: L’Osservatore Romano, 10-11 giugno 2013, p.
8.
[33] Si comprende così perché la Chiesa abbia proibito che si collochino sull’altare raffigurazioni del solo cuore di Gesù o di Maria (cfr Risposta della Congregazione dei Riti al Rev.
Charles Lecoq, P.S.S., 5 aprile 1879: Decreta authentica Congregationis Sacrorum Rituum ex actis ejusdem collecta, vol.
III, 107-108, n.
3492).
Fuori dalla Liturgia, «per la devozione privata» ( ibid.), si può utilizzare il simbolismo del cuore come espressione didattica, figura estetica o emblema che invita a pensare all’amore di Cristo, ma si corre il rischio di prendere il cuore come oggetto di adorazione o di dialogo spirituale separatamente dalla persona di Cristo.
Il 31 marzo 1887 la Congregazione diede un’altra risposta simile ( ivi, 187, n.
3673).
[34] Conc.
Ecum.
di Trento, Sess.
XXV, Decr.
Mandat Sancta Synodus (3 dicembre 1563): DH, 1823.
[35] V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, Documento di Aparecida (29 giugno 2007), n.
259.
[36] Lett.
enc.
Haurietis Aquas (15 maggio 1956), I: AAS 48 (1956), 323-324.
[37] Ep.
261, 3: PG 32, 972.
[38] In Io. homil.
63, 2: PG 59, 350.
[39] De fide ad Gratianum, II, 7, 56: PL 16, 594 (ed.
1880).
[40] Enarr.
in Ps. 87, 3: PL 37, 1111.
[41] Cfr De fide orth. 3, 6.20: PG 94, 1006.1081.
[42] Olegario González de Cardedal, La entraña del cristianismo, Salamanca 2010, 70-71.
[43] Angelus, 1 giugno 2008: L’Osservatore Romano, 2-3 giugno 2008, p.
1.
[44] Pio XII, Lett.
enc.
Haurietis Aquas (15 maggio 1956), II: AAS 48 (1956), 327-328.
[45] Ivi, 28: AAS 48 (1956), 343-344.
[46] Benedetto XVI, Angelus, 1 giugno 2008: L’Osservatore Romano, 2-3 giugno 2008, p.
1.
[47] Vigilio, Cost.
Inter innumeras sollicitudines (14 maggio 553): DH, 420.
[48] Conc.
Ecum.
di Efeso , Anatemi di Cirillo di Alessandria, 8: DH, 259.
[49] Conc.
Ecum.
II di Costantinopoli, Sess.
VIII (2 giugno 553), Can.
9: DH, 431.
[50] S.
Giovanni della Croce, Cantico spirituale A, Strofa 22, 4: Opere, Roma 1979, 919.
[51] Ivi, Strofa 12, 8: Opere, cit., 881.
[52] Ivi, Strofa 12,1: 878.
[53] «Per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui» ( 1 Cor 8,6).
«Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli.
Amen» ( Fil 4,20).
«Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione» ( 2 Cor 1,3).
[54] Lett.
ap.
Tertio millennio adveniente (10 novembre 1994), 49: AAS 87 (1995), 35.
[55] Ad Rom., 7: PG 5, 694.
[56] «Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre» ( Gv 14,31).
«Io e il Padre siamo una cosa sola» ( Gv 10,30).
«Io sono nel Padre e il Padre è in me» ( Gv 14,10).
[57] «Vado al Padre» ( pros ton Patéra: Gv 16,28).
«Io vengo a te» ( pros se: Gv 17,11).
[58] « Eis ton kolpon tou Patrós».
[59] Adv.
Haer., III, 18, 1: PG 7, 932.
[60] In Joh., II, 2: PG 14, 110.
[61] Angelus, 23 giugno 2002: L’Osservatore Romano, 24-25 giugno 2002, p.
1.
[62] S.
Giovanni Paolo II, Messaggio nel centenario della consacrazione del genere umano al Cuore divino di Gesù, Varsavia, 11 giugno 1999, Solennità del Sacro Cuore di Gesù: L’Osservatore Romano, 12 giugno 1999, p.
5.
[63] Id., Angelus, 8 giugno 1986, 4: L’Osservatore Romano, 9-10 giugno 1986, p.
5.
[64] Omelia, Visita al Policlinico Gemelli e alla Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, 27 giugno 2014: L’Osservatore Romano, 29 giugno 2014, p.
7.
[65] Ef 1,5.7; 2,18; 3,12.
