Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant'anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che l'uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz'acqua; che ha fatto sgorgare per te l'acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri, per umiliarti e per provarti, per farti felice nel tuo avvenire.
Alleluia.
Glorifica il Signore, Gerusalemme, loda il tuo Dio, Sion. Perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte, in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli. Egli ha messo pace nei tuoi confini e ti sazia con fior di frumento. Manda sulla terra la sua parola, il suo messaggio corre veloce. Annunzia a Giacobbe la sua parola, le sue leggi e i suoi decreti a Israele. Così non ha fatto con nessun altro popolo, non ha manifestato ad altri i suoi precetti.
Alleluia.
il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane.
Io sono il pane vivo, disceso dal cielo.
Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono.
Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
Chi di noi avrebbe mai potuto capire che Gesù Cristo arrivasse ad amare le sue creature fino a dare il suo Corpo adorabile e il suo Sangue prezioso come nutrimento delle nostre anime, se non fosse stato lui stesso a dircelo? E che cosa? Un' anima si nutre del suo Salvatore! e ogni volta che lo desidera! O abisso di bontà e d'amore di un Dio per le sue creature!... San Paolo ci dice che il Salvatore, rivestendosi della nostra carne, ha nascosto la divinità ed ha portato l'umiliazione fino all'annientamento.
Ma, con l'istituzione del sacramento dell'Eucaristia, ha velato persino la sua umanità, non ha lasciato apparire che le viscere della sua misericordia.
Oh! Guardate di cosa è capace l'amore di un Dio per le sue creature! (...) San Giovanni ci dice che Gesù Cristo "avendo amato gli uomini li amò sino alla fine" (Gv 13,1), trovò il mezzo di salire al cielo senza lasciare la terra: prese del pane fra le sue mani sante e venerabili, lo benedisse e lo cambiò nel suo Corpo; prese il vino e lo cambiò nel suo Sangue prezioso e diede a tutti i suoi sacerdoti, nella persona degli apostoli, il potere di fare lo stesso miracolo, tutte le volte che avrebbero pronunciato le sue parole; affinché attraverso questo miracolo d'amore egli potesse restare con noi, essere nostro cibo, consolarci e tenerci compagnia. Ci dice "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue vivrà in eterno; ma chi non mangia la mia carne e non beve il mio sangue non avrà la vita in lui" (cfr Gv 6,53-54).
Oh! che gioia per un cristiano aspirare ad un così grande onore di nutrirsi del pane degli angeli!...
Dio parlò a Mosè e gli disse: "Io sono il Signore! Sono apparso ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe come Dio onnipotente, ma con il mio nome di Signore non mi son manifestato a loro. Ho anche stabilito la mia alleanza con loro, per dar loro il paese di Cànaan, quel paese dov'essi soggiornarono come forestieri. Sono ancora io che ho udito il lamento degli Israeliti asserviti dagli Egiziani e mi sono ricordato della mia alleanza. Per questo dì agli Israeliti: Io sono il Signore! Vi sottrarrò ai gravami degli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi libererò con braccio teso e con grandi castighi. Io vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro Dio.
Voi saprete che io sono il Signore, il vostro Dio, che vi sottrarrà ai gravami degli Egiziani. Vi farò entrare nel paese che ho giurato a mano alzata di dare ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe, e ve lo darò in possesso: io sono il Signore!". Mosè parlò così agli Israeliti, ma essi non ascoltarono Mosè, perché erano all'estremo della sopportazione per la dura schiavitù. Il Signore parlò a Mosè: "Và e parla al faraone re d'Egitto, perché lasci partire dal suo paese gli Israeliti!".
Benedetto il Signore sempre; ha cura di noi il Dio della salvezza. Il nostro Dio è un Dio che salva; il Signore Dio libera dalla morte. Dispiega, Dio, la tua potenza, conferma, Dio, quanto hai fatto per noi. Per il tuo tempio, in Gerusalemme, a te i re porteranno doni. Minaccia la belva dei canneti, il branco dei tori con i vitelli dei popoli: si prostrino portando verghe d'argento; disperdi i popoli che amano la guerra. Verranno i grandi dall'Egitto, l'Etiopia tenderà le mani a Dio. Regni della terra, cantate a Dio, cantate inni al Signore; Riconoscete a Dio la sua potenza, la sua maestà su Israele, la sua potenza sopra le nubi. Terribile sei, Dio, dal tuo santuario; il Dio d'Israele dà forza e vigore al suo popolo, sia benedetto Dio. Terribile sei, Dio, dal tuo santuario; il Dio d'Israele dà forza e vigore al suo popolo, sia benedetto Dio.
Uscito dalla sinagoga entrò nella casa di Simone.
La suocera di Simone era in preda a una grande febbre e lo pregarono per lei. Chinatosi su di lei, intimò alla febbre, e la febbre la lasciò.
Levatasi all'istante, la donna cominciò a servirli. Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi colpiti da mali di ogni genere li condussero a lui.
Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva. Da molti uscivano demòni gridando: «Tu sei il Figlio di Dio!».
Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era il Cristo.
Se Dio Padre onnipotente, Creatore del mondo ordinato e buono, si prende cura di tutte le sue creature, perché esiste il male? A questo interrogativo tanto pressante quanto inevitabile, tanto doloroso quanto misterioso, nessuna risposta immediata potrà bastare.
È l'insieme della fede cristiana che costituisce la risposta a tale questione: la bontà della creazione, il dramma del peccato, l'amore paziente di Dio che viene incontro all'uomo con le sue alleanze, con l'incarnazione redentrice del suo Figlio, con il dono dello Spirito, con la convocazione della Chiesa, con la forza dei sacramenti, con la vocazione ad una vita felice, alla quale le creature libere sono invitate a dare il loro consenso, ma alla quale, per un mistero terribile, possono anche sottrarsi.
Non c'è un punto del messaggio cristiano che non sia, per un certo aspetto, una risposta al problema del male. Ma perché Dio non ha creato un mondo a tal punto perfetto da non potervi essere alcun male? Nella sua infinita potenza, Dio potrebbe sempre creare qualcosa di migliore (S.
Tommaso d'Aquino).
Tuttavia, nella sua sapienza e nella sua bontà infinite, Dio ha liberamente voluto creare un mondo « in stato di via » verso la sua perfezione ultima.
Questo divenire, nel disegno di Dio, comporta, con la comparsa di certi esseri, la scomparsa di altri, con il più perfetto anche il meno perfetto, con le costruzioni della natura anche le distruzioni.
Quindi, insieme con il bene fisico esiste anche il male fisico, finché la creazione non avrà raggiunto la sua perfezione.
Un uomo della famiglia di Levi andò a prendere in moglie una figlia di Levi. La donna concepì e partorì un figlio; vide che era bello e lo tenne nascosto per tre mesi. Ma non potendo tenerlo nascosto più oltre, prese un cestello di papiro, lo spalmò di bitume e di pece, vi mise dentro il bambino e lo depose fra i giunchi sulla riva del Nilo. La sorella del bambino si pose ad osservare da lontano che cosa gli sarebbe accaduto. Ora la figlia del faraone scese al Nilo per fare il bagno, mentre le sue ancelle passeggiavano lungo la sponda del Nilo.
Essa vide il cestello fra i giunchi e mandò la sua schiava a prenderlo. L'aprì e vide il bambino: ecco, era un fanciullino che piangeva.
Ne ebbe compassione e disse: "È un bambino degli Ebrei". La sorella del bambino disse allora alla figlia del faraone: "Devo andarti a chiamare una nutrice tra le donne ebree, perché allatti per te il bambino?". "Và", le disse la figlia del faraone.
La fanciulla andò a chiamare la madre del bambino. La figlia del faraone le disse: "Porta con te questo bambino e allattalo per me; io ti darò un salario".
La donna prese il bambino e lo allattò. Quando il bambino fu cresciuto, lo condusse alla figlia del faraone.
Egli divenne un figlio per lei ed ella lo chiamò Mosè, dicendo: "Io l'ho salvato dalle acque!".
Alleluia.
Lodate il Signore e invocate il suo nome, proclamate tra i popoli le sue opere. Ricorda sempre la sua alleanza: parola data per mille generazioni, l'alleanza stretta con Abramo e il suo giuramento ad Isacco. Ma Dio rese assai fecondo il suo popolo, lo rese più forte dei suoi nemici. Mutò il loro cuore e odiarono il suo popolo, contro i suoi servi agirono con inganno Mandò Mosè suo servo e Aronne che si era scelto. Compì per mezzo loro i segni promessi e nel paese di Cam i suoi prodigi.
Vi dico anche: c'erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone. C'erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro». All'udire queste cose, tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò.
Perché Elia è stato mandato a una vedova, nel tempo in cui la carestia affliggeva tutta la terra? Una grazia particolare è legata a due donne: accanto a una vergine, un angelo; accanto ad una vedova, un profeta.
Là Gabriele, qui Elia.
Sono i più importanti tra gli angeli e tra i profeti! Ma la vedovanza in se stessa non merita lodi, se non vi si aggiungono delle virtù.
La storia non manca di vedove; tuttavia, una si distingue fra tutte e le incoraggia tutte con il suo esempio.
(...) Dio è particolarmente sensibile all'ospitalità: nel Vangelo promette ricompense eterne per un bicchiere d’acqua (Mt 10,42); qui, per un po' di farina o una misura di olio, l'infinita profusione delle sue ricchezze.
(...) Perché crederci padroni dei frutti della terra mentre la terra è un perpetuo dono? (...) Noi modifichiamo a nostro vantaggio il senso del comandamento universale: «Ecco, io vi do ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: sarà il vostro cibo.
A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra, io do come cibo ogni erba verde» (Gen 1,29-30).
Nell'ammassare, non troviamo altro che il vuoto e il bisogno.
Come possiamo sperare nella promessa, se non osserviamo la volontà di Dio? Obbedire al precetto dell'ospitalità e fare onore ai nostri ospiti è agire con buon senso: non siamo forse anche noi ospiti quaggiù? Come è ammirevole questa vedova! Pur oppressa da una grande carestia, continua a venerare Dio.
Non teneva solo per sé le sue provviste, poiché le condivideva con suo figlio.
Bell'esempio di tenerezza il suo, ma ancor più di fede! Sicuramente non preferiva nessuno a suo figlio: eppure ecco che mette il profeta al di sopra della propria vita.
Potete vedere che non ha dato soltanto un po' di cibo, ma tutti i suoi viveri; non ha tenuto nulla per sé; la sua ospitalità l'ha portata a un dono totale, così la sua fede l'ha condotta a una fiducia totale.
In quei giorni, erano entrati nella Media e già erano vicini a Ecbàtana, quando Raffaele disse al ragazzo: "Fratello Tobia!".
Gli rispose: "Eccomi".
Riprese: "Questa notte dobbiamo alloggiare presso Raguele, che è tuo parente.
Egli ha una figlia chiamata Sara Quando fu entrato in Ecbàtana, Tobia disse: "Fratello Azaria, conducimi diritto da nostro fratello Raguele".
Egli lo condusse alla casa di Raguele, che trovarono seduto presso la porta del cortile.
Lo salutarono per primi ed egli rispose: "Salute fratelli, siate i benvenuti!".
Li fece entrare in casa. Si lavarono, fecero le abluzioni e, quando si furono messi a tavola, Tobia disse a Raffaele: "Fratello Azaria, domanda a Raguele che mi dia in moglie mia cugina Sara". Raguele udì queste parole e disse al giovane: "Mangia, bevi e stà allegro per questa sera, poiché nessuno all'infuori di te, mio parente, ha il diritto di prendere mia figlia Sara, come del resto neppure io ho la facoltà di darla ad un altro uomo all'infuori di te, poiché tu sei il mio parente più stretto.
Però, figlio, vogliono dirti con franchezza la verità. L'ho data a sette mariti, scelti tra i nostri fratelli, e tutti sono morti la notte stessa delle nozze.
Ora mangia e bevi, figliolo; il Signore provvederà". Ma Tobia disse: "Non mangerò affatto né berrò, prima che tu abbia preso una decisione a mio riguardo".
Rispose Raguele: "Lo farò! Essa ti viene data secondo il decreto del libro di Mosè e come dal cielo è stato stabilito che ti sia data.
Prendi dunque tua cugina, d'ora in poi tu sei suo fratello e lei tua sorella.
Ti viene concessa da oggi per sempre.
Il Signore del cielo vi assista questa notte, figlio mio, e vi conceda la sua misericordia e la sua pace". Raguele chiamò la figlia Sara e quando essa venne la prese per mano e l'affidò a Tobia con queste parole: "Prendila; secondo la legge e il decreto scritto nel libro di Mosè ti viene concessa in moglie.
Tienila e sana e salva conducila da tuo padre.
Il Dio del cielo vi assista con la sua pace". Chiamò poi la madre di lei e le disse di portare un foglio e stese il documento di matrimonio, secondo il quale concedeva in moglie a Tobia la propria figlia, in base al decreto della legge di Mosè.
Dopo di ciò cominciarono a mangiare e a bere. Poi Raguele chiamò la moglie Edna e le disse: "Sorella mia, prepara l'altra camera e conducila dentro". Essa andò a preparare il letto della camera, come le aveva ordinato, e vi condusse la figlia.
Pianse per lei, poi si asciugò le lacrime e disse: "Coraggio, figlia, il Signore del cielo cambi in gioia il tuo dolore.
Coraggio, figlia!".
E uscì. Gli altri intanto erano usciti e avevano chiuso la porta della camera.
Tobia si alzò dal letto e disse a Sara: "Sorella, alzati! Preghiamo e domandiamo al Signore che ci dia grazia e salvezza". Essa si alzò e si misero a pregare e a chiedere che venisse su di loro la salvezza, dicendo: "Benedetto sei tu, Dio dei nostri padri, e benedetto per tutte le generazioni è il tuo nome! Ti benedicano i cieli e tutte le creature per tutti i secoli! Tu hai creato Adamo e hai creato Eva sua moglie, perché gli fosse di aiuto e di sostegno.
Da loro due nacque tutto il genere umano.
Tu hai detto: non è cosa buona che l'uomo resti solo; facciamogli un aiuto simile a lui. Ora non per lussuria io prendo questa mia parente, ma con rettitudine d'intenzione.
Dègnati di aver misericordia di me e di lei e di farci giungere insieme alla vecchiaia". E dissero insieme: "Amen, amen!". Poi dormirono per tutta la notte.
Beato l'uomo che teme il Signore e cammina nelle sue vie. Vivrai del lavoro delle tue mani, sarai felice e godrai d'ogni bene. La tua sposa come vite feconda nell'intimità della tua casa; i tuoi figli come virgulti d'ulivo intorno alla tua mensa. Così sarà benedetto l'uomo che teme il Signore. Ti benedica il Signore da Sion! Possa tu vedere la prosperità di Gerusalemme per tutti i giorni della tua vita.
In quel tempo, si accostò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele.
Il Signore Dio nostro è l'unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso.
Non c'è altro comandamento più importante di questi». Allora lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v'è altri all'infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio».
E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
"Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore e il tuo prossimo come te stesso per amore di Dio" (Cfr.
Mc 12,31; Mt 22,37; Lc 10,27).
Per ogni uomo, ogni amore è affare di cuore, senza il cuore dell'uomo, non c'è amore umano.
Senza Gesù non saremmo stati capaci d'amare Dio con un amore che sia della sua creatura umana, perché il nostro cuore era pervertito, perché ignoravamo che cosa è un cuore convertito, ritornato a Dio, rivolto a Dio, offerto a Dio.
Gesù ha rivelato, spiegandocelo e mostrandocelo, come deve vivere, come deve agire l'uomo il cui cuore è convertito. Perché abbiamo visto e toccato Gesù, Dio fatto uomo, possiamo incontrare Dio al livello del nostro cuore.
L'amore personale di Gesù per noi e di noi per lui, il cuore a cuore con lui è l'accesso all'amore di Dio, saremmo incapaci e ignoranti di potere e sapere "amare Dio con tutto il cuore" senza la contemplazione e senza l'imitazione del cuore stesso di Gesù Cristo.
(...) Per sapere cos'è un cuore puro e cos'è un cuore buono, bisogna guardare Gesù.
Lui solo lo sa, lui solo l'insegna, lui solo lo dà.
E' grazie a lui che impariamo di quale amore possiamo amare Dio, che conosciamo di quale amore Dio ama gli uomini.
E' col cuore a cuore coi suoi compagni di vita che Gesù ha rivelato l'accesso all'amore di Dio, ed è sempre attraverso lo stesso cuore a cuore che Gesù ci ha rivelato e ci fa vivere il mistero dell'amore di Dio.
In quel cuore Gesù ci mostra il suo cuore puro ed il suo buon cuore, il cuore che diventerebbe il nostro cuore convertito.