[66] Ef 2,5.6; 4,15.
[67] Ef 1,3.4.6.7.11.13.15; 2,10.13.21.22; 3,6.11.21.
[68] Messaggio nel centenario della consacrazione del genere umano al Cuore divino di Gesù, Varsavia, 11 giugno 1999, Solennità del Sacro Cuore di Gesù: L’Osservatore Romano, 12 giugno 1999, p.
5.
[69] «Quoniamque inest in Sacro Corde symbolum atque expressa imago infinitae Iesu Christi caritatis, quae movet ipsa nos ad amandum mutuo, ideo consentaneum est dicare se Cordi eius augustissimo: quod tamen nihil est aliud quam dedere atque obligare se Iesu Christo […].
En alterum hodie oblatum oculis auspicatissimum divinissimumque signum: videlicet Cor Iesu sacratissimum, superimposita cruce, splendidissimo candore inter flammas elucens.
In eo omnes collocandae spes: ex eo hominum petenda atque expectanda salus» (Lett.
enc.
Annum Sacrum [25 maggio 1899]: ASS 31 [1898-99], 649; 651).
[70] «In quel felicissimo segno e nella forma che ne emana non sono forse contenute tutta la sostanza della religione e specialmente la norma di una vita più perfetta, come quella che guida per una via più facile le menti a conoscere intimamente Gesù Cristo e induce i cuori ad amarlo più ardentemente e più generosamente ad imitarlo?» (Lett.
enc.
Miserentissimus Redemptor [8 maggio1928]: AAS 20 (1928), 167.
[71] «È un atto eccellentissimo della virtù di religione, cioè un atto di assoluta e incondizionata sottomissione e consacrazione da parte nostra all’amore del Redentore Divino, di cui è indice e simbolo quanto mai espressivo il suo Cuore trafitto […]; vi possiamo ammirare non soltanto il simbolo ma anche, per così dire, la sintesi di tutto il mistero della nostra redenzione […].
Gesù Cristo espressamente e ripetutamente indicò il suo Cuore come un simbolo quanto mai atto a stimolare gli uomini alla conoscenza e alla stima del suo amore; ed insieme lo costituì quasi segno ed arra di misericordia e di grazia per i bisogni spirituali della Chiesa nei tempi moderni» (Lett.
enc.
Haurietis Aquas [15 maggio 1956], Proemio; III; IV: AAS 48 (1956), 311; 336; 340).
[72] Catechesi, 8 giugno 1994, 2: L’Osservatore Romano, 9 giugno 1994, p.
5.
[73] Angelus, 1° giugno 2008: L’Osservatore Romano, 2-3 giugno 2008, p.
1.
[74] Lett.
enc.
Haurietis Aquas (15 maggio 1956), IV: AAS 48 (1956), 344.
[75] Cfr ivi: AAS 48 (1956), 336.
[76] «Il valore delle rivelazioni private è essenzialmente diverso dall’unica rivelazione pubblica: questa esige la nostra fede […].
Una rivelazione privata […] è un aiuto, che è offerto, ma del quale non è obbligatorio fare uso» (Benedetto XVI, Esort.
ap.
Verbum Domini [30 settembre 2010], 14: AAS 102 [2010], 696).
[77] Lett.
enc.
Haurietis Aquas (15 maggio 1956), IV: AAS 48 (1956), 340.
[80] Esort.
ap.
C’est la confiance (15 ottobre 2023), 20: L’Osservatore Romano, 16 ottobre 2023.
[81] S.
Teresa di Gesù Bambino, Ms A, 83vº: Opere complete, Roma 1997, 209.
[82] S.
Maria Faustina Kowalska, Diario.
La Misericordia Divina nella mia anima (1° quaderno, 22 febbraio 1931), Città del Vaticano 2021, 74.
[83] Cfr Mišna Sukkâ IV, 5.
9.
[84] Lettera al Reverendo Padre Peter-Hans Kolvenbach, Preposito generale della Compagnia di Gesù, Paray-le-Monial (Francia), 5 ottobre 1986: L’Osservatore Romano, 7 ottobre 1986, p.
IX.
[85] Atti dei Martiri di Lione, in Eusebio di Cesarea, Hist.
Eccles., V, 1, 22: PG 20, 418.
[86] Rufinus, V, 1, 22: GCS, Eusebius II, 1, p.
411, 13s.
[87] S.
Giustino, Dial. 135: PG 6,787.
[88] Novaziano, De Trinitate, 29: PL 3, 944.
Cfr S.
Gregorio di Elvira, Tractatus Origenis de libris Ss.
Scripturarum, 20, Paris 1900, 210.
[89] S.
Ambrogio, Expl.
Ps.
I, 33: PL 14, 983-984.
[90] Cfr Tract.
in Joann. 61, 6: PL 35,1801.
[91] Epist.
ad Rufinum 3, 4.3: PL 22, 334.
[92] Sermones in Cant. 61, 4: PL 183, 1072.
[93] Cfr Expositio altera super Cantica Canticorum, c.
1: PL 180, 487.
[94] Guglielmo di Saint-Thierry, De natura et dignitate amoris, 1: PL 184, 379.
[95] Id., Meditativae Orationes 8, 6: PL 180, 230.
[96] S.
Bonaventura, Lignum vitae.
De mysterio passionis, 30: Opuscoli Spirituali, 3, Roma 1992 ( Sancti Bonaventurae Opera, XIII), 245.
[97] Ivi, 47.
[98] S.
Gertrude di Helfta, Legatus divinae pietatis, IV, 4, 4: SCh, 255, 66.
[99] Leone Dehon, Directoire spirituel des prêtres du Sacré Cœur de Jésus, Turnhout 1936, II, cap.
VII, n.
141.
[100] S.
Caterina da Siena, Dialogo della divina provvidenza, LXXV: Fiorilli M.
– Caramella S.
(ed.), Bari 1928, 144.
[101] Cfr ad esempio Angelus Walz, De veneratione divini cordis Iesu in Ordine Praedicatorum, Roma 1937.
[102] Rafael García Herreros, Vida de San Juan Eudes, Bogotá 1943, 42.
[103] Lettera a S.
Giovanna Francesca di Chantal, 24 aprile 1610: Opere complete di Francesco di Sales, vol.
8/2: Lettere 1605-1610, Roma 2021, 686.
[104] Sermone per la II Dom.
di Quaresima, 20 febbraio 1622.
[105] Lettera a S.
Giovanna Francesca di Chantal nella Solennità dell’Ascensione del 1612: San Francesco di Sales, Tutte le lettere, vol.
II (1611-1618).
Roma 1967, 183, lett.
n.
781.
[106] Lettera a Maria Amata di Blonay, 18 febbraio 1618: ivi, 1056, lett.
n.
140.
[107] Lettera a S.
Giovanna Francesca di Chantal, fine novembre 1609: ivi, 610, lett.
n.
552.
[108] Lettera a S.
Giovanna Francesca di Chantal, verso il 25 febbraio 1610: ivi, 654, lett.
n.
573.
[109] Entretien XIV, De la simplicité et prudence religieuse.
[110] Lettera a S.
Giovanna Francesca di Chantal, 10 giugno 1611: San Francesco di Sales, Tutte le lettere, vol.
II (1611-1618), Roma 1967, 56, lett.
n.
69.
[111] S.
Margherita Maria Alacoque, Autobiografia, n.
53, Roma 1983, 131.
[112] Ibid.
[113] Ivi, 134.
[114] Cfr Dicastero per la Dottrina della Fede, Norme per procedere nel discernimento di presunti fenomeni soprannaturali, 17 maggio 2024, I, A, 12.
[115] S.
Margherita Maria Alacoque, Autobiografia, n.
92, Roma 1983, 180.
[116] Ead., Lettera a Suor de la Barge, 22 ottobre 1689: Vita e opere di Santa Margherita Maria Alacoque, vol.
II, Roma 1985, 301.
[117] Ead., Autobiografia, n.
53, Op.
cit., 132.
[118] Ivi, n.
55, Op.
cit., 134.
[119] S.
Claudio de La Colombière, Discorso sulla confidenza in Dio: Discorsi sacri su N.S.
Gesù Cristo, su Maria Vergine Santissima, sui Santi, sui Novissimi, ecc., vol.
III, Torino 1913, 484-485.
[120] Id., Ritiro a Londra, 1-8 febbraio 1677.
[121] Id., Esercizi spirituali a Lione, ottobre-novembre 1674.
[122] Cfr S.
Charles de Foucauld, Lettre à Madame de Bondy, 27 aprile 1897: in Fonds Charles de Foucauld – Archives Diocésaines Viviers.
[123] Id., Lettera a Madame de Bondy, 28 aprile 1901: C.
de Foucalud, Lettere a M.me de Bondy.
Dalla Trappa a Tamanrasset, Roma 1968, 73.