In quei giorni, con l’animo affranto dal dolore, sospirai e piansi.
Poi iniziai questa preghiera di lamento: «Tu sei giusto, Signore, e giuste sono tutte le tue opere.
Ogni tua via è misericordia e verità.
Tu sei il giudice del mondo. Ora, Signore, ricordati di me e guardami.
Non punirmi per i miei peccati e per gli errori miei e dei miei padri. Violando i tuoi comandi, abbiamo peccato davanti a te.
Tu hai lasciato che ci spogliassero dei beni; ci hai abbandonati alla prigionia, alla morte e ad essere la favola, lo scherno, il disprezzo di tutte le genti, tra le quali ci hai dispersi. Ora, nel trattarmi secondo le colpe mie e dei miei padri, veri sono tutti i tuoi giudizi, perché non abbiamo osservato i tuoi decreti, camminando davanti a te nella verità. Agisci pure ora come meglio ti piace; da’ ordine che venga presa la mia vita, in modo che io sia tolto dalla terra e divenga terra, poiché per me è preferibile la morte alla vita.
Gli insulti bugiardi che mi tocca sentire destano in me grande dolore.
Signore, comanda che sia liberato da questa prova; fa’ che io parta verso la dimora eterna.
Signore, non distogliere da me il tuo volto.
Per me infatti è meglio morire che vedermi davanti questa grande angoscia, e così non sentirmi più insultare!». Nello stesso giorno capitò a Sara figlia di Raguele, abitante di Ecbàtana, nella Media, di sentire insulti da parte di una serva di suo padre, poiché lei era stata data in moglie a sette uomini, ma Asmodèo, il cattivo demonio, glieli aveva uccisi, prima che potessero unirsi con lei come si fa con le mogli.
A lei appunto disse la serva: «Sei proprio tu che uccidi i tuoi mariti.
Ecco, sei già stata data a sette mariti e neppure di uno hai potuto portare il nome. Perché vorresti colpire noi, se i tuoi mariti sono morti? Vattene con loro e che da te non dobbiamo mai vedere né figlio né figlia». In quel giorno dunque essa soffrì molto, pianse e salì nella stanza del padre con l'intenzione di impiccarsi.
Ma tornando a riflettere pensava: «Che non insultino mio padre e non gli dicano: “La sola figlia che avevi, a te assai cara, si è impiccata per le sue sventure”.
Così farei precipitare con angoscia la vecchiaia di mio padre negli inferi.
Meglio per me che non mi impicchi, ma supplichi il Signore di farmi morire per non sentire più insulti nella mia vita». In quel momento stese le mani verso la finestra e pregò: «Benedetto sei tu, Dio misericordioso, e benedetto è il tuo nome nei secoli». In quel medesimo momento la preghiera di tutti e due fu accolta davanti alla gloria di Dio e fu mandato Raffaele a guarire i due: a togliere le macchie bianche dagli occhi di Tobi, perché con gli occhi vedesse la luce di Dio; a dare Sara, figlia di Raguele, in sposa a Tobia, figlio di Tobi, e a liberarla dal cattivo demonio Asmodèo.
Dio mio, in te confido: non sia confuso! Non trionfino su di me i miei nemici! Chiunque spera in te non resti deluso, sia confuso chi tradisce per un nulla. Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri. Guidami nella tua verità e istruiscimi, perché sei tu il Dio della mia salvezza. Ricordati, Signore, del tuo amore, della tua fedeltà che è da sempre. Ricordati di me nella tua misericordia, per la tua bontà, Signore. Buono e retto è il Signore, la via giusta addita ai peccatori; guida gli umili secondo giustizia, insegna ai poveri le sue vie.
In quel tempo, vennero a Gesù dei sadducei, i quali dicono che non c'è risurrezione, e lo interrogarono dicendo: «Maestro, Mosè ci ha lasciato scritto che se muore il fratello di uno e lascia la moglie senza figli, il fratello ne prenda la moglie per dare discendenti al fratello. C'erano sette fratelli: il primo prese moglie e morì senza lasciare discendenza; allora la prese il secondo, ma morì senza lasciare discendenza; e il terzo egualmente, e nessuno dei sette lasciò discendenza.
Infine, dopo tutti, morì anche la donna. Nella risurrezione, quando risorgeranno, a chi di loro apparterrà la donna? Poiché in sette l'hanno avuta come moglie». Rispose loro Gesù: «Non siete voi forse in errore dal momento che non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio? Quando risusciteranno dai morti, infatti, non prenderanno moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli. A riguardo poi dei morti che devono risorgere, non avete letto nel libro di Mosè, a proposito del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe? Non è un Dio dei morti ma dei viventi! Voi siete in grande errore».
La speranza della risurrezione è radice di ogni iniziativa virtuosa.
L'attesa della ricompensa stimola l'anima ad agire bene.
Ogni operaio è pronto a sopportare la fatica se vede prima la ricompensa alla sua fatica; al contrario, in coloro che faticano senza esserne ricompensati, corpo e anima crollano prima di arrivare al termine.
Un soldato che aspetta di ricevere una ricompensa per il suo combattere è pronto a farlo, ma nessuno, arruolato da un capo dissennato, è pronto a morire per chi non gli propone alcuna ricompensa al suo impegno. Così ogni anima che crede alla risurrezione tratta sé - a ragione - con rispetto, mentre l'anima che non crede alla risurrezione è destinata alla rovina.
Chi crede che il corpo aspetta la risurrezione rispetta il suo vestito; evita di sporcarlo (...) La santa Chiesa ci insegna quindi come importante avvertimento la fede nella risurrezione dei morti.
Articolo importante e molto necessario, avversato da molti, ma stabilito dalla verità.
(...) Ben istruiti e ben formati nella santa Chiesa cattolica, avremo il regno dei cieli e otterremo la vita eterna come nostra eredità.
Per lei sopportiamo tutto, affinché il Signore ci dia di goderne.
Poiché non perseguiamo un fine mediocre, anzi: l'obiettivo dei nostri sforzi è la vita eterna.
Nella proclamazione della fede, ci viene anche insegnato, a noi cristiani, di credere , dopo l'articolo: "E nella risurrezione della carne", cioè la risurrezione dei morti, "nella vita eterna", oggetto del nostro combattere.
Quella notte, dopo aver seppellito il morto, mi lavai, entrai nel mio cortile e mi addormentai sotto il muro del cortile.
Per il caldo che c'era tenevo la faccia scoperta, ignorando che sopra di me, nel muro, stavano dei passeri.
Caddero sui miei occhi i loro escrementi ancora caldi, che mi produssero macchie bianche, e dovetti andare dai medici per la cura.
Più essi però mi applicavano farmachi, più mi si oscuravano gli occhi per le macchie bianche, finché divenni cieco del tutto.
Per quattro anni fui cieco e ne soffersero tutti i miei fratelli.
Achikar, nei due anni che precedettero la sua partenza per l'Elimaide, provvide al mio sostentamento. In quel tempo mia moglie Anna lavorava nelle sue stanze a pagamento, tessendo la lana che rimandava poi ai padroni e ricevendone la paga.
Ora nel settimo giorno del mese di Distro, quando essa tagliò il pezzo che aveva tessuto e lo mandò ai padroni, essi, oltre la mercede completa, le fecero dono di un capretto per il desinare. Quando il capretto entrò in casa mia, si mise a belare.
Chiamai allora mia moglie e le dissi: "Da dove viene questo capretto? Non sarà stato rubato? Restituiscilo ai padroni, poiché non abbiamo il diritto di mangiare cosa alcuna rubata". Ella mi disse: "Mi è stato dato in più del salario".
Ma io non le credevo e le ripetevo di restituirlo ai padroni e a causa di ciò arrossivo di lei.
Allora per tutta risposta mi disse: "Dove sono le tue elemosine? Dove sono le tue buone opere? Ecco, lo si vede bene dal come sei ridotto!".
Beato l'uomo che teme il Signore e trova grande gioia nei suoi comandamenti. Potente sulla terra sarà la sua stirpe, la discendenza dei giusti sarà benedetta. Non temerà annunzio di sventura, saldo è il suo cuore, confida nel Signore. Non temerà annunzio di sventura, saldo è il suo cuore, confida nel Signore, Egli dona largamente ai poveri, la sua giustizia rimane per sempre, la sua potenza s'innalza nella gloria.
In quel tempo, i sommi sacerdoti, gli scribi e gli anziani mandarono a Gesù alcuni farisei ed erodiani per coglierlo in fallo nel discorso. E venuti, quelli gli dissero: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non ti curi di nessuno; infatti non guardi in faccia agli uomini, ma secondo verità insegni la via di Dio.
E' lecito o no dare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare o no?». Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse: «Perché mi tentate? Portatemi un denaro perché io lo veda». Ed essi glielo portarono.
Allora disse loro: «Di chi è questa immagine e l'iscrizione?».
Gli risposero: «Di Cesare». Gesù disse loro: «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio».
E rimasero ammirati di lui.
Uomo, perché ti guardi così male coi tuoi occhi, quando sei tanto prezioso agli occhi di Dio? Perché ti disonori mentre Dio ti ha così tanto onorato? Perché ti chiedi con cosa sei stato creato e non ti curi di ricercare per quale scopo? La dimora del mondo che vedi, non è forse interamente creata per te? Per te ha brillato la luce, per scacciare le tenebre, per te c’è la notte ed il giorno col suo tempo; per te nel cielo risplendono il sole, la luna e le stelle; per te la terra si copre di fiori, foreste, frutti; per te vive nell'aria, nei campi, nell'acqua la moltitudine meravigliosa di tutti gli animali, per paura che la tristezza e la solitudine oscurino la gioia della creazione nascente. Dio ti ha formato con la polvere del suolo (Gen 2,7), affinché tu sia il signore delle cose di questa terra, condividendo con esse la stessa natura.
Tuttavia, benché tu appartenga alla terra, Dio ha fatto sì che tu sia al livello dei cieli quanto all'anima.
Ti ha fatto il dono di un’anima celeste e di un corpo terrestre, affinché tu abbia l’intelligenza in comune con Dio e il corpo in comune con gli animali; così in te si trova un’unione continua tra cielo e terra. Il tuo Creatore cerca ancora cosa potrebbe aggiungere alla tua grandezza: arriva addirittura a mettere in te la sua immagine (Gen 1,26), affinché questa immagine visibile renda presente sulla terra il Creatore invisibile.
(…) Se è così, come si può considerare disonore che Dio, nella sua bontà, accolga in se stesso ciò che in te ha creato e voglia apparire sotto l’aspetto dell’uomo? (...) La Vergine ha concepito ed ha partorito un figlio (Mt 1,23-25).
Catechesi. La passione per l’evangelizzazione: lo zelo apostolico del credente. 16. Testimoni: Santa Teresa di Gesù Bambino, patrona delle missioni
Cari fratelli e sorelle, benvenuti, buongiorno!
Sono qui davanti a noi le reliquie di santa Teresa di Gesù Bambino, patrona universale delle missioni.
È bello che ciò accada mentre stiamo riflettendo sulla passione per l’evangelizzazione, sullo zelo apostolico.
Oggi, dunque, lasciamoci aiutare dalla testimonianza di santa Teresina.
Lei nacque 150 anni fa, e in questo anniversario ho intenzione di dedicarle una Lettera Apostolica.
È patrona delle missioni, ma non è mai stata in missione: come si spiega, questo? Era una monaca carmelitana e la sua vita fu all’insegna della piccolezza e della debolezza: lei stessa si definiva “un piccolo granello di sabbia”.
Di salute cagionevole, morì a soli 24 anni.
Ma se il suo corpo era infermo, il suo cuore era vibrante, era missionario.
Nel suo “diario” racconta che essere missionaria era il suo desiderio e che voleva esserlo non solo per qualche anno, ma per tutta la vita, anzi fino alla fine del mondo.
Teresa fu “sorella spirituale” di diversi missionari: dal monastero li accompagnava con le sue lettere, con la preghiera e offrendo per loro continui sacrifici.
Senza apparire intercedeva per le missioni, come un motore che, nascosto, dà a un veicolo la forza per andare avanti.
Tuttavia dalle sorelle monache spesso non fu capita: ebbe da loro “più spine che rose”, ma accettò tutto con amore, con pazienza, offrendo, insieme alla malattia, anche i giudizi e le incomprensioni.
E lo fece con gioia, lo fece per i bisogni della Chiesa, perché, come diceva, fossero sparse “rose su tutti”, soprattutto sui più lontani.
Ma ora, mi chiedo, possiamo chiederci noi, tutto questo zelo, questa forza missionaria e questa gioia di intercedere da dove arrivano? Ci aiutano a capirlo due episodi, avvenuti prima che Teresa entrasse in monastero.
Il primo riguarda il giorno che le cambiò la vita, il Natale del 1886, quando Dio operò un miracolo nel suo cuore.
Teresa avrebbe di lì a poco compiuto 14 anni.
In quanto figlia più giovane, in casa era coccolata da tutti, ma non “malcresciuta”.
Tornata dalla Messa di mezzanotte, il papà, molto stanco, non aveva però voglia di assistere all’apertura dei regali della figlia e disse: «Meno male che è l’ultimo anno!», perché a 15 anni già non si facevano più.
Teresa, di indole molto sensibile e facile alle lacrime, ci restò male, salì in camera e pianse.
Ma in fretta represse le lacrime, scese e, piena di gioia, fu lei a rallegrare il padre.
Cos’era successo? Che in quella notte, in cui Gesù si era fatto debole per amore, lei era diventata forte d’animo – un vero miracolo: in pochi istanti era uscita dalla prigione del suo egoismo e del suo piangersi addosso, cominciò a sentire che “la carità le entrava nel cuore col bisogno di dimenticare sé stessa” (cfr Manoscritto A, 133-134).
Da allora rivolse il suo zelo agli altri, perché trovassero Dio e anziché cercare consolazioni per sé si propose di «consolare Gesù, [di] farlo amare dalle anime», perché – annotò Teresa – «Gesù è malato d’amore e [...] la malattia dell’amore non si guarisce che con l’amore» (Lettera a Marie Guérin, luglio 1890).
Ecco allora il proposito di ogni sua giornata: «fare amare Gesù» (Lettera a Céline, 15 ottobre 1889), intercedere perché gli altri lo amassero.
Scrisse: «Vorrei salvare le anime e dimenticarmi per loro: vorrei salvarle anche dopo la mia morte» (Lettera al P.
Roullan, 19 marzo 1897).
Più volte disse: «Passerò il mio cielo a fare del bene sulla terra».
Questo è il primo episodio che le cambiò la vita a 14 anni.
E questo suo zelo era rivolto soprattutto ai peccatori, ai “lontani”.
Lo rivela il secondo episodio.
Teresa viene a conoscenza di un criminale condannato a morte per crimini orribili, si chiamava Enrico Pranzini – lei scrive il nome: ritenuto colpevole del brutale omicidio di tre persone, è destinato alla ghigliottina, ma non vuole ricevere i conforti della fede.
Teresa lo prende a cuore e fa tutto ciò che può: prega in ogni modo per la sua conversione, perché lui che, con compassione fraterna, chiama «povero disgraziato Pranzini», abbia un piccolo segno di pentimento e faccia spazio alla misericordia di Dio, in cui Teresa confida ciecamente.
Avviene l’esecuzione.
Il giorno dopo Teresa legge sul giornale che Pranzini, appena prima di poggiare la testa nel patibolo, «a un tratto, colto da un’ispirazione improvvisa, si volta, afferra un Crocifisso che il sacerdote gli presentava e bacia per tre volte le piaghe sacre» di Gesù.
La santa commenta: «Poi la sua anima andò a ricevere la sentenza misericordiosa di Colui che dichiarò che in Cielo ci sarà più gioia per un solo peccatore che fa penitenza che per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza!» (Manoscritto A, 135).
Fratelli e sorelle, ecco la forza dell’intercessione mossa dalla carità, ecco il motore della missione.
I missionari, infatti, di cui Teresa è patrona, non sono solo quelli che fanno tanta strada, imparano lingue nuove, fanno opere di bene e sono bravi ad annunciare; no, missionario è anche chiunque vive, dove si trova, come strumento dell’amore di Dio; è chi fa di tutto perché, attraverso la sua testimonianza, la sua preghiera, la sua intercessione, Gesù passi.
E questo è lo zelo apostolico che, ricordiamolo sempre, non funziona mai per proselitismo – mai! – o per costrizione – mai! –, ma per attrazione: la fede nasce per attrazione, non si diventa cristiani perché forzati da qualcuno, no, ma perché toccati dall’amore.
Alla Chiesa, prima di tanti mezzi, metodi e strutture, che a volte distolgono dall’essenziale, occorrono cuori come quello di Teresa, cuori che attirano all’amore e avvicinano a Dio.