Cfr Lettera a Madame de Bondy, 5 aprile 1909: «È per mezzo vostro che ho conosciuto le esposizioni del Santissimo Sacramento, le benedizioni e il Sacro Cuore!»: ivi, 154.
[124] Lettera a Madame de Bondy, 7 aprile 1890: C.
de Foucauld, Op.
cit., 29.
[125] Lettera a Don Huvelin, 27 giugno 1892: C.
de Foucauld – Don Huvelin, Corrispondenza inedita, Torino-Leumann 1965, 30.
[126] S.
Charles de Foucauld, Meditazioni sull’Antico Testamento (1896-1897), XXX, 1-21: C.
de Foucalud, Chi può resistere a Dio? Meditazioni sulla Sacra Scrittura (1896-1898), Roma 1983, 77-78.
[127] Id., Lettera a Don Huvelin, 16 maggio 1900: C.
de Foucauld – Don Huvelin, Corrispondenza inedita, Torino-Leumann 1965, 132-133.
[128] Id., Diario, 17 maggio 1906: Opere spirituali, Roma 1983, 346.
[129] S.
Teresa di Gesù Bambino, Lettera 67 a sua zia Madame Guérin, 18 novembre 1888: Opere complete, Città del Vaticano 1997, 354.
[130] Ead., Lettera 122 a Celina, 14 ottobre 1890: Opere complete, 421.
[131] Ead., Poesie 23, “Al Sacro Cuore di Gesù”, giugno e ottobre 1895: Opere complete, 667-668.
[132] Ead., Lettera 247, al Reverendo Maurice Bellière, 21 giugno 1897: Opere complete, 587.
[133] Ead., Ultimi colloqui.
Quaderno giallo, 11 luglio 1897: Opere complete, 1014-1015.
[134] Ead., Lettera 197, a Suor Maria del Sacro Cuore, 17 settembre 1896: Opere complete, 537-538.
Questo non significa che Teresina non offrisse sacrifici, dolori, angustie come un modo di associarsi alle sofferenze di Cristo, ma quando voleva andare a fondo si preoccupava di non dare a queste offerte un’importanza che non hanno.
[135] Ead., Lettera 142, a Celina, 6 luglio 1893: Opere complete, 451.
[136] Ead., Lettera 191, a Leonia, 12 luglio 1896: Opere complete, 528.
[137] Ead., Lettera 226, al P.
Roulland, 9 maggio 1897: Opere complete, 573.
[138] Ead.
, Lettera 258 al Reverendo Maurice Bellière, 18 luglio 1897: Opere complete, 598.
[139] Cfr S.
Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, n.
104, Roma 1984, 110.
[140] Ivi, n.
297, cit., 211.
[141] Cfr Lettera a S.
Ignazio, 23 gennaio 1541.
[142] De Vita P.
Ignatii et Societatis Iesu initiis, c.
8, 96, Bilbao-Santander 2021, 147.
[143] S.
Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, 54, Roma 1984, 80.
[144] Cfr ivi, 230ss.
[145] XXIII Congregazione Generale della Compagnia di Gesù, Decreto 46, 1: Institutum Societatis Iesu, 2, Firenze 1893, 511.
[146] «In Lui solo… la speranza», Milano 1983, 180-181.
[147] Lettera al Preposito Generale della Compagnia di Gesù, Paray-le-Monial, 5 ottobre 1986.
[148] Conferenze ai Preti della Missione, 132 (13 agosto 1655), “La povertà”: San Vincenzo de’ Paoli, Opere, vol.
10, Roma 2008, 208.
[149] Conferenze alle Figlie della Carità, 89 (9 dicembre 1657), “Mortificazione, corrispondenza, pasti, uscite” ( Regole comuni, artt.
24-27): Op.
cit., vol.
9, 807.
[150] S.
Daniele Comboni, Scritti, 3324: Daniele Comboni, Gli scritti, Bologna 1991, 998.
[151] Cfr Omelia nella Messa per la canonizzazione, 18 maggio 2003: L’Osservatore Romano, 19-20 maggio 2003, p.
6.
[152] Lett.
enc.
Dives in misericordia (30 novembre 1980), 13: AAS 72 (1980), 1219.
[153] Catechesi, 20 giugno 1979: L’Osservatore Romano, 22 giugno 1979, p.
1.
[154] Missionari Comboniani del Cuore di Gesù, Regola di Vita, Costituzioni e Direttorio Generale, Roma 1988, 3.
[155] Religiose del Sacro Cuore di Gesù (Società del Sacro Cuore), Costituzioni del 1982, 7.
[156] Lett.
enc.
Miserentissimus Redemptor (8 maggio 1928): AAS 20 (1928), 174.
[157] Quando si esercita la fede, riferita a Cristo, l'anima accede non solo ad alcuni ricordi, ma alla realtà della sua vita divina (cfr S.
Tommaso d'Aquino, Summa Theologiæ, II-II, q.
1, a.
2, ad 2; q.
4, a.
1).
[158] Pio XI, Lett.
enc.
Miserentissimus Redemptor (8 maggio 1928): AAS 20 (1928), 174.
[159] Omelia nella Messa Crismale, 28 marzo 2024: L’Osservatore Romano, 28 marzo 2024, p.
2.
[160] S.
Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, 203, Roma 1984, 160.
[161] Omelia nella Messa Crismale, 28 marzo 2024: L’Osservatore Romano, 28 marzo 2024, p.
2.
[162] S.
Margherita Maria Alacoque, Autobiografia, n.
55, Roma 1983, 134.
[163] Ead., Lettera 133, 10: Scritti autobiografici, Roma 1984, 182-183.
[164] Ead., Autobiografia, n.
92, Op.
cit., 180.
[165] Lett.
enc.
Annum Sacrum (25 maggio 1899): ASS 31 (1898-99), 649.
[166] Giuliano, Ep.
XLIX ad Arsacium Pontificem Galatiae, Mainz 1828, 90-91.
[167] Ibid.
[168] Dicastero per la Dottrina della Fede, Dich.
Dignitas infinita (2 aprile 2024), 19: L’Osservatore Romano, 8 aprile 2024.
[169] Cfr Benedetto XVI, Lettera al Preposito Generale della Compagnia di Gesù in occasione del 50° anniversario dell’Enciclica Haurietis Aquas (15 maggio 2006): AAS 98 (2006), 461.
[170] In Num.
homil. 12, 1: PG 12, 657.
[171] Epist. 29, 24: PL 16, 1060.
[172] Adv.
Arium 1, 8: PL 8, 1044.
[173] Tract.
in Joannem 32, 4: PL 35, 1643.
[174] In Ev.
S.
Joannis, cap.
VII, lectio 5.
[175] Pio XII, Lett.
enc.
Haurietis Aquas (15 maggio 1956), II: AAS 48 (1956), 321.
[176] S.
Giovanni Paolo II, Lett.
enc.
Redemptoris Mater (25 marzo 1987), 38: AAS 79 (1987), 411.
[177] Conc.
Ecum.
Vat.
II, Cost.
dogm.
Lumen gentium, 62.
[179] Sermones super Cant., XX, 4: PL 183, 869.
[180] Introduzione alla vita devota, p.
III, c.
XXXV: Opere complete di Francesco di Sales, vol.
3: Filotea.
Introduzione alla vita devota, Roma 2009, 220-221.
[181] Sermone per la XVII Domenica dopo Pentecoste.
[182] Gesù, la sua Passione, Ritiro fatto a Nazaret, 5-15 novembre 1987: C.
de Foucauld, La vita nascosta.
Ritiri in Terra Santa (1897-1900), Roma 1974, 72.
[183] Dal 19 marzo 1902 tutte le sue lettere sono intestate con le parole Jesus Caritas separate da un cuore sormontato dalla croce.
[184] Lettera a Don Huvelin, 15 luglio 1904: Opere spirituali, Roma 1983, 633.
[185] Lettera a Dom Martin, 25 gennaio 1903: C.
de Foucauld, «Cette chère dernière place».
Lettres à mes frères de la Trappe, Paris 2012, 311.
[186] Citato in René Voillaume, Les fraternités du Père de Foucauld, Paris, 1946, 173.
[187] Meditazioni dei santi Vangeli sui passi relativi a quindici virtù, Nazaret 1897-1898, Carità 77 ( Mt 20,28): C.
de Foucauld, Meditazioni sui passi dei vangeli relativi a Dio solo, fede, speranza, carità (1897-1898), Roma 1973, 325.
[188] Ivi, Carità 90 ( Mt 27,30): Op.
cit., 338.
[189] H.
Huvelin, Quelques directeurs d’âmes au XVII siècle, Paris 1911, 97.
[190] Cfr Conferenze alle Figlie della Carità, 85 (11 novembre 1657), “Servizio ai malati, cura della propria salute” ( Regole comuni, artt.