E chiediamo alla santa – abbiamo le reliquie, qui – chiediamo alla santa la grazia di superare il nostro egoismo e chiediamo la passione di intercedere perché questa attrazione sia più grande nella gente e perché Gesù sia conosciuto e amato.
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Saluti
Je salue cordialement les pèlerins de langue française en particulier les délégations des Diocèses Séez et de Bayeux-Lisieux conduites par leurs évêques respectifs, qui accompagnent les reliques de Sainte Thérèse de l’Enfant Jésus à l’occasion du 150ème anniversaire de sa naissance et du 100ème anniversaire de sa béatification.
Demandons à notre Sainte la grâce d’aimer Jésus comme elle l’a aimé, de Lui offrir nos épreuves et nos peines comme elle l’a fait, pour qu’Il soit connu et aimé de tous.
[Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua francese, in particolare alle delegazioni delle diocesi di Séez e Bayeux-Lisieux, guidate dai rispettivi Vescovi, che accompagnano le reliquie di Santa Teresa di Gesù Bambino nel 150° anniversario della sua nascita e nel 100° anniversario della sua beatificazione.
Chiediamo alla nostra Santa la grazia di amare Gesù come lei Lo ha amato, di offrirGli le nostre prove e i nostri dolori, come lei l’ha fatto, perché sia conosciuto e amato da tutti.]
I extend a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, especially the groups from Scotland, Indonesia and the United States of America.
Upon you and your families I invoke the joy and peace of our Lord Jesus Christ.
God bless you all!
[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua inglese, specialmente ai gruppi provenienti da Scozia, Indonesia e Stati Uniti d’America.
Su tutti voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace del Signore nostro Gesù Cristo.
Dio vi benedica!]
Ein herzliches Willkommen den Pilgern deutscher Sprache.
Die heilige Theresia von Lisieux lädt uns ein, dem Herrn auf dem kleinen Weg nachzufolgen, indem wir uns in all unserem Tun von der Nächstenliebe leiten lassen.
Die Heilige Eucharistie, Sakrament der Liebe, möge uns auf diesem Weg himmlische Speise sein.
[Un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua tedesca.
Santa Teresa di Lisieux ci invita a seguire il Signore nella piccola via, animando ogni nostro gesto con la carità.
La Santissima Eucaristia, Sacramento della Carità, sia il nostro nutrimento celeste su questo cammino.]
Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española.
En este mes del Corazón de Jesús, pidamos al Señor que haga nuestros corazones semejantes al suyo, y que seamos sus instrumentos para que Él pueda “pasar haciendo el bien”.
Como santa Teresita, que vivió entregada a Dios y olvidada de sí misma, amando y consolando a Jesús, e intercediendo por la salvación de todos.
Que Dios los bendiga y la Virgen Santa los cuide.
Muchas gracias.
Saúdo os peregrinos de língua portuguesa, de modo particular quantos vieram do Brasil e Portugal.
A todos vos abençoo, desejando que as vossas comunidades, a começar pela própria família, procurem consolidar-se imitando Jesus que Se deu na Eucaristia fazendo-se alimento para os irmãos! Sede seus comensais devotos e assíduos adoradores!
[Saluto i pellegrini di lingua portoghese, in particolare quanti sono venuti dal Brasile e Portogallo.
Vi benedico tutti, auspicando che le vostre comunità, a cominciare dalla famiglia stessa di ognuno, cerchino di consolidarsi imitando Gesù che si è donato nell’Eucaristia facendosi cibo per i fratelli! Siate suoi devoti commensali e assidui adoratori.]
أُحيِّي المُؤمِنِينَ النَّاطِقِينَ باللُغَةِ العربِيَّة.
الكنيسةُ تحتاجُ إلى قُلوبٍ مِثلَ قلبِ القِدِّيسَةِ تريزا الطِّفلِ يسوع، إلى قلوبٍ تَشُدُّنا إلى الحبِّ وتُقَرِّبُنا مِن الله.
بارَكَكُم الرَّبُّ جَميعًا وَحَماكُم دائِمًا مِنْ كُلِّ شَرّ!
[Saluto i fedeli di lingua araba.
Alla Chiesa occorrono cuori come quello di Santa Teresa di Gesù Bambino, cuori che attirano all’amore e avvicinano a Dio.
Il Signore vi benedica tutti e vi protegga sempre da ogni male!]
Pozdrawiam serdecznie Polaków.
Niech przykład św.
Teresy od Dzieciątka Jezus zachęca wasz naród, by nie ustał jego zapał ewangelizacyjny, także poprzez cenną pracę polskich misjonarzy na peryferiach świata.
Świadczcie o Jezusie przykładem waszego życia, trwajcie w miłości chrześcijańskiej i nie ustawajcie we wspieraniu narodu ukraińskiego.
Z serca wam błogosławię!
[Saluto cordialmente i Polacchi.
L’esempio di Santa Teresa di Gesù Bambino, incoraggi il vostro popolo nello zelo per l'evangelizzazione, anche mediante la preziosa opera dei missionari polacchi nelle periferie del mondo.
Testimoniate Gesù con l'esempio della vostra vita, perseverate nella carità cristiana e nel sostegno nei confronti degli Ucraini.
Vi benedico di cuore!]
* * *
Saluto cordialmente i pellegrini di lingua italiana.
In particolare, la Pia Unione delle Mamme Cristiane della diocesi di Iasi, in Romania, i religiosi dell’Istituto Missioni della Consolata e le suore Missionarie della Consolata che celebrano i rispettivi Capitoli generali.
Cari fratelli e sorelle, vi incoraggio a camminare sempre con gioia nelle vie del Signore.
Sono lieto di accogliere i fedeli della Diocesi di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo, l’Accademia militare di Modena, gli Scout d’Europa cattolici Roma Uno, i partecipanti alla Scuola Arti e mestieri della Fabbrica di San Pietro in Vaticano.
Tutti esorto a scoprire il volto paterno e misericordioso di Dio e a sperimentare la forza rinnovatrice dello Spirito Santo.
Rivolgo ora un pensiero ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli,ispirato alla prossima festa del “Corpus Domini”, che celebra l’Eucaristia, centro e fonte della vita della Chiesa.
Accostatevi con frequenza e con devozione a Gesù, Pane di vita che dona forza, luce e gioia, ed Egli diventerà la sorgente, delle vostre scelte e delle vostre azioni.
Domani, alle ore 13, l’Azione Cattolica Internazionale suggerisce ai credenti delle varie confessioni e religioni di raccogliersi in preghiera, dedicando “Un minuto per la pace”.
Accogliamo questo invito, pregando per la fine delle guerre nel mondo e specialmente per la cara e martoriata Ucraina.
A tutti voi la mia benedizione.
La memoria per costruire il futuro:
pensare e agire termini di comunità
Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!
È bello festeggiare gli anniversari.
La Fondazione Centesimus Annus esiste ormai da trent’anni: tutto ebbe inizio dopo l’Enciclica di San Giovanni Paolo II scritta nel centenario della storica Rerum novarum di Leone XIII.
E il vostro impegno si è posto proprio in questo cammino, in questa “tradizione”: l’impegno, cioè, di studiare e diffondere la Dottrina sociale della Chiesa, cercando di mostrare che non è solo teoria, ma può diventare stile di vita virtuoso con cui far crescere società degne dell’uomo.
La centralità della persona, il bene comune, la solidarietà e la sussidiarietà, in questi trent’anni per voi si sono trasformate in azioni concrete e hanno contagiato il cuore e le azioni di tante persone.
Sono grato alla Fondazione e a tutti voi per il prezioso lavoro che avete compiuto; in particolare, per quanto operato negli ultimi dieci anni attraverso la recezione e il rilancio dei contributi che ho cercato di dare allo sviluppo della Dottrina sociale.
Nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium ho voluto mettere in guardia dal pericolo di vivere l’economia in modo malsano.
«Questa economia uccide» (n.
53), dicevo nel 2013, denunciando un modello economico che produce scarti e che favorisce quella che si può definire “globalizzazione dell’indifferenza”.
Molti di voi operano nel campo economico: sapete bene quanto può essere di giovamento per tutti un modo di immaginare la realtà che ponga al centro la persona, che non sminuisca il lavoratore e che cerchi di creare il bene per tutti.
L’Enciclica Laudato si’ ha messo in luce il danno dovuto al paradigma tecnocratico dominante e ha proposto la logica dell’ecologia integrale, dove “tutto è connesso”, “tutto è in relazione” e la questione ambientale è inscindibile dalla questione sociale, vanno insieme.
La cura dell’ambiente e l’attenzione ai poveri stanno o cadono insieme.
In fondo, nessuno si salva da solo e la riscoperta della fraternità e dell’amicizia sociale è decisiva per non scadere in un individualismo che fa perdere la gioia di vivere.
E fa perdere anche la vita.
Sono contento che in questo Convegno Internazionale abbiate scelto come titolo: “La memoria per costruire il futuro: pensare e agire in termini di comunità”, citando esplicitamente il numero 116 dell’Enciclica Fratelli tutti. In realtà, quelle parole provengono da un discorso rivolto ai movimenti popolari, nel 2014.
In quella occasione dissi: «Solidarietà è una parola che non sempre piace; […] ma è una parola che esprime molto più che alcuni atti di generosità sporadici.
È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni.
È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, della disuguaglianza, della mancanza di lavoro, terra e casa, della negazione dei diritti sociali e lavorativi.
È far fronte agli effetti distruttori dell’impero del denaro: i dislocamenti forzati, le migrazioni dolorose, la tratta di persone, la droga, la guerra, la violenza […].
La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia».
Mi viene in mente – ho parlato di denaro – un passo del Vangelo, quando Gesù dice che non si può servire due padroni: o tu servi Dio, un Signore, o tu servi – e io mi aspettavo che dicesse: il diavolo, ma non dice “il diavolo” – dice: “i soldi”.
O tu servi Dio o tu servi i soldi.
Peggio del diavolo.
Dobbiamo cercare cosa vuol dirci Gesù in questo: c’è un messaggio.
O servi Dio, o sei servo del denaro.
Non sei libero.
Oggi, parlando a voi e pensando al titolo che avete scelto, vorrei aggiungere qualcosa che ho letto da un grande giurista italiano, Paolo Grossi, che è stato anche presidente della Corte Costituzionale e che è morto lo scorso anno.
Egli ha affermato: «La comunità è sempre un salvataggio per il debole e dà voce anche a chi non ha proprio voce» (Grammatiche del diritto, p.
38).
Forse, affinché la comunità diventi davvero un luogo dove il debole e chi non ha voce possa sentirsi accolto e ascoltato, serve da parte di tutti quell’esercizio che potremmo chiamare del “fare spazio”.
Ognuno ritrae un po’ il proprio “io” e questo permette all’altro di esistere.
Ma per questo bisogna che il fondamento della comunità sia l’etica del dono e non quella dello scambio.
In tal senso potremmo citare un poeta milanese, Giampiero Neri, anch’egli recentemente scomparso.
Egli affermava: «Si dice di alcune persone che, quando entrano in una stanza, la occupano tutta.
Dovrei immaginare che, quando se ne vanno, lasciano un grande vuoto.
Sono invece portato a pensare che a lasciare un grande vuoto siano le persone umili, silenziose, che occupano soltanto lo spazio necessario, che si fanno amare».
Cari fratelli e sorelle, pensare e agire in termini di comunità è dunque fare spazio agli altri, è immaginare e lavorare per un futuro dove ciascuno possa trovare il suo posto e avere il suo spazio nel mondo.
Una comunità che sa dar voce a chi non ha voce è ciò di cui tutti abbiamo bisogno.
Il lavoro prezioso della Fondazione Centesimus Annus può essere anche questo: contribuire a un pensiero e a un’azione che favoriscano la crescita di una comunità in cui camminare insieme sulla via della pace.
Benedico tutti voi, benedico i vostri cari.
E vi chiedo per favore di pregare per me.
Grazie.
Cari fratelli e sorelle!
Sono passati più di cinquant’anni da quando si inaugurò a Stoccolma, il 5 giugno 1972, la prima grande Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente Umano.
Essa ha dato il via a varie assise che hanno convocato la comunità internazionale a confrontarsi su come l’umanità sta gestendo la nostra casa comune.
Per questo il 5 giugno è diventato la Giornata Mondiale dell’Ambiente.
Non dimentico, quando sono andato a Strasburgo, che l’allora Presidente Hollande aveva invitato per ricevermi la Ministro dell’Ambiente, la Sig.ra Ségolène Royal, e lì mi ha detto che aveva sentito che stavo scrivendo qualcosa sull’ambiente.
Le dissi di sì, che stavo pensando con un gruppo di scienziati e anche con un gruppo di teologi.
E lei mi ha detto questo: “Per favore, lo pubblichi prima della Conferenza di Parigi”.
E così è stato fatto.
E Parigi è stato proprio un bell’incontro, non per questo mio documento, ma perché l’incontro era di alto livello.
Dopo Parigi, purtroppo… E questo a me preoccupa.
In questa metà di secolo sono cambiate molte cose; basti pensare all’avvento delle nuove tecnologie, all’impatto di fenomeni trasversali e mondiali come la pandemia, alla trasformazione di una «società sempre più globalizzata [che] ci rende vicini, ma non ci rende fratelli».
[1] Abbiamo assistito a una «crescente sensibilità riguardo all’ambiente e alla cura della natura», maturando «una sincera e dolorosa preoccupazione per ciò che sta accadendo al nostro pianeta» (Enc.
Laudato si’, 19).
Gli esperti evidenziano chiaramente come le scelte e le azioni messe in atto in questo decennio avranno impatti per migliaia di anni.
[2] Si è ampliata la nostra conoscenza sull’impatto delle nostre azioni sulla nostra casa comune e su coloro che la abitano e che la abiteranno.
Questo ha accresciuto anche il nostro senso di responsabilità davanti a Dio, che ci ha affidato la cura del creato, davanti al prossimo e davanti alle generazioni future.
«Mentre l’umanità del periodo post-industriale sarà forse ricordata come una delle più irresponsabili della storia, c’è da augurarsi che l’umanità degli inizi del XXI secolo possa essere ricordata per aver assunto con generosità le proprie gravi responsabilità» (ibid., 165).
Il fenomeno del cambiamento climatico ci richiama insistentemente alle nostre responsabilità: esso investe in particolare i più poveri e più fragili, coloro che meno hanno contribuito alla sua evoluzione.
È dapprima una questione di giustizia e poi di solidarietà.
Il cambiamento climatico ci riporta anche a fondare la nostra azione su una cooperazione responsabile da parte di tutti: il nostro mondo è ormai troppo interdipendente e non può permettersi di essere suddiviso in blocchi di Paesi che promuovano i propri interessi in maniera isolata o insostenibile.
«Le ferite portate all’umanità dalla pandemia da Covid-19 e dal fenomeno del cambiamento climatico sono paragonabili a quelle derivanti da un conflitto globale», [3] dove il vero nemico è il comportamento irresponsabile che ha ricadute su tutte le componenti della nostra umanità di oggi e di domani.
Sono venuti a vedermi alcuni anni fa i pescatori di San Benedetto del Tronto, che in un anno sono riusciti a togliere dal mare dodici tonnellate di plastica!
Come «all’indomani della seconda guerra mondiale, è necessario che oggi l’intera comunità internazionale metta come priorità l’attuazione di azioni collegiali, solidali e lungimiranti», [4] riconoscendo «la grandezza, l’urgenza e la bellezza della sfida che ci si presenta» ( Laudato si’, 15).
Una sfida grande, urgente e bella, che richiede una dinamica coesa e propositiva.
Si tratta di una sfida “grande” e impegnativa, perché richiede un cambio di rotta, un deciso cambiamento dell’attuale modello di consumo e di produzione, troppo spesso impregnato nella cultura dell’indifferenza e dello scarto, scarto dell’ambiente e scarto delle persone.
Oggi sono venuti i gruppi del MacDonald's, il ristoratore, e mi hanno detto che hanno abolito la plastica e tutto si fa con carta riciclabile, tutto… In Vaticano è proibita la plastica.
E siamo riusciti al 93%, mi hanno detto, senza plastica.
Sono passi, veri passi che dobbiamo continuare.
Veri passi.
Inoltre, come indicato da più parti nel mondo scientifico, il cambiamento di questo modello è “urgente” e non può essere più rinviato.
Diceva recentemente un grande scienziato – alcuni di voi sicuramente eravate presenti –: “Ieri è nata una mia nipote; non vorrei che la mia nipotina fra trent’anni si trovi in un mondo inabitabile”.
Dobbiamo fare qualcosa.
È urgente, non può essere rinviato.
Dobbiamo consolidare «il dialogo sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta» (ibid., 14), ben consapevoli che vivere «la vocazione di essere custodi dell’opera di Dio è parte essenziale di un’esistenza virtuosa, non costituisce qualcosa di opzionale e nemmeno un aspetto secondario» (ibid., 217) della nostra esperienza di vita.
È, poi, una sfida “bella”, stimolante e realizzabile: passare dalla cultura dello scarto a stili di vita improntati alla cultura del rispetto e della cura, cura del creato e cura del prossimo, vicino o lontano nello spazio e nel tempo.
Ci troviamo davanti a un cammino educativo per una trasformazione della nostra società, una conversione sia individuale che comunitaria (cfr ibid., 219).
Non mancano opportunità e iniziative che mirano ad affrontare seriamente questa sfida.
Saluto qui i rappresentanti di alcune Città di vari Continenti, che mi fanno pensare come questa sfida vada affrontata, in maniera sussidiaria, a tutti i livelli: dalle piccole scelte quotidiane alle politiche locali, a quelle internazionali.
Di nuovo, va richiamata l’importanza di una cooperazione responsabile ad ogni livello.
Abbiamo bisogno del contributo di tutti.
E questo costa.
Ricordo che quei pescatori di San Benedetto del Tronto mi dicevano: “Per noi all’inizio la scelta era un po’ difficile, perché portare plastica invece di pesci non ci faceva guadagnare”.
Ma c’era qualcosa: che l’amore per il creato era più grande.
Ecco la plastica e i pesci… E così sono andati avanti.
Ma costa!
È necessario accelerare questo cambiamento di rotta a favore di una cultura della cura – come si curano i bambini –, che ponga al centro la dignità umana e il bene comune.
E che sia alimentata da «quell’ alleanza tra essere umano e ambiente che dev’essere specchio dell’amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino».
«Non rubiamo alle nuove generazioni la speranza in un futuro migliore».
[6] Grazie di tutto quello che fate.
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[1] Benedetto XVI, Lett.
Enc.
Caritas in veritate (29 giugno 2009), 19.
[2] Cfr IPCC, Climate Change 2023 Synthesis Report, Summary for Policymakers, C.
1., p.
24.
[3] Messaggio al Presidente della COP26, 29 ottobre 2021.
[5] Benedetto XVI, Caritas in veritate, 50.
[6] Video-Messaggio al Climate Ambition Summit, 12 dicembre 2020.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi, Solennità della Santissima Trinità, il Vangelo è tratto dal dialogo di Gesù con Nicodemo (cfr Gv 3,16-18).
Nicodemo era un membro del Sinedrio, appassionato del mistero di Dio: riconosce in Gesù un maestro divino e di nascosto, di notte, va a parlare con Lui.
Gesù lo ascolta, capisce che è un uomo in ricerca e allora prima lo stupisce, rispondendogli che per entrare nel Regno di Dio bisogna rinascere; poi gli svela il cuore del mistero dicendo che Dio ha amato così tanto l’umanità da mandare il suo Figlio nel mondo.
Gesù, dunque, il Figlio, ci parla del Padre e del suo amore immenso.
Padre e Figlio.
È un’immagine familiare che, se ci pensiamo, scardina il nostro immaginario su Dio.
La parola stessa “Dio”, infatti, ci suggerisce una realtà singolare, maestosa e distante, mentre sentir parlare di un Padre e di un Figlio ci riporta a casa.
Sì, possiamo pensare Dio così, attraverso l’immagine di una famiglia riunita a tavola, dove si condivide la vita.
Del resto, quella della mensa, che allo stesso tempo è un altare, è un simbolo con cui certe icone raffigurano la Trinità.
È un’immagine che ci parla di un Dio comunione.
Padre, Figlio e Spirito Santo: comunione.
Ma non è solo un’immagine, è realtà! È realtà perché lo Spirito Santo, lo Spirito che il Padre mediante Gesù ha effuso nei nostri cuori (cfr Gal 4,6), ci fa gustare, ci fa assaporare la presenza di Dio: presenza sempre vicina, compassionevole e tenera.
Lo Spirito Santo fa con noi come Gesù con Nicodemo: ci introduce nel mistero della nuova nascita – la nascita della fede, della vita cristiana –, ci svela il cuore del Padre e ci rende partecipi della vita stessa di Dio.
L’invito che ci rivolge, potremmo dire, è quello di stare a tavola con Dio per condividere il suo amore.
Questa è l’immagine.
Questo è ciò che succede in ogni Messa, all’altare della mensa eucaristica, dove Gesù si offre al Padre e si offre per noi.
E sì, è così, fratelli e sorelle, il nostro Dio è comunione d’amore: così ce lo ha rivelato Gesù.
E sapete come possiamo fare a ricordarlo? Con il gesto più semplice, che abbiamo imparato da bambini: il segno della croce.
Tracciando la croce sul nostro corpo ci ricordiamo quanto Dio ci ha amato, fino a dare la vita per noi; e ripetiamo a noi stessi che il suo amore ci avvolge completamente, dall’alto in basso, da sinistra a destra, come un abbraccio che non ci abbandona mai.
E al tempo stesso ci impegniamo a testimoniare Dio-amore, creando comunione nel suo nome.
Forse adesso, ognuno di noi, e tutti insieme, facciamo il segno della croce su di noi [fa il segno della croce].
Oggi allora possiamo chiederci: noi testimoniamo Dio-amore? Oppure Dio-amore è diventato a sua volta un concetto, qualcosa di già sentito, che non smuove e non provoca più la vita? Se Dio è amore, le nostre comunità lo testimoniano? Sanno amare? Le nostre comunità sanno amare? E la nostra famiglia, sappiamo amare in famiglia? Teniamo la porta sempre aperta, sappiamo accogliere tutti, sottolineo tutti, come fratelli e sorelle? Offriamo a tutti il cibo del perdono di Dio e la gioia evangelica? Si respira aria di casa o assomigliamo più a un ufficio o a un luogo riservato dove entrano solo gli eletti? Dio è amore, Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo e ha dato la vita per noi, per questo facciamo il segno della croce.
E Maria ci aiuti a vivere la Chiesa come quella casa in cui si ama in modo familiare, a gloria di Dio Padre e Figlio e Spirito Santo.
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Dopo l'Angelus
Cari fratelli e sorelle!
Assicuro la mia preghiera per le numerose vittime dell’incidente ferroviario avvenuto due giorni fa in India.
Sono vicino ai feriti e ai familiari.
Il Padre celeste accolga nel suo regno le anime dei defunti.
Saluto voi, romani e pellegrini d’Italia e di tanti Paesi, in particolare i fedeli provenienti da Villa Alemana (Cile) e i ragazzi della Cresima di Cork (Irlanda).
Saluto i gruppi di Poggiomarino, Roccapriora, Macerata, Recanati, Aragona e Mestrino; come pure i ragazzi della Cresima e della Prima Comunione di Santa Giustina in Colle.
Un saluto speciale ai rappresentanti dell’Arma dei Carabinieri, che ringrazio per la vicinanza quotidiana alla popolazione; la Virgo Fidelis, vostra Patrona, protegga voi e le vostre famiglie.
A Lei, Madre premurosa, affido le popolazioni provate dal flagello della guerra, specialmente la cara e martoriata Ucraina.
Saluto tutti, anche i ragazzi dell’Immacolata che sono bravi, e auguro una buona domenica.
E per favore non dimenticatevi di pregare per me.
Grazie, buon pranzo e arrivederci!
Cari fratelli e sorelle, benvenuti!
È bello incontrare voi, che rappresentate le comunità di origine di due Papi santi, ai quali il Popolo di Dio è tanto affezionato: Giovanni XXIII e Paolo VI.
Ed è significativo che questo avvenga in occasione di tre ricorrenze importanti per tutta la Chiesa: il 60° anniversario della Lettera Enciclica Pacem in terris, della nascita al cielo di Papa Giovanni e dell’elezione di Papa Montini.
Siamo qui insieme, dunque, a rendere grazie al Signore perché dalle vostre comunità ha scelto due Santi Pastori che hanno saputo guidare la Chiesa in tempi di grandi entusiasmi e però altrettanto di grandi domande e sfide.
Hanno vissuto come protagonisti l’ondata di nuova vitalità che ha accompagnato il Concilio Vaticano II e hanno dovuto affrontare gravi pericoli come il terrorismo e la “guerra fredda”.
E di fronte a tutto questo la storia ci testimonia che sono stati “pastori secondo il cuore di Dio” (cfr Ger 3,15), che hanno saputo cercare la pecora perduta, ricondurre la smarrita, fasciare la ferita, rafforzare quella malata, prendersi cura della grassa e della forte, pascere con giustizia e misericordia (cfr Ez 34,16).
Rendiamo grazie al Signore prima di tutto per averceli donati.
Per averli donati alle vostre comunità come figli e fratelli, cresciuti tra le vostre strade, dove hanno lasciato le tracce del loro cammino di santità, al punto che ancora oggi i luoghi della loro presenza sono meta di pellegrinaggio per tanti uomini e donne che vi si recano dall’Italia e dall’estero.
Essi trovano da voi conforto e sostegno, e al tempo stesso rendono la vostra terra più viva e ricca nella fede.
Rendiamo però grazie al Signore anche perché ha reso voi, loro concittadini, cooperatori di questo dono.
Essi hanno potuto essere grandi Pastori, infatti, prima di tutto perché sulla loro strada hanno incontrato buoni compagni di cammino, testimoni del Vangelo che li hanno aiutati a crescere nella fede, fino ad accendere in loro la luce della chiamata.
Prima di tutto le loro famiglie, diverse per estrazione e contesto, ma accomunate dalla stessa solida pietà cristiana, vissuta da una parte nel duro lavoro dei campi e dall’altra nel serio impegno culturale e sociale.
Fratelli e sorelle, vi dico una cosa: Dio non fa i santi in laboratorio, no, li costruisce in grandi cantieri, in cui il lavoro di tutti, sotto la guida dello Spirito Santo, contribuisce a scavare profondo, a porre solide fondamenta e a realizzare la costruzione, ponendo ogni cura perché cresca ordinata e perfetta, con Cristo come pietra angolare (cfr Ef 2,21-22).
Questa è l’aria che hanno respirato fin da piccoli Angelo e Giovanni Battista a Sotto il Monte e a Concesio, con tutto il bene che ne è derivato: quello che hanno donato e ricevuto!
Rendiamo grazie al Signore perché ha dato loro, nei vostri paesi, una terra fertile e ricca di santità in cui porre le radici e crescere, e perché fa anche di voi, come già dei vostri genitori, dei vostri nonni, e di tanti che hanno vissuto, amato, lavorato, seminato e raccolto, gioito e pianto nelle vostre cittadine e nelle vostre campagne, un suolo buono e generoso, in cui piccoli semi di bene possono germogliare e crescere per il futuro.
Vengono alla mente le parole che San Paolo rivolge al suo discepolo e compagno di apostolato Timoteo: «Mi ricordo […] della tua schietta fede, che ebbero anche tua nonna Loide e tua madre Eunice, e che ora, ne sono certo, è anche in te» (2 Tm 1,5).
Anche San Timoteo è stato un grande Pastore, e anche lui ha imparato alla scuola di vita di sua nonna e di sua mamma, in una famiglia e in una comunità.
Fate sempre tesoro delle vostre radici.
Voglio ripeterlo: fate sempre tesoro delle vostre radici, non tanto per trasformarle in un blasone o in un baluardo da difendere, quanto piuttosto come di una ricchezza da condividere.
La terra si lavora insieme, si lavora per tutti e si lavora in pace; con la guerra, l’egoismo e la divisione si riesce solo a devastarla, come purtroppo stiamo vedendo in tante parti del mondo e in modi diversi.
Amare le vostre radici sia dunque per voi amare il Vangelo di Gesù e amare come Gesù ha amato nel Vangelo! Questo vi insegna la vostra storia di terra e di Chiesa.
E dalle vostre radici viene la linfa per andare avanti, per crescere, e anche per dare una storia e un senso della vita ai vostri figli e ai vostri nipoti.
Amate le vostre radici, non staccate l’albero dalle radici: non darà frutto.
Cercate di progredire sempre in armonia con le vostre radici, in sintonia con le vostre radici.
Nel pellegrinaggio che state facendo volete ricordare anche l’anniversario dell’Enciclica Pacem in terris.
Mi sembra opportuno richiamare in questo contesto quanto San Giovanni XXIII afferma in essa sul valore di una pace fondata sulla giustizia, sull’amore, sulla verità, sulla libertà, fondata sul rispetto della dignità delle persone e dei popoli (cfr nn.
18-19).
Anche questi sono valori che certo ha imparato e conosciuto prima di tutto nelle campagne della bergamasca; e lo stesso vale per San Paolo VI nelle terre bresciane.
I vostri due capoluoghi, Bergamo e Brescia, insieme, sono stati scelti per essere “Capitale italiana della Cultura” per il 2023.
È un segno in più che ci porta nella stessa direzione.
La vera cultura si fa infatti uniti, nel dialogo e nella ricerca comune e – come ci ha insegnato San Paolo VI – mira a condurre «attraverso l’aiuto vicendevole, l’approfondimento del sapere, l’allargamento del cuore, a una vita più fraterna in una comunità umana veramente universale» (Enc.
Populorum progressio, 85).
La cultura è amante della verità e del bene, per l’uomo, per la società e per il creato.
Possiate continuare a coltivarla, prima di tutto nelle vostre case e nelle vostre parrocchie, per portare avanti la missione che ci hanno affidato i due santi Papi a cui avete dato i natali.
Grazie, grazie tante di essere venuti! La Madonna vi accompagni e vi custodisca nella fede, nella speranza e nella carità! Vi benedico tutti di cuore.
Non dimenticate le radici! E, vi raccomando, non dimenticatevi pure di pregare per me.
Grazie.
Eminenza, Eccellenze,
cari Direttori Nazionali delle Pontificie Opere Missionarie e collaboratori del Dicastero per l’Evangelizzazione,
fratelli e sorelle, buongiorno!
Vi saluto con gioia in occasione dell’Assemblea generale annuale delle Pontificie Opere Missionarie.
Saluto il Cardinale Pro-Prefetto, l’Arcivescovo Presidente Emilio Nappa e tutti voi, che operate al servizio della missione di evangelizzazione della Chiesa.
In questo momento storico, mentre portiamo avanti il processo sinodale, è importante ricordare che la Comunità cristiana è per sua natura missionaria.
Ogni cristiano, infatti, ha ricevuto in dono lo Spirito Santo ed è inviato a continuare l’opera di Gesù, annunciando a tutti la gioia del Vangelo e portando la sua consolazione nelle diverse situazioni della nostra storia spesso ferita.
Chi si lascia attrarre dall’amore di Cristo diventando suo discepolo sente anche il desiderio di portare a tutti la misericordia e la compassione che sgorgano dal suo Cuore.
La missionarietà non è una cosa naturale.
Naturalmente noi cerchiamo le comodità, sempre, che sia tutto in ordine… È stato necessario che venisse lo Spirito Santo a fare quel “disordine” tremendo che è stata la mattina di Pentecoste, perché lo Spirito per creare la missionarietà, per creare la vita della Chiesa è creatore del disordine, ma poi fa l’armonia.
Ambedue le cose sono dello Spirito Santo.
Vorrei invitarvi proprio alla contemplazione del Cuore di Gesù, di cui ricorre la solennità in questo mese di giugno.
Guardando al suo cuore misericordioso e compassionevole, possiamo riflettere sul carisma e sulla missione delle Pontificie Opere Missionarie.
1.
Il Cuore di Gesù e la missione. Anzitutto, contemplando il Cuore di Cristo, scopriamo la grandezza del progetto di Dio per l’umanità.
Il Padre, infatti, «ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
Nel Cuore trafitto del Crocifisso possiamo scoprire la misura infinita dell’amore del Padre: ci ama di amore eterno; ci chiama ad essere suoi figli e a condividere la gioia che viene da Lui; ci viene a cercare quando siamo perduti; ci rialza quando cadiamo e ci fa rinascere dalla morte.
Gesù stesso ci parla così dell’amore del Padre, ad esempio quando afferma: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto mi ha dato» (Gv 6,39).
Carissimi, questo ci ha mostrato Gesù in tutta la sua vita: nella compassione per coloro che erano feriti, nella commozione dinanzi al dolore, nella misericordia con cui ungeva i peccatori, nella sua immolazione per il peccato del mondo.
Ci ha manifestato il cuore di Dio, come quello di un Padre che sempre ci aspetta, ci da lontano ci vede, ci viene incontro a braccia aperte; un Padre che non respinge nessuno, ma accoglie tutti; non esclude nessuno, ma chiama tutti.
Mi è piaciuta un’opera giovanile di stile pop sulla parabola del figlio prodigo.
A un certo punto dello spettacolo, il figlio prodigo racconta a un amico che gli manca il papà.
“Insomma, io vorrei tornare, perché mi manca papà, ma non posso, sicuramente papà non mi accetterà”.
E l’amico gli dice: “Scrivi una lettera e digli che la tua volontà è tornare a casa, chiedi scusa e digli che, se lui vuole accoglierti, prenda un fazzoletto bianco e lo metta sulla finestra della casa”.
Lo spettacolo continua e alla fine, quando già il figlio sta arrivando a casa e si vede la casa, si vede che è piena di fazzoletti bianchi.
Questo dice che l’amore, il perdono di Dio non ha misura, non ha misura.
Dobbiamo andare su questa strada con questa fiducia.
Noi siamo stati inviati a continuare questa missione: essere segno del Cuore di Cristo e dell’amore del Padre, abbracciando il mondo intero.
Qui troviamo il “cuore” della missione evangelizzatrice della Chiesa: raggiungere tutti con il dono dell’amore infinito di Dio, cercare tutti, accogliere tutti, offrire la vita per tutti senza escludere nessuno.
Tutti.
Questa è la parola-chiave.
Quando il Signore ci racconta di quella festa di nozze (cfr Mt 22,1-14), che è andata male perché gli invitati non sono venuti: uno perché aveva comprato una mucca, un altro perché doveva viaggiare, un altro che si era sposato… cosa dice il Signore? Andate agli incroci delle strade e invitate tutti, tutti: sani e malati, cattivi, buoni, peccatori…tutti.
Questo è al cuore della missione: quel “tutti”.
Senza escludere nessuno.
Tutti.
Ogni nostra missione, quindi, nasce dal Cuore di Cristo per lasciare che Egli attiri tutti a sé.
E questo è lo spirito mistico e missionario della Beata Pauline Marie Jaricot, fondatrice dell’Opera per la Propagazione della Fede, che è stata tanto devota al Sacro Cuore di Gesù.
2.
Il carisma delle Pontificie Opere Missionarie oggi.
In questa prospettiva, vorrei ribadire ancora una volta quanto ho già sottolineato nella Costituzione Praedicate Evangelium, nella quale ho voluto ricordare la vocazione delle POM ad essere «strumenti di promozione e di responsabilità missionaria di ogni battezzato e per il sostegno alle nuove Chiese particolari» (art.
67 § 1).
Le POM, quindi, non sono una mera agenzia di distribuzione di fondi per chi ha bisogno di aiuto, ma una realtà chiamata a sostenere la «missione evangelizzatrice nella Chiesa universale e in quelle locali» e ad «alimentare lo spirito missionario nel Popolo di Dio» (Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2022, 3).
Vi esorto, perciò, a intensificare ancora di più, con l’audacia e la fantasia dello Spirito Santo, le varie attività di animazione, informazione e formazione dello spirito missionario.
Vi invito a promuovere la responsabilità missionaria dei battezzati, valorizzando la rete capillare delle direzioni nazionali, sia nei Paesi di prima evangelizzazione sia in quelli di antica tradizione cristiana, che forse hanno bisogno di un’altra prima evangelizzazione; questi, lo sappiamo, sono segnati da una seria crisi della fede e necessitano di una rinnovata evangelizzazione e di conversione pastorale.
Per favore, non ridurre le POM ai soldi! Questo è un mezzo.
Ci vogliono i soldi, sì, ma non ridurle a questo.
Sono qualcosa di più grande dei soldi.
I soldi sono quello di cui abbiamo bisogno per andare avanti.
Perché se manca la spiritualità ed è soltanto un’impresa di soldi, subito viene la corruzione; abbiamo visto anche oggi sui giornali si vedono storie di presunte corruzioni in nome della missionarietà della Chiesa.
3.
Prospettive e sogni per il rinnovamento. Alla luce di tutto ciò, permettetemi infine di sognare con voi “a occhi aperti”, cioè di guardare lontano insieme a voi, verso quelle prospettive che le POM sono chiamate a percorrere a servizio della missione evangelizzatrice di tutta la Chiesa.
Il sogno più grande è quello di una cooperazione missionaria sempre più stretta e coordinata tra tutti i membri della Chiesa.
In questo processo voi avete un ruolo importante, che vi viene ricordato anche dal motto di padre Manna per la Pontificia Unione Missionaria: «Tutta la Chiesa per tutto il mondo».
Vi confermo nella chiamata a diventare lievito, per contribuire a promuovere e favorire lo stile missionario nella Chiesa e il sostegno alle opere di evangelizzazione.
Questa chiamata, che esige da voi una particolare attitudine a coltivare la comunione e la fraternità, si realizza anche attraverso le strutture stabilite in tutte le Conferenze episcopali e diocesi per il bene dell’intero Popolo di Dio.
È significativo il fatto che i fondatori delle Opere erano un vescovo, un sacerdote e due laiche, vale a dire rappresentanti di diverse categorie di battezzati: è un segno che ci impegna a coinvolgere tutti i membri del Popolo di Dio nell’animazione missionaria! Non smettiamo di sognare «una nuova stagione dell’azione missionaria delle comunità cristiane» (Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2022, 3).
Per favore, teniamo vivo questo sogno!
Ringrazio voi qui presenti e tutti i collaboratori e le collaboratrici per il servizio generoso, spesso svolto “dietro le quinte” e tra tante difficoltà.
Vi auguro di ardere sempre di zelo apostolico e di essere animati dalla passione per l’evangelizzazione.
Portate con gioia il Vangelo, perché si diffonda nel mondo intero, e che la Madonna vi accompagni come Madre! Vi benedico di cuore.
E, per favore, pregate per me.
Grazie.
Cari fratelli e sorelle,
Vi ringrazio per questa iniziativa d’incontro tra imprenditori dell’America Latina per affrontare temi sociali che ci riguardano tutti, come il lavoro, le migrazioni, il cambiamento climatico e lo sviluppo umano integrale, tra gli altri.
Ho constatato che in questo tempo le stesse preoccupazioni che nutrite voi sono presenti anche in altri punti del pianeta, e perciò lo scambio ci può aiutare a unire le forze per affrontare insieme problemi che in questo momento sono comuni a tutta la famiglia umana.
Come ho già detto a un gruppo di imprenditori europei, è imprescindibile focalizzare il lavoro partendo da una cultura dell’incontro.
I valori di questa cultura sono quelli che ispirano il mondo imprenditoriale perché possa difendersi dalle ombre del male, che ci invadono quando il profitto a ogni costo distorce i nostri rapporti, al punto da svilire e schiavizzare le persone stesse.
La cultura dell’incontro, al contrario, esprime la ricerca del bene comune, contribuendo così a dissipare quelle ombre.
E questi valori si traducono concretamente nei numerosi sforzi e sacrifici quotidiani che le vostre imprese compiono per andare avanti, per riuscire a formare e aggiornare i lavoratori, per evitare conflitti e non giungere al dolore del licenziamento, consapevoli anche del fatto che dietro ogni lavoratore c’è una famiglia, e l’intera società.
Vi propongo, pertanto, di essere come i primi seguaci di Gesù, “costruttori di reti”.
Questo era il loro lavoro, per poter pescare.
Loro, per esercitare il mestiere di pescatori, hanno avuto bisogno di tessere reti e reti forti ed efficaci.
Così anche voi, per poter affrontare il mare del mondo e le tempeste che si presentano, conseguendo il fine che si persegue, dovete essere uniti, creando reti, aiutandovi gli uni gli altri.
Il servizio che realizzate non è astratto, ma a ogni persona e a ogni popolo, è un servizio a ogni persona, un servizio a ogni popolo, e per questo è necessario agire insieme, senza passare sopra nessuno e senza lasciare nessuno indietro.
Una sfida abbastanza complessa.
È significativo che abbiate scelto di venire a Roma per realizzare questo incontro.
Qui ci sono la tomba dell’apostolo Pietro — un esperto nel tessere e riparare reti — e le tracce di numerosi discepoli del Signore di tutti i tempi che, con la loro testimonianza quotidiana e mossi dalla fede, sono stati capaci — con la grazia di Dio — di trasformare l’ambito in cui vivevano alla luce del Vangelo.
Che questi esempi aiutino anche voi a rinnovarvi interiormente per andare avanti.
Possiamo allora dire che abbiamo uno strumento prezioso: le reti, e una bussola: il Vangelo.
Ora bisogna dialogare sul modo migliore di utilizzarli.
Potremmo aggiungere che abbiamo anche un’ancora: la speranza.
E quindi possiamo uscire a navigare, fiduciosi che è Dio a guidarci e ad accompagnarci nel cammino.
Che Gesù vi benedica, che benedica le vostre famiglie e quanti fanno parte delle vostre imprese, e che la Vergine vi custodisca.
E, per favore, vi chiedo di non dimenticarvi di pregare per me.
_______________________________________________
L'Osservatore Romano, Anno CLXIII n.
126, giovedì 1 giugno 2023, p.
8.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Sono contento di accogliervi oggi insieme alla novità importante che portate con voi, quella del “Patto Educativo Africano”.
So che questo Patto è frutto del Simposio Internazionale che avete celebrato nel novembre scorso a Kinshasa, con il patrocinio della Conferenza Episcopale del Congo, organizzato dalla Fondazione Internazionale Religioni e Società e dall’Università Cattolica del Congo.
In quel Simposio, al quale hanno partecipato numerosi vescovi, sacerdoti, scienziati e studiosi di vari Paesi africani, e non solo, avete declinato in stile africano il Patto Educativo Globale, da me lanciato nel settembre 2019.
Mi congratulo con voi, perché siete stati i primi a realizzare un Patto educativo continentale.
Avete dimostrato di aver ben compreso quanto mi prefiggevo con questa iniziativa, cioè che il Patto educativo globale dovesse diventare una realtà locale, frutto di riflessioni svolte a partire dal proprio contesto e dalle proprie risorse culturali, e che fosse attento ai bisogni educativi del territorio.
Come sapete, fin dall’inizio, ho pensato questo progetto all’insegna di un proverbio della saggezza vostra africana, per sottolineare quella dimensione comunitaria dell’educazione che da sempre fa parte della vostra millenaria tradizione educativa: “Per educare un bambino, ci vuole un villaggio intero”.
Si tratta di un’alleanza educativa siglata idealmente da tutti gli appartenenti del villaggio, per i quali il compito di accompagnare ogni figlio non è responsabilità esclusiva del papà e della mamma, ma di tutti i membri della comunità.
Tutti, pertanto, hanno il dovere di sostenere l’educazione, che è sempre un processo corale.
Nell’educazione dobbiamo rischiare di più e fare coro.
Nello scorso febbraio, parlando alle Pontificie Istituzioni Accademiche ed educative, dicevo: «Fate coro».
Lo stesso dico all’Africa: “Fate coro!”.
Questa dimensione comunitaria dell’esistenza è espressa perfettamente nel famoso aforisma africano “Io sono perché noi siamo”.
Il Patto Educativo Africano dovrebbe contribuire, oltre che a recuperare e rafforzare questa dimensione comunitaria e orizzontale delle relazioni, anche a evidenziare l’altra dimensione, altrettanto antica, quella verticale: la relazione con Dio.
Alcuni popoli africani, come sappiamo, arrivarono a concepire il monoteismo ben prima di molte altre civiltà.
In seguito, l’Africa si è aperta con molto entusiasmo all’annuncio cristiano ed è attualmente il continente che vede crescere maggiormente il numero di cristiani e cattolici.
Pertanto il Patto Educativo Africano, oltre che sul motto “io sono perché noi siamo”, si fonda, con giusto orgoglio, sull’affermazione: “io sono perché noi siamo e crediamo”.
C’è la fede lì.
Voi, Fratelli, siete i pastori del continente più giovane del mondo: la vostra ricchezza più grande sono proprio loro, i giovani.
Quando ho avuto quell’incontro online con i giovani universitari africani sono rimasto colpito dal livello di intelligenza di quei giovani: svelti, intelligenti.
Vi esorto ad ascoltare la voce dei giovani e le loro idee, senza autoritarismi: lo Spirito parla anche attraverso di loro, e sono sicuro che sapranno suggerirvi cose belle e sorprendenti.
Possiate investire le migliori energie per la loro educazione.
Dopo le politiche di educazione di massa, che hanno caratterizzato i primi decenni del post colonialismo, è tempo ora di lavorare insieme ai governi locali per la qualificazione sempre maggiore dell’educazione, soprattutto formando bene gli insegnanti, valorizzandoli e creando le condizioni necessarie per l’esercizio dignitoso della loro professione.
Guardiamo l’Africa con molta fiducia, perché ha tutto quanto le serve per essere un continente capace di tracciare i cammini futuri.
Mi riferisco non solo alle grandi risorse minerarie e ai progressi economici e nei processi di pace, penso soprattutto alle risorse educative: i valori dell’educazione tradizionale africana, soprattutto quelli dell’ospitalità, dell’accoglienza, della solidarietà, sono valori che si integrano perfettamente nel Patto Educativo.
Il cristianesimo si sposa con la parte migliore di ogni cultura e aiuta a purificare ciò che non è autenticamente umano, e quindi neppure divino.
Potete contare sulla riflessione di tanti filosofi e pedagogisti africani.
Così pure potete imitare l’esempio di tante figure di educatori missionari e di statisti educatori come, per esempio, Nelson Mandela che nel suo Paese oppresso dall’apartheid ha ricostruito l’unità tra le diverse razze attraverso la riconciliazione e l’educazione.
Egli infatti sosteneva che l’educazione è lo strumento più potente che si possa usare per cambiare il mondo.
Potete ispirarvi anche a un altro grande statista, il servo di Dio Julius Nyerere, chiamato “maestro”, che seppe dar vita a politiche educative per la crescita di tutti i suoi connazionali, indipendentemente dalle condizioni economiche o sociali.
Egli era sostenuto dalla sua fede cattolica e affermava che senza la celebrazione eucaristica sarebbe stato impossibile per lui compiere il suo lavoro.
Cari fratelli e sorelle, con il Patto Educativo Africano confermate ancora una volta quello che diceva Plinio il Vecchio: «Ex Africa semper aliquid novi», «Dall’Africa sorge sempre qualcosa di nuovo».
Questo Patto è una novità che si sviluppa a partire da due grandi radici: la cultura tradizionale e la fede cristiana.
E, come dice un altro proverbio africano, “quando le radici sono profonde, non c’è motivo di temere il vento”.
Vi ringrazio per il vostro impegno e mi auguro che il Patto Educativo Africano sia seguito anche dagli altri continenti. La Vergine Maria, Madre dell’Africa, vi accompagni.
Di cuore vi benedico e vi chiedo per favore di pregare per me.
Catechesi.
La passione per l’evangelizzazione: lo zelo apostolico del credente.
15. Testimoni: il Venerabile Matteo Ricci
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Noi continuiamo in queste catechesi parlando sullo zelo apostolico, cioè quello che sente il cristiano per portare avanti l’annuncio di Gesù Cristo.
E oggi vorrei presentare un altro grande esempio di zelo apostolico: noi abbiamo parlato di San Francesco Saverio, di San Paolo, lo zelo apostolico dei grandi zelanti; oggi parleremo di uno – italiano – ma che è andato in Cina: Matteo Ricci.
Originario di Macerata, nelle Marche, dopo aver studiato nelle scuole dei Gesuiti ed essere entrato egli stesso nella Compagnia di Gesù, entusiasmato dalle relazioni dei missionari che ascoltava e si è entusiasmato, come tanti altri giovani che sentivano quello, chiese di essere inviato nelle missioni dell’Estremo Oriente.
Dopo il tentativo di Francesco Saverio, altri venticinque Gesuiti avevano provato inutilmente ad entrare in Cina.
Ma Ricci e un suo confratello si prepararono molto bene, studiando accuratamente la lingua e i costumi cinesi, e alla fine riuscirono a ottenere di stabilirsi nel sud del Paese.
Ci vollero diciotto anni, con quattro tappe attraverso quattro città differenti, prima di arrivare a Pechino, che era il centro.
Con costanza e pazienza, animato da una fede incrollabile, Matteo Ricci poté superare difficoltà, pericoli, diffidenze e opposizioni.
Pensate in quel tempo, camminare o andare a cavallo, tante distanze … e lui andava avanti.
Ma qual è stato il segreto di Matteo Ricci? Per quale strada lo zelo lo ha spinto?
Lui ha seguito sempre la via del dialogo e dell’amicizia con tutte le persone che incontrava, e questo gli ha aperto molte porte per l’annuncio della fede cristiana.
La sua prima opera in lingua cinese fu proprio un trattato Sull’amicizia, che ebbe grande risonanza.
Per inserirsi nella cultura e nella vita cinese in un primo tempo si vestiva come i bonzi buddisti, all’usanza del Paese, ma poi capì che la via migliore era quella di assumere lo stile di vita e le vesti dei letterati, come i professori universitari, i letterati vestivano: e lui vestiva così.
Studiò in modo approfondito i loro testi classici, così da poter presentare il cristianesimo in dialogo positivo con la loro saggezza confuciana e con gli usi e i costumi della società cinese.
E questo si chiama un atteggiamento di inculturazione.
Questo missionario ha saputo “inculturare” la fede cristiana in dialogo, come i Padri antichi con la cultura greca.
La sua ottima preparazione scientifica suscitava interesse e ammirazione da parte degli uomini colti, a cominciare dal suo famoso mappamondo, la carta del mondo intero allora conosciuto, con i diversi continenti, che rivela ai cinesi per la prima volta una realtà esterna alla Cina assai più ampia di quanto avessero mai pensato.
Fa vedere loro che il mondo è più grande della Cina, e loro capivano – perché erano intelligenti.
Ma anche le conoscenze matematiche e astronomiche di Ricci e dei missionari suoi seguaci contribuirono a un incontro fecondo fra la cultura e la scienza dell’occidente e dell’oriente, che vivrà allora uno dei suoi tempi più felici, nel segno del dialogo e dell’amicizia.
Infatti, l’opera di Matteo Ricci non sarebbe mai stata possibile senza la collaborazione dei suoi grandi amici cinesi, come i famosi “Dottor Paolo” (Xu Guangqi) e “Dottor Leone” (Li Zhizao).
Tuttavia, la fama di Ricci come uomo di scienza non deve oscurare la motivazione più profonda di tutti i suoi sforzi: cioè, l’annuncio del Vangelo.
Lui, con il dialogo scientifico, con gli scienziati, andava avanti ma dava testimonianza della propria fede, del Vangelo.
La credibilità ottenuta con il dialogo scientifico gli dava autorevolezza per proporre la verità della fede e della morale cristiana, di cui egli parla in modo approfondito nelle sue principali opere cinesi, come Il vero significato del Signore del Cielo – così si chiama quel libro.
Oltre alla dottrina, sono la sua testimonianza di vita religiosa, di virtù e di preghiera: questi missionari pregavano.
Andavano a predicare, si muovevano, facevano mosse politiche, tutto quanto: ma pregavano.
È la preghiera che alimenta la vita missionaria, una vita di carità, aiutavano gli altri, umili, in totale disinteresse per onori e ricchezze, che inducono molti dei suoi discepoli e amici cinesi ad accogliere la fede cattolica.
Perché vedevano un uomo così intelligente, così saggio, così furbo – nel senso buono della parola – per portare avanti le cose, e così credente che dicevano: “Ma, quello che predica è vero perché è detto da una personalità che dà testimonianza: testimonia con la propria vita quello che annuncia”.
Questa è la coerenza degli evangelizzatori.
E questo tocca tutti noi cristiani che siamo evangelizzatori.
Io posso dire il “Credo” a memoria, posso dire tutte le cose che noi crediamo, ma se la tua vita non è coerente con quello che professi non serve a nulla.
Quello che attira le persone è la testimonianza di coerenza: noi cristiani siamo chiamati a vivere quello che diciamo, e non far finta di vivere come cristiani ma vivere come mondani.
Guardate questi grande missionari – come Matteo Ricci che è un italiano – guardando questi grandi missionari, vedrete che la forza più grande è la coerenza: sono coerenti.
Negli ultimi giorni della sua vita, a chi gli stava più vicino e gli domandava come si sentisse, Matteo Ricci «rispose che stava pensando in quel momento se era più grande la gioia e l’allegria che provava interiormente all’idea che stava vicino al suo viaggio per andare a gustare Dio, o la tristezza che gli poteva causare il lasciare i compagni di tutta la missione che amava grandemente, e il servizio che poteva ancora fare a Dio Nostro Signore in questa missione» (S.
De Ursis, Relazione su M.Ricci, Archivio Storico Romano S.I.).
È lo stesso atteggiamento dell’apostolo Paolo (cfr Fil 1,22-24), che voleva andarsene dal Signore, trovare il Signore ma “rimango per servire voi”.
Matteo Ricci muore a Pechino nel 1610, all’età di 57 anni, un uomo che ha dato tutta la vita per la missione.
Lo spirito missionario di Matteo Ricci costituisce un modello vivo attuale.
Il suo amore per il popolo cinese è un modello; ma ciò che rappresenta una strada attuale è la sua coerenza di vita, la testimonianza della sua vita come cristiano.
Lui ha portato il cristianesimo in Cina; lui è grande sì, perché è un grande scienziato, lui è grande perché è coraggioso, lui è grande perché ha scritto tanti libri, ma soprattutto lui è grande perché è stato coerente con la sua vocazione, coerente con quella voglia di seguire Gesù Cristo.
Fratelli e sorelle, oggi noi, ognuno di noi, domandiamoci dentro: “Sono coerente, o sono un po’ così così?”.
___________________________________
Saluti
Je salue cordialement les personnes de langue française, en particulier les pèlerins venus du Gabon, de Dijon, de l’ile de la Réunion, ainsi que les collégiens de saint Joseph et Sainte Croix de Neuilly.
Le Seigneur nous envoie annoncer à tous la Bonne Nouvelle de l’amour miséricordieux de Dieu pour tout homme.
Demandons-lui la grâce de porter par notre vie, à la manière de Mateo Ricci, un témoignage crédible de la foi par la fraternité et l’amitié vécues avec tout homme.
Que Dieu vous bénisse.
[Saluto cordialmente le persone di lingua francese, in particolare i pellegrini del Gabon, di Digione e dell'Isola della Riunione, nonché gli alunni delle scuole San Giuseppe e Santa Croce di Neuilly.
Il Signore ci ha mandato a proclamare la Buona Novella dell'amore misericordioso di Dio per tutti.
Chiediamogli la grazia di usare la nostra vita, ad imitazione di Matteo Ricci, per dare una testimonianza credibile della fede attraverso la fraternità e l'amicizia con tutti gli uomini.
Dio vi benedica.]
I extend a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, especially the groups from England, Malta, Indonesia, Malaysia and the United States of America.
In a special way, I greet the many groups of university students.
Upon you and your families I invoke the joy and peace of our Lord Jesus Christ.
God bless you all!
[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua inglese, specialmente ai gruppi provenienti da Inghilterra, Malta, Nigeria, Indonesia, Malaysia e Stati Uniti d’America.
Rivolgo un saluto particolare ai numerosi gruppi di giovani universitari.
Su tutti voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace del Signore nostro Gesù Cristo.
Dio vi benedica!]
Einen herzlichen Gruß richte ich an die Pilger deutscher Sprache! Der Heilige Geist, Seele der Kirche, helfe jedem von uns, allen alles zu werden, um so den Menschen die Wahrheit des Evangeliums kundzutun.
[Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua tedesca! Lo Spirito Santo, anima della Chiesa, aiuti ciascuno di noi a farsi tutto a tutti, manifestando così la verità del Vangelo agli uomini.]
Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española.
Pidamos al Señor que nos dé la humildad de sabernos acercar a los demás con esa actitud de amistad, respeto y conocimiento de su cultura y sus valores.
Que sepamos acoger todo lo bueno que hay en ellos, como Jesús al encarnarse, para hacernos capaces de hablar su lenguaje.
Que no dudemos en ofrecerles todo lo bueno que tenemos, para dar prueba del Amor que nos mueve.
Que tengamos la fuerza de vivir con coherencia la fe que profesamos, para transmitir el Evangelio del reino sin imposiciones ni proselitismos.
Que sea esta la bendición de Jesús y que la Virgen Santa, primera misionera en esta fiesta de la Visitación, nos sostenga en este propósito.
Muchas gracias.
Saúdo os peregrinos de língua portuguesa, especialmente os sacerdotes do Sagrado Coração de Jesus, vindos do Brasil! Seguindo o exemplo do Pe.
Matteo Ricci, devemos anunciar o Evangelho não pela força, mas através da amizade sincera e do diálogo fraterno, que espelham o Amor de Deus por todos os seus filhos e filhas.
Que o Senhor vos abençoe e vos proteja de todo o mal!
[Saluto i pellegrini di lingua portoghese, in modo speciale i sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù venuti dal Brasile! Seguendo l’esempio di P.
Matteo Ricci, dobbiamo annunciare il Vangelo non per la forza, ma tramite l’amicizia sincera e il dialogo fraterno, che rispecchiano l’Amore di Dio verso tutti i suoi figli e figlie.
Il Signore vi benedica e vi protegga da ogni male!]
أُحيِّي المُؤمِنِينَ النَّاطِقِينَ باللُغَةِ العربِيَّة.
لِنَسأَلِ الرُّوحَ القدُس، بقلبٍ مُنفَتِحٍ ومتجاوِبٍ معَ الله، أنْ يَمنَحَنا إيمانًا جريئًا وغَيرةً رسوليَّة، لِنُعلِنَ البِشارَةَ في العالَمِ كُلِّهِ.
بارَكَكُم الرَّبُّ جَميعًا وَحَماكُم دائِمًا مِنْ كُلِّ شَرّ!
[Saluto i fedeli di lingua araba.
Chiediamo allo Spirito Santo, con il cuore aperto e disponibile a Dio, di donarci una fede audace e zelo apostolico, per proclamare il Vangelo in tutto il mondo.
Il Signore vi benedica tutti e vi protegga sempre da ogni male!]
Pozdrawiam obecnych tu Polaków.
Wypraszając dla każdego z was obfitość darów Ducha Świętego, zawierzam was opiece Maryi Królowej Polski i z serca błogosławię.
Myślą ogarniam także młodzież, która w pierwszą sobotę czerwca zgromadzi się na Polach Lednickich na Spotkaniu Młodych pod hasłem „Idź za Barankiem”.
Niech refleksja nad tajemnicą Eucharystii pomoże wszystkim na nowo wybrać Chrystusa i przyjąć Go do swojego serca.
Niech Bóg błogosławi to spotkanie!
[Saluto i polacchi qui presenti e, mentre invoco su ciascuno i doni dello Spirito Santo, vi affido alla protezione di Maria Regina della Polonia e di cuore vi benedico.
Il mio pensiero va altresì a quanti si raduneranno nei campi di Lednica, il primo sabato di giugno, per l’incontro dei Giovani che ha come tema le parole “Segui l’Agnello”.
La riflessione sul mistero dell’Eucaristia, aiuti tutti a scegliere di nuovo Cristo, ad accoglierLo nei cuori.
Dio benedica questo incontro!]
* * *
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana.
In particolare, saluto le Clarisse Francescane del Santissimo Sacramento che celebrano il Capitolo Generale e il Liceo cattolico di Vipava (Slovenia).
Saluto i Seminaristi del Pontificio Seminario Regionale Pugliese, i partecipanti a “Palestra-natura” della Provincia di Barletta-Andria-Trani e i fedeli della parrocchia dei Santi Antonio e Annibale Maria in Roma, che incoraggio a vivere il Vangelo, imitando l’ardore apostolico della Vergine Santa.
Accolgo con affetto i giovani di “Rondine Cittadella della Pace” di Arezzo, accompagnati dal Vescovo Monsignor Andrea Migliavacca, con un pensiero grato per quanti, venendo dall’Ucraina e dalla Russia e da altri Paesi di guerra, hanno deciso di non essere nemici, ma di vivere da fratelli.
Il vostro esempio possa suscitare propositi di pace in tutti, anche in coloro che hanno responsabilità politiche.
E questo ci deve portare a pregare di più per la martoriata Ucraina ed esserle vicini.
Infine, come di consueto, mi rivolgo ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli.
Oggi, ultimo giorno del mese di Maggio, la Chiesa celebra la Visita di Maria alla cugina Elisabetta, dalla quale è proclamata beata perché ha creduto alla parola del Signore (cf. Lc 1, 45).
Guardate a Lei e da Lei implorate il dono di una fede sempre più coraggiosa.
Alla sua materna intercessione affidiamo quanti sono provati dalla guerra, specialmente la cara e martoriata Ucraina che tanto soffre.
A tutti voi la mia benedizione.
Signor Presidente della Repubblica,
distinte Autorità civili e religiose,
gentili Signore e Signori,
cari fratelli e sorelle!
Vi do il benvenuto e vi saluto cordialmente, felice per la vostra presenza.
Sono lieto di consegnare al Presidente Sergio Mattarella il Premio Internazionale Paolo VI, che gli è stato attribuito dall’omonimo Istituto, al quale vorrei esprimere riconoscenza per il prezioso lavoro che svolge nella cura della memoria di Papa Montini: i suoi scritti e i suoi discorsi sono una miniera inesauribile di pensiero e testimoniano l’intensa vita spirituale da cui è sgorgata la sua azione di grande Pastore della Chiesa.
Grazie dunque ai membri e ai collaboratori dell’Istituto, e grazie a quanti sono giunti dalla Diocesi di Brescia!
Il Concilio Vaticano II, per il quale dobbiamo essere tanto grati a San Paolo VI, ha sottolineato il ruolo dei fedeli laici, mettendone in luce il carattere secolare.
I laici, infatti, in virtù del battesimo hanno una vera e propria missione, da svolgere «nel secolo, cioè implicati in tutti e singoli gli impieghi e gli affari del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale» (Lumen gentium, 31).
E tra queste occupazioni spicca la politica, che è la «forma più alta di carità» (Pio XI, Ai dirigenti della Federazione Universitaria Cattolica, 18 dic.
1927).
Ma – ci possiamo chiedere – come fare dell’agire politico una forma di carità e, d’altra parte, come vivere la carità, cioè l’amore nel senso più alto, all’interno delle dinamiche politiche?
Credo che la risposta risieda in una parola: servizio.
San Paolo VI disse che quanti esercitano il potere pubblico devono considerarsi «come i servitori dei loro compatrioti, con il disinteresse e l’integrità che convengono alla loro alta funzione» (Ai rappresentanti dell’Unione Europea dei Democratici Cristiani, 8 apr.
1972).
E sentenziò: «Il dovere del servizio è inerente all’autorità; e tanto maggiore è tale dovere quanto più alta è tale autorità» (Udienza gen., 1968).
Eppure, sappiamo bene quanto ciò non sia facile e come la tentazione diffusa, in ogni tempo, anche nei migliori sistemi politici, sia di servirsi dell’autorità anziché di servire attraverso l’autorità.
Com’è facile salire sul piedistallo e com’è difficile calarsi nel servizio degli altri!
Cristo stesso parlò della difficoltà a servire e prodigarsi per gli altri, ammettendo, con un realismo velato di tristezza, che «coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono».
Ma subito disse ai suoi: «Tra voi però non è così, ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore» (Mc 10,42-43).
Da allora in poi, per il cristiano, grandezza è sinonimo di servizio.
Amo dire che “non serve per vivere chi non vive per servire”.
E credo che oggi il conferimento del Premio Paolo VI al Presidente Mattarella sia proprio una bella occasione per celebrare il valore e la dignità del servizio, lo stile più alto del vivere, che pone gli altri prima delle proprie aspettative.
Che ciò sia vero per Lei, Signor Presidente, lo testimonia il popolo italiano, che non dimentica la sua rinuncia al meritato riposo fatta in nome del servizio richiestole dallo Stato.
Una settimana fa ha voluto omaggiare, in occasione dei 150 anni dalla morte, quel grande italiano e cristiano che fu Alessandro Manzoni, capace di intessere con le parole la pregiata stoffa di valori sociali, religiosi e solidali del popolo italiano.
Paolo VI lo definì «genio universale», «tesoro inesauribile di sapienza morale», «maestro di vita» (Regina caeli, 20 mag.
1973).
Anch’io custodisco nel cuore tanti suoi personaggi.
Penso al sarto, che racconta la buona laboriosità di chi concepisce la vita come il tempo dato al singolo per accrescere il bene altrui, per «industriarsi, aiutarsi, e poi esser contenti» (I promessi sposi, cap.
XXIV).
E con questo lavoro è riuscito ad esprimere uno dei passi più sapienti: «Non ho mai trovato che il Signore abbia cominciato un miracolo senza finirlo bene» (ibid.).
Perché servire crea gioia e fa bene anzitutto a chi serve.
Per dirla ancora con il Manzoni: «Si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio» (cap.
XXVIII).
Ma il servizio rischia di restare un ideale piuttosto astratto senza una seconda parola che non può mai esserle disgiunta: responsabilità.
Essa, come indica la parola stessa, è l’abilità di offrire risposte, facendo leva sul proprio impegno, senza aspettare che siano altri a darle.
Quante volte, Signor Presidente, prima con l’esempio che con le parole, Lei lo ha richiamato! Anche in questo non si può che notare una feconda affinità con Giovanni Battista Montini, che fin da giovane prete fu “educatore di responsabilità”.
Da Papa, poi, scrisse che le parole servono a poco «se non sono accompagnate in ciascuno da una presa di coscienza più viva della propria responsabilità» (Lett.
ap.
Octogesima adveniens, 14 mag.
1971, 48).
Perché, spiegava, «è troppo facile scaricare sugli altri la responsabilità delle ingiustizie, se non si è convinti allo stesso tempo che ciascuno vi partecipa e che è necessaria innanzi tutto la conversione personale» (ivi, 47).
Sono parole che mi sembrano molto attuali oggi, quando viene quasi automatico colpevolizzare gli altri, mentre la passione per l’insieme si affievolisce e l’impegno comune rischia di eclissarsi davanti ai bisogni dell’individuo; dove, in un clima d’incertezza, la diffidenza si trasforma facilmente in indifferenza.
La responsabilità, invece, come ci mostrano in questi giorni tanti cittadini dell’Emilia Romagna, chiama ciascuno ad andare contro-corrente rispetto al clima di disfattismo e lamentela, per sentire proprie le necessità altrui e riscoprire sé stessi come parti insostituibili dell’unico tessuto sociale e umano a cui tutti apparteniamo.
Sempre a proposito di responsabilità, penso a quella componente essenziale del vivere comune che è l’impegno per la legalità.
Essa richiede lotta ed esempio, determinazione e memoria, memoria di quanti hanno sacrificato la vita per la giustizia; penso a suo fratello Piersanti, Signor Presidente, e alle vittime della strage mafiosa di Capaci, di cui pochi giorni fa si è commemorato il trentunesimo anniversario.
San Paolo VI notava che nelle società democratiche non mancano istituzioni, patti e statuti, ma «manca tante volte l’osservanza libera ed onesta della legalità» e che lì «l’egoismo collettivo insorge» (Angelus, 31 ag.
1975).
Anche in quest’ambito, Signor Presidente, con le sue parole e il suo esempio, avvalorati da quanto ha vissuto, Lei rappresenta un coerente maestro di responsabilità.
San Paolo VI sentì l’importanza della responsabilità di ciascuno per il mondo di tutti, per un mondo diventato globale.
Lo fece parlando di pace – quanto è urgente oggi! –, lo fece esortando a lottare senza rassegnarsi di fronte agli squilibri delle ingiustizie planetarie, perché la questione sociale è questione morale e perché un’azione solidale dopo le guerre mondiali è veramente tale solo se è globale (cfr Lett.
enc.
Populorum progressio, 26 marzo 1967, 1).
Oltre cinquant’anni fa, avvertì l’urgenza di fronteggiare le sfide climatiche, davanti alla minaccia di un ambiente che – scrisse – sarebbe diventato intollerabile all’uomo in conseguenza della distruttiva attività dell’uomo stesso che, spadroneggiando sul creato, si sarebbe trovato a non padroneggiarlo più.
E precisò: «A queste nuove prospettive il cristiano deve dedicare la sua attenzione, per assumere, insieme con gli altri uomini, la responsabilità di un destino diventato ormai comune» (Octogesima adveniens, 21).
Sì, il senso di responsabilità e lo spirito di servizio stavano per San Paolo VI alla base della costruzione della vita sociale.
Egli ci ha lasciato l’impegnativa eredità di edificare comunità solidali. Era il suo sogno, che si scontrò con vari incubi diventati realtà – penso alla terribile vicenda di Aldo Moro; era il desiderio ardente che portava nel cuore e che espresse nei termini di «comunità di partecipazione e di vita», animate dall’impegno a «prodigarsi per costruire solidarietà attive e vissute» (ivi, 47).
Non sono utopie, ma profezie; profezie che esortano a vivere ideali alti.
Perché di questo oggi hanno bisogno i giovani.
E sono lieto, Signor Presidente, di farmi strumento di riconoscenza a nome di quanti, giovani e meno giovani, vedono in Lei un maestro, un maestro semplice, e soprattutto un testimone coerente e garbato di servizio e di responsabilità.
Ne sarebbe lieto Papa Montini, del quale mi piace ripetere, infine, alcune parole tanto note quanto vere: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (Esort.
ap.
Evangelii nuntiandi, 41).
Grazie.
Cari fratelli e sorelle, benvenuti!
Sono lieto di condividere con voi questo momento di incontro, in occasione del 125° anniversario dalla canonizzazione di Sant’Antonio Maria Zaccaria e mentre vi preparate a due importanti Capitoli Generali.
Siete padri, suore e laici, radunati in tre “collegi”, come li ha definiti il vostro Fondatore; tutti animati dallo spirito apostolico di San Paolo, a cui si sono ispirate le vostre origini e sotto la cui protezione tuttora lavorate in varie parti del mondo.
Prendo spunto da un’espressione caratteristica di Sant’Antonio Maria.
Diceva ai suoi seguaci: «Dovete correre come pazzi! Correre verso Dio e verso gli altri!» – correre come pazzi, non essere pazzi che corrono, è un’altra cosa! – Di questa esortazione, tipicamente paolina, vorrei sottolineare tre aspetti: il rapporto con Cristo, lo zelo apostolico e il coraggio creativo.
Nell’esperienza dello stesso Zaccaria, alla base della missione c’è il “correre verso Dio”, cioè un rapporto forte con il Signore Gesù, coltivato fin dalla sua giovinezza in un serio cammino di crescita, in particolare meditando la Parola di Dio con l’aiuto di due bravi religiosi.
È questo che lo ha portato prima all’impegno catechetico, poi al sacerdozio e infine alla fondazione religiosa.
Questo tipo di relazione con Cristo è fondamentale anche per noi, per dire a tutti, avendolo sperimentato personalmente, che la vita non è la stessa con o senza il Signore (cfr Esort.
ap.
Evangelii gaudium, 266), per continuare a “correre verso la meta”, come dice San Paolo, e coinvolgere in questa corsa le persone che ci sono affidate (cfr 1Cor 9,24-27).
Il nostro annuncio missionario non è proselitismo – sottolineo tanto questo – ma condivisione di un incontro personale che ha cambiato la nostra vita! Senza questo, non abbiamo nulla da annunciare, né una destinazione verso cui camminare insieme.
Ho avuto, in questo, una brutta esperienza, in un incontro giovanile alcuni anni fa.
Uscivo dalla sagrestia e c’era una signora, molto elegante, si vedeva anche che era molto ricca, con un ragazzo e una ragazza.
E questa signora, che parlava lo spagnolo, mi dice: “Padre, sono contenta perché ho convertito questi due: questo viene dal tal posto e questa viene dal tal altro”.
Mi sono arrabbiato, sapete?, e ho detto: “Tu non hai convertito nulla, hai mancato di rispetto verso queste persone: non li hai accompagnati, hai fatto proselitismo e questo non è evangelizzare”.
Era orgogliosa per aver convertito! State attenti a distinguere bene l’azione apostolica dal proselitismo: noi non facciamo proselitismo.
Il Signore non ha mai fatto proselitismo.
«Correre verso gli altri»: questa è la seconda indicazione.
Anche questo è fondamentale.
Infatti se perdiamo di vista, nella nostra vita di fede, l’orizzonte dell’annuncio, finiamo col chiuderci in noi stessi e coll’inaridirci nei terreni deserti dell’autoreferenzialità (cfr Udienza Generale, 11 gennaio 2023).
Ci succede come a un atleta che continua a prepararsi per la grande corsa della sua vita senza partire mai: prima o poi finisce col deprimersi e comincia a lasciarsi andare, l’entusiasmo si spegne.
E così si diventa discepoli tristi.
Noi non vogliamo diventare discepoli tristi! Anche qui faccio una domanda: c’è dentro di me quel verme della tristezza? A volte in me, religioso, religiosa, laico, lascio che quel verme entri? Qualcuno diceva che un cristiano triste è un triste cristiano: è vero.
Ma in noi consacrati la tristezza non deve entrare, e se qualcuno sente quella tristezza, vada subito davanti al Signore e chieda luce, e chieda a qualche fratello o sorella che lo aiuti a uscirne.
Per questo Gesù mette alle radici stesse della Chiesa il mandato: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15); e San Paolo lo conferma quando dice, parlando del suo apostolato: “Non posso farne a meno, e guai a me se non annuncio Cristo” (cfr 1Cor 9,16).
Non c’era posto per la tristezza, ha voluto andare avanti.
Guai a noi se non annunciamo Cristo! Perciò vi incoraggio ad andare avanti nella direzione indicata dal vostro carisma: “Portare lo Spirito vivo di Cristo dappertutto”.
Lo Spirito “vivo” di Cristo è quello che conquista il cuore, che non ti fa stare seduto in poltrona, ma ti fa uscire verso i fratelli, con lo zaino leggero e lo sguardo pieno di carità.
Portate questo Spirito dappertutto, non escludendo nessuno e aprendosi anche a nuove forme di apostolato, in un mondo che cambia e che ha bisogno di menti flessibili e menti aperte, di cammini di ricerca condivisi, per individuare i modi adatti a trasmettere l’unico Vangelo di sempre.
E con questo veniamo al terzo punto: «correre come pazzi» – che non è lo stesso di pazzi che corrono, è differente – cioè il coraggio creativo.
Non si tratta tanto di elaborare tecniche sofisticate di evangelizzazione, quanto piuttosto, come dice San Paolo, di farsi «tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1Cor 9,22), di non fermarsi di fronte alle difficoltà e di guardare oltre gli orizzonti dell’abitudine e del quieto vivere, del “si è sempre fatto così”.
Sant’Antonio Maria questo coraggio l’ha avuto, dando vita a istituzioni nuove per la sua epoca: una congregazione di riforma del clero in un tempo in cui tanti ecclesiastici si erano abituati a una vita comoda e agiata; una congregazione religiosa femminile non claustrale, dedita all’evangelizzazione, in un tempo in cui per le donne la vita consacrata era prevista solo in clausura; una congregazione di laici missionari attivamente coinvolti nell’annuncio, in un tempo in cui dominava un certo clericalismo.
Erano tutte realtà nuove – è stato creativo, ma con la fedeltà al Vangelo –, queste realtà non c’erano prima: il Fondatore ha capito che potevano essere utili per il bene della Chiesa e della società, e per questo le ha inventate e le ha difese di fronte a chi non ne capiva il senso e l’opportunità, fino al punto di venire a renderne conto a Roma.
E anche in questo c’è un insegnamento importante, perché non ha esercitato la sua creatività al di fuori della Chiesa: lo ha fatto dentro di essa, accettando le correzioni e i richiami, cercando di spiegare e illustrare le ragioni delle sue scelte e custodendo la comunione nell’obbedienza.
Concludo richiamando un ultimo valore importante per i vostri “collegi”: l’importanza di fare insieme.
La comunione nella vita e nell’apostolato è infatti la prima testimonianza che siete chiamati a rendere, particolarmente in un mondo diviso da lotte ed egoismi.
Essa è scritta nel DNA della vita cristiana e dell’apostolato: «Perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21), come pregò il Signore.
Del resto la parola stessa “collegio” indica proprio questo: scelti per stare insieme, per vivere, lavorare, pregare, soffrire e gioire insieme, come comunità.
E allora, cari fratelli e sorelle: «Correte come pazzi, verso Dio e verso gli altri, insieme!».
E la Madonna, che andò in fretta ad aiutare Elisabetta, vi accompagni.
Vi benedico di cuore.
E per favore, non dimenticatevi di pregare per me.
Grazie.
Cari bambini e bambine, buongiorno! Bonjour! Good morning!
Sono contento di incontrarvi in occasione della celebrazione della Giornata dell’Africa.
È bello vedervi, venuti da diversi Paesi, accompagnati dai vostri genitori e da alcuni Ambasciatori.
Grazie, Signori Ambasciatori, di averli accompagnati.
Li ringrazio per quello che fanno e, attraverso di loro, voglio dire grazie a tutti coloro che lavorano per la vostra crescita umana e spirituale.
La Giornata dell’Africa, celebrata nel giorno della commemorazione annuale della fondazione dell’Unione Africana, il 25 maggio 1963, rappresenta il simbolo della lotta dell’intero Continente per la liberazione, lo sviluppo e il progresso economico e sociale, come pure per la valorizzazione e l’approfondimento del patrimonio culturale africano.
Voi siete il segno di questa ricca diversità culturale.
Vi invito ad avere l’audacia di essere “differenti”, a testimoniare la bellezza della generosità, del servizio, della purezza, del coraggio, del perdono, della lotta per la giustizia e il bene comune, dell’amore per i poveri, dell’amicizia sociale (cfr Esort.
ap.
Christus vivit, 36).
La vostra cara terra africana sta affrontando sfide enormi, come quelle del terrorismo, del malgoverno, della corruzione, della massiccia disoccupazione giovanile, delle migrazioni, dei conflitti intercomunitari, della crisi climatica e alimentare...
In questo contesto, potreste sentirvi impotenti e scoraggiati e dire a voi stessi che il futuro è cupo e senza prospettive.
Ma voi siete giovani, portate dentro di voi molti talenti, coltivate grandi ambizioni, avete grandi sogni: seguite i grandi sogni! Cari amici, questo vorrei dire a ciascuno di voi: «non rinunciare mai ai tuoi sogni, non seppellire mai definitivamente una vocazione, non darti mai per vinto.
Continua sempre a cercare, come minimo, modalità parziali o imperfette di vivere ciò che nel tuo discernimento riconosci come un’autentica vocazione» (ibid., 272).
Una delle ricchezze dell’Africa è la spiccata intelligenza dei suoi giovani.
Davvero, voi siete intelligenti, intelligenti! Il vostro impegno negli studi possa contribuire allo sviluppo umano e integrale della società.
Mi viene da pensare anche ai bambini-soldato, ai bambini vittime di ogni tipo di conflitto che hanno bisogno della vostra amicizia: siate loro vicini, così che non si sentano respinti e stigmatizzati.
Cari giovani, un’altra cosa molto importante: lasciatevi illuminare dai consigli e dalla testimonianza degli anziani.
Il dialogo con le radici, il dialogo con gli anziani, con i nonni, con chi è venuto prima di noi, ci permette di andare avanti.
Pensiamo a una delle grandi sfide della vita: la lotta per la pace.
Lo sapete bene, stiamo attraversando momenti difficili, con la nostra umanità che si trova in pericolo.
Siamo in grave pericolo.
Vivete dunque la pace attorno a voi e dentro di voi.
Siate ambasciatori di pace, perché il mondo riscopra la bellezza dell’amore, del vivere insieme, della fraternità e della solidarietà.
Con la mia benedizione accompagno tutti voi, come pure le vostre famiglie e l’intera gioventù africana.
E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me, ne ho bisogno.
Grazie!
Grazie di essere venuti! Sono contento di vedervi e di salutarvi.
Tante grazie e benvenuti!...
[al traduttore] Come si dice in polacco “tante grazie, benvenuti”?
Carissimi, sono qui in mezzo a voi per incoraggiarvi, per invitarvi ad essere apostoli dell’amore di Dio.
Il vostro cammino nella vita è un po’ difficile, perché dovete curarvi, vincere la malattia o convivere con la malattia, e questo non è facile.
Quante volte, nella vita, ci troviamo nella situazione di non avere la forza per andare avanti.
Ma voi non siete mai soli! Gesù è sempre vicino e vi dice: “Vai, vai, vai avanti! Io sono con te”.
“Ti prendo io per mano”, dice Gesù, come quando da piccolo imparavi a fare i primi passi.
Cari bambini, Gesù sempre è accanto a noi per darci speranza.
Sempre, anche nei momenti della malattia, anche nei momenti più dolorosi, anche nei momenti più difficili: il Signore è lì!
E anche i vostri familiari, i medici, gli amici, vi aiutano ad andare avanti.
Pensate alla vostra mamma, che vi ha dato alla luce e al vostro papà.
Dio vi ama, cari bambini.
Siete amati da Lui: volete essere apostoli dell’amore di Dio nella Chiesa e nel mondo? Gesù ha bisogno anche di voi per questa testimonianza.
Vi affida i suoi progetti e chiede: volete essere miei apostoli dell’amore di Dio? Rispondetegli “sì” con entusiasmo e portate la gioia dell’amore di Dio agli altri.
Se qualcuno si ritrova solo e si sente abbandonato, non dimentichiamo che la Madonna ci è sempre vicina, soprattutto quando si fa sentire il peso della malattia con tutti i suoi problemi: è lì vicino, come era accanto al suo Figlio Gesù quando tutti l’avevano abbandonato.
Maria è sempre lì, accanto a noi, con la sua tenerezza materna.
Pensiamo spesso alla Madonna recitando un’Ave Maria.
Preghiamo l’Ave Maria…
Vi benedico di cuore.
E per favore, non dimenticatevi di pregare per me.
Vi benedico di cuore.
Padre, Figlio e Spirito Santo.
E pregate per me.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi, Solennità di Pentecoste, il Vangelo ci porta nel cenacolo, dove gli apostoli si erano rifugiati dopo la morte di Gesù (Gv 20,19-23).
Il Risorto, la sera di Pasqua, si presenta proprio in quella situazione di paura e di angoscia e, soffiando su di loro, dice: «Ricevete lo Spirito Santo» (v.
22).
Così, con il dono dello Spirito, Gesù desidera liberare i discepoli dalla paura, questa paura che li tiene rinchiusi in casa, e li libera perché siano capaci di uscire e diventino testimoni e annunciatori del Vangelo.
Soffermiamoci un po’ su questo che fa lo Spirito: libera dalla paura.
I discepoli avevano chiuso le porte, dice il Vangelo, «per timore» (v.
19).
La morte di Gesù li aveva sconvolti, i loro sogni erano andati in frantumi, le loro speranze erano svanite.
E si erano chiusi dentro.
Non solo in quella stanza, ma dentro, nel cuore.
Vorrei sottolineare questo: chiusi dentro.
Quante volte anche noi ci chiudiamo dentro noi stessi? Quante volte, per qualche situazione difficile, per qualche problema personale o familiare, per la sofferenza che ci segna o per il male che respiriamo attorno a noi, rischiamo di scivolare lentamente nella perdita della speranza e ci manca il coraggio di andare avanti? Tante volte succede questo.
E allora, come gli apostoli, ci chiudiamo dentro, barricandoci nel labirinto delle preoccupazioni.
Fratelli e sorelle, questo “chiuderci dentro” accade quando, nelle situazioni più difficili, permettiamo alla paura di prendere il sopravvento e di fare la “voce grossa” dentro di noi.
Quando entra la paura, noi ci chiudiamo.
La causa, quindi, è la paura: paura di non farcela, di essere soli ad affrontare le battaglie di ogni giorno, di rischiare e poi di restare delusi, di fare delle scelte sbagliate.
Fratelli, sorelle, la paura blocca, la paura paralizza.
E anche isola: pensiamo alla paura dell’altro, di chi è straniero, di chi è diverso, di chi la pensa in un altro modo.
E ci può essere persino la paura di Dio: che mi punisca, che ce l’abbia con me… Se diamo spazio a queste false paure, le porte si chiudono: porte del cuore, le porte della società, e anche le porte della Chiesa! Dove c’è paura, c’è chiusura.
E non va bene.
Il Vangelo però ci offre il rimedio del Risorto: lo Spirito Santo.
Lui libera dalle prigioni della paura.
Quando ricevono lo Spirito, gli apostoli – lo festeggiamo oggi – escono dal cenacolo e vanno nel mondo a rimettere i peccati e ad annunciare la buona notizia.
Grazie a Lui le paure si superano e le porte si aprono.
Perché questo fa lo Spirito: ci fa sentire la vicinanza di Dio e così il suo amore scaccia il timore, illumina il cammino, consola, sostiene nelle avversità.
Di fronte ai timori e alle chiusure, allora, invochiamo lo Spirito Santo per noi, per la Chiesa e per il mondo intero: perché una nuova Pentecoste scacci le paure che ci assalgono e ravvivi il fuoco dell’amore di Dio.
Maria Santissima, che per prima è stata ricolmata di Spirito Santo, interceda per noi.
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Dopo il Regina Caeli
Cari fratelli e sorelle!
Lo scorso 22 maggio si è commemorato il 150° anniversario della morte di una delle figure più alte della letteratura, Alessandro Manzoni.
Egli, attraverso le sue opere, è stato cantore delle vittime e degli ultimi: essi sono sempre sotto la mano protettrice della Provvidenza divina, che «atterra e suscita, affanna e consola»; e sono sostenuti anche dalla vicinanza dei pastori fedeli della Chiesa, presenti nelle pagine del capolavoro manzoniano.
Invito a pregare per le popolazioni che vivono al confine tra Myanmar e Bangladesh, duramente colpite da un ciclone: più di ottocentomila persone, oltre ai tanti Rohingya che già vivono in condizioni precarie.
Mentre rinnovo a queste popolazioni la mia vicinanza, mi rivolgo ai Responsabili, perché favoriscano l’accesso degli aiuti umanitari, e faccio appello al senso di solidarietà umana ed ecclesiale per soccorrere questi nostri fratelli e sorelle.
Saluto di cuore tutti voi, romani e pellegrini dell’Italia e di tanti Paesi, in particolare i fedeli provenienti da Panama e il pellegrinaggio dell’Arcidiocesi di Tulancingo (Mexico) che celebra Nuestra Señora de los Angeles; come pure il gruppo di Novellana (Spagna).
Saluto inoltre i fedeli di Celeseo (Padova) e di Bari, e invio la mia benedizione a quanti sono radunati al Policlinico Gemelli per promuovere iniziative di fraternità con gli ammalati.
Mercoledì prossimo, a conclusione del mese di maggio, nei Santuari mariani di tutto il mondo sono previsti momenti di preghiera a sostegno dei preparativi alla prossima Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.
Chiediamo alla Vergine Maria che accompagni questa importante tappa del Sinodo con la sua materna protezione.
E a Lei affidiamo anche il desiderio di pace di tante popolazioni in tutto il mondo, specialmente della martoriata Ucraina.
A tutti auguro buona domenica.
E per favore non dimenticatevi di pregare per me.
Buon pranzo e arrivederci!
La Parola di Dio oggi ci mostra lo Spirito Santo in azione.
Lo vediamo agire in tre momenti: nel mondo che ha creato, nella Chiesa e nei nostri cuori.
1.
Anzitutto nel mondo che ha creato, nella creazione.
Fin dall’inizio lo Spirito Santo è all’opera: «Mandi il tuo spirito, sono creati», abbiamo pregato con il Salmo (104,30).
Egli, infatti, è creator Spiritus (cfr S.
Agostino, In Ps., XXXII,2,2), Spirito creatore: così la Chiesa lo invoca da secoli.
Ma, possiamo chiederci, che cosa fa lo Spirito nella creazione del mondo? Se tutto ha origine dal Padre, se tutto è creato per mezzo del Figlio, qual è il ruolo specifico dello Spirito? Un grande Padre della Chiesa, San Basilio, ha scritto: «Se provi a sottrarre lo Spirito alla creazione, tutte le cose si mescolano e la loro vita appare senza legge, senza ordine» (Spir., XVI,38).
Ecco il ruolo dello Spirito: è Colui che, al principio e in ogni tempo, fa passare le realtà create dal disordine all’ordine, dalla dispersione alla coesione, dalla confusione all’armonia.
Questo modo di agire lo vedremo sempre, nella vita della Chiesa.
Egli dà al mondo, in una parola, armonia; così «dirige il corso dei tempi e rinnova la faccia della terra» (Gaudium et spes, 26; Sal 104,30).
Rinnova la terra, ma attenzione: non cambiando la realtà, bensì armonizzandola; questo è il suo stile perché Egli è in sé stesso armonia: Ipse harmonia est (cfr S.
Basilio, In Ps., 29,1), dice un Padre della Chiesa.
Oggi nel mondo c’è tanta discordia, tanta divisione.
Siamo tutti collegati eppure ci troviamo scollegati tra di noi, anestetizzati dall’indifferenza e oppressi dalla solitudine.
Tante guerre, tanti conflitti: sembra incredibile il male che l’uomo può compiere! Ma, in realtà, ad alimentare le nostre ostilità c’è lo spirito della divisione, il diavolo, il cui nome significa proprio “divisore”.
Sì, a precedere ed eccedere il nostro male, la nostra disgregazione, c’è lo spirito maligno che «seduce tutta la terra» (Ap 12,9).
Egli gode degli antagonismi, delle ingiustizie, delle calunnie, è la sua gioia.
E, di fronte al male della discordia, i nostri sforzi per costruire l’armonia non bastano.
Ecco allora che il Signore, al culmine della sua Pasqua, al culmine della salvezza, riversa sul mondo creato il suo Spirito buono, lo Spirito Santo, che si oppone allo spirito divisore perché è armonia, Spirito di unità che porta la pace.
Invochiamolo ogni giorno sul nostro mondo, sulla nostra vita e davanti ad ogni tipo di divisione!
2.
Oltre che nella creazione, lo vediamo all’opera nella Chiesa, a partire dal giorno di Pentecoste.
Notiamo però che lo Spirito non dà inizio alla Chiesa impartendo istruzioni e norme alla comunità, ma scendendo su ciascun Apostolo: ognuno riceve grazie particolari e carismi differenti.
Tutta questa pluralità di doni diversi potrebbe ingenerare confusione, ma lo Spirito, come nella creazione, proprio a partire dalla pluralità ama creare armonia.
La sua armonia non è un ordine imposto e omologato, no; nella Chiesa c’è un ordine «organizzato secondo la diversità dei doni dello Spirito» (S.
Basilio, Spir., XVI,39).
A Pentecoste, infatti, lo Spirito Santo scende in tante lingue di fuoco: dà a ciascuno la capacità di parlare altre lingue (cfr At 2,4) e di sentire la propria lingua parlata dagli altri (cfr At 2,6.11).
Dunque non crea una lingua uguale per tutti, non cancella le differenze, le culture, ma armonizza tutto senza omologare, senza uniformare.
E ciò deve farci pensare in questo momento, nel quale la tentazione dell’“indietrismo” cerca di omologare tutto in discipline soltanto di apparenza, senza sostanza.
Restiamo su questo aspetto, sullo Spirito che non comincia da un progetto strutturato, come faremmo noi, che spesso poi ci disperdiamo nei nostri programmi; no, Lui inizia elargendo doni gratuiti e sovrabbondanti.
Infatti a Pentecoste, sottolinea il testo, «tutti furono colmati di Spirito Santo» (At 2,4).
Tutti colmati, così comincia la vita della Chiesa: non da un piano preciso e articolato, ma dallo sperimentare il medesimo amore di Dio.
Lo Spirito crea armonia così, ci invita a provare stupore per il suo amore e per i suoi doni presenti negli altri.
Come ci ha detto San Paolo: «Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito […] Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo» (1 Cor 12,4.13).
Vedere ogni fratello e sorella nella fede come parte dello stesso corpo a cui appartengo: questo è lo sguardo armonioso dello Spirito, questo il cammino che ci indica!
E il Sinodo in corso è – e dev’essere – un cammino secondo lo Spirito: non un parlamento per reclamare diritti e bisogni secondo l’agenda del mondo, non l’occasione per andare dove porta il vento, ma l’opportunità per essere docili al soffio dello Spirito.
Perché, nel mare della storia, la Chiesa naviga solo con Lui, che è «l’anima della Chiesa» (S.
Paolo VI, Discorso al Sacro Collegio per gli Auguri onomastici, 21 giugno 1976), il cuore della sinodalità, il motore dell’evangelizzazione.
Senza di Lui la Chiesa è inerte, la fede è solo una dottrina, la morale solo un dovere, la pastorale solo un lavoro.
A volte sentiamo cosiddetti pensatori, teologi, che ci danno dottrine fredde, sembrano matematiche, perché manca lo Spirito dentro.
Con Lui, invece, la fede è vita, l’amore del Signore ci conquista e la speranza rinasce.
Rimettiamo lo Spirito Santo al centro della Chiesa, altrimenti il nostro cuore non sarà bruciato dall’amore per Gesù, ma per noi stessi.
Mettiamo lo Spirito al principio e al cuore dei lavori sinodali.
Perché “di Lui, soprattutto, ha oggi bisogno la Chiesa! Diciamogli dunque ogni giorno: vieni!” (cfr Id., Udienza generale, 29 novembre 1972).
E camminiamo insieme, perché lo Spirito, come a Pentecoste, ama discendere mentre “tutti si trovano insieme” (cfr At 2,1).
Sì, per mostrarsi al mondo Egli ha scelto il momento e il luogo in cui tutti stavano insieme.
Il Popolo di Dio, per essere ricolmo dello Spirito, deve dunque camminare insieme, fare sinodo.
Così si rinnova l’armonia nella Chiesa: camminando insieme con lo Spirito al centro.
Fratelli e sorelle, costruiamo armonia nella Chiesa!
3.
Infine lo Spirito fa armonia nei nostri cuori.
Lo vediamo nel Vangelo, dove Gesù, la sera di Pasqua, soffia sui discepoli e dice: «Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22).
Lo dona per uno scopo preciso: per perdonare i peccati, cioè per riconciliare gli animi, per armonizzare i cuori lacerati dal male, frantumati dalle ferite, disgregati dai sensi di colpa.
Solo lo Spirito rimette armonia nel cuore, perché è Colui che crea «l’intimità con Dio» (S.
Basilio, Spir., XIX,49).
Se vogliamo armonia cerchiamo Lui, non dei riempitivi mondani.
Invochiamo lo Spirito Santo ogni giorno, iniziamo ogni giornata pregandolo, diventiamo docili a Lui!
E oggi, nella sua festa, chiediamoci: io sono docile all’armonia dello Spirito? Oppure perseguo i miei progetti, le mie idee senza lasciarmi plasmare, senza farmi cambiare da Lui? Il mio modo di vivere la fede è docile allo Spirito o è testardo? Attaccato in modo testardo alle lettere, alle cosiddette dottrine che sono soltanto espressioni fredde della vita? Sono frettoloso nel giudicare, punto il dito e sbatto porte in faccia agli altri, ritenendomi vittima di tutti e di tutto? Oppure accolgo la sua potenza creatrice armoniosa, accolgo la “grazia dell’insieme” che Egli ispira, il suo perdono che dà pace? E a mia volta perdono? Il perdono è fare spazio perché venga lo Spirito.
Promuovo riconciliazione e creo comunione, o sempre sto cercando, ficcando il naso dove ci sono difficoltà per sparlare, per dividere, per distruggere? Perdono, promuovo riconciliazione, creo comunione? Se il mondo è diviso, se la Chiesa si polarizza, se il cuore si frammenta, non perdiamo tempo a criticare gli altri e ad arrabbiarci con noi stessi, ma invochiamo lo Spirito: Lui è capace di risolvere queste cose.
Spirito Santo, Spirito di Gesù e del Padre, sorgente inesauribile di armonia, ti affidiamo il mondo, ti consacriamo la Chiesa e i nostri cuori.
Vieni Spirito creatore, armonia dell’umanità, rinnova la faccia della terra.
Vieni Dono dei doni, armonia della Chiesa, rendici uniti in Te.
Vieni Spirito del perdono, armonia del cuore, trasformaci come Tu sai, per mezzo di Maria.
Cari fratelli e care sorelle, benvenuti!
Saluto e ringrazio P.
Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica, e il Prof.
John DeGioia, presidente della Georgetown University.
Sono lieto di incontrarvi mentre si svolge il Convegno che riunisce poeti, scrittori, sceneggiatori e registi di varie parti del mondo attorno al tema dell’immaginazione poetica e dell’ispirazione cattolica.
So che in questi giorni avete riflettuto su quali siano i modi attraverso i quali la fede interroga la vita contemporanea, cercando così di rispondere alla fame di significato.
Questo “significato” non è riducibile a un concetto, no.
È un significato totale che prende poesia, simbolo, sentimenti.
Il vero significato non è quello del dizionario: quello è il significato della parola, e la parola è uno strumento di tutto quello che è dentro di noi.
Ho amato molti poeti e scrittori nella mia vita, tra i quali ricordo soprattutto Dante, Dostoevskij e altri ancora.
Devo anche ringraziare i miei studenti del Colegio de la Inmaculada Concepción di Santa Fe, con i quali ho condiviso le mie letture quando ero giovane e insegnavo letteratura.
Le parole degli scrittori mi hanno aiutato a capire me stesso, il mondo, il mio popolo; ma anche ad approfondire il cuore umano, la mia personale vita di fede, e perfino il mio compito pastorale, anche ora in questo ministero.
Dunque, la parola letteraria è come una spina nel cuore che muove alla contemplazione e ti mette in cammino.
La poesia è aperta, ti butta da un’altra parte.
A partire da questa esperienza personale, oggi vorrei condividere con voi alcune considerazioni sull’importanza del vostro servizio.
La prima vorrei esprimerla così: voi siete occhi che guardano e che sognano.
Non soltanto guardare, ma anche sognare.
Noi esseri umani aneliamo a un mondo nuovo che probabilmente non vedremo appieno con i nostri occhi, eppure lo desideriamo, lo cerchiamo, lo sogniamo.
Uno scrittore latinoamericano diceva che abbiamo due occhi: uno di carne e l’altro di vetro.
Con quello di carne guardiamo ciò che vediamo, con quello di vetro guardiamo ciò che sogniamo.
Poveri noi se smettiamo di sognare, poveri noi!
L’artista è l’uomo che con i suoi occhi guarda e insieme sogna, vede più in profondità, profetizza, annuncia un modo diverso di vedere e capire le cose che sono sotto i nostri occhi.
Infatti, la poesia non parla della realtà a partire da princìpi astratti, ma mettendosi in ascolto della realtà stessa: il lavoro, l’amore, la morte e tutte