12-16): San Vincenzo de’ Paoli, Opere, vol.
9, Roma 2008, 757.
[191] Costituzioni e Statuti della Congregazione della Missione, Roma 1984, 110.
[192] Lettera al Preposito Generale della Compagnia di Gesù (Paray-le-Monial, 5 ottobre 1986): L’Osservatore Romano, 6 ottobre 1986, p.
7.
[193] San Giovanni Paolo II, Esort.
ap.
postsin.
Reconciliatio et Paenitentia (2 dicembre 1984), 16: AAS 77 (1985), 215.
[194] Cfr Id., Lett.
enc.
Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987), 36: AAS 80 (1988), 561-562.
[195] Id., Lett.
enc.
Centesimus annus (1 maggio 1991), 41: AAS 83 (1991), 844-845.
[196] Catechismo della Chiesa Cattolica, n.
1888.
[197] Cfr Catechesi , 8 giugno 1994, 2: L’Osservatore Romano, 9 giugno 1994, p.
5.
[198] Discorso ai partecipanti al colloquio internazionale “Réparer l’irréparable”, nel 350° delle apparizioni di Gesù a Paray-le-Monial, 4 maggio 2024: L’Osservatore Romano, 4 maggio 2024, p.
12.
[200] Omelia nella Messa mattutina nella Domus Sanctae Marthae, 6 marzo 2018: L’Osservatore Romano, 5-6 marzo 2018, p.
8.
[201] Discorso ai partecipanti al Colloquio internazionale “Réparer l´irréparable”, nel 350° anniversario delle apparizioni di Gesù a Paray-le-Monial, 4 maggio 2024: L’Osservatore Romano, 4 maggio 2024, p.
12.
[202] Omelia nella Messa Crismale, 28 marzo 2024: L’Osservatore Romano, 28 marzo 2024, p.
2.
[205] Lett.
enc.
Laudato si’ (24 maggio 2015), 80: AAS 107 (2015), 879.
[206] Catechismo della Chiesa Cattolica, n.
1085.
268.
[208] Autobiografia, n.
53, Roma 1983, 131.
[209] S.
Teresa di Gesù Bambino, Ms A, 84r°: Opere complete, Roma 1997, 209-210.
[210] Ivi: Op.
cit., 210.
[211] Ibid.
[212] Ead., Ms A, 83v°: Op.
cit., 209; cfr Lettera 226 a padre Adolfo Roulland, 9 maggio 1897: Op.
cit., 572.
[213] Ead., Offerta di me stessa come Vittima d’Olocausto all’Amore Misericordioso del Buon Dio, 2r°-2v°: Op.
cit., 943.
[214] Ead., Ms B, 3v°: Op.
cit., 223.
[215] Ead., Lettera 186, a Leonia, 11 aprile 1896: Op.
cit., 521.
[216] Ead.
Lettera 258, al Reverendo Maurice Bellière, 18 luglio 1897, 2r°: Op.
cit., 598.
[217] Cfr Pio XI, Lett.
enc.
Miserentissimus Redemptor (8 maggio 1928): AAS 20 (1928), 169.
[219] S.
Giovanni Paolo II, Catechesi, 20 giugno 1979: L’Osservatore Romano, 22 giugno 1979, p.
1.
[220] Omelia nella Messa mattutina nella Domus Sanctae Marthae, 27 giugno 2014: L’Osservatore Romano, 28 giugno 2014, p.
8.
[221] Messaggio nel centenario della consacrazione del genere umano al Cuore divino di Gesù, Varsavia, 11 giugno 1999, Solennità del Sacro Cuore di Gesù: L’Osservatore Romano, 12 giugno 1999, p.
5.
[223] Lettera all’Arcivescovo di Lione in occasione del pellegrinaggio a Paray-le-Monial, per il centenario della consacrazione del genere umano al Cuore divino di Gesù, 4 giugno 1999: L’Osservatore Romano, 12 giugno 1999, p.
4.
[224] Conferenze ai Preti della Missione, 135 (22 agosto 1655), “Ripetizione dell’Orazione”: San Vincenzo de’ Paoli, Opere, vol.
10, Roma 2008, 237-238.
[225] Lett.
Diserti interpretes (25 maggio 1965), 4: Enchiridion della Vita Consacrata, Bologna-Milano 2001, n.
3809.
[226] Vita Nova, XIX, 5-6 .
[227] Ms A, 45v°: Opere complete, Roma 1997, 146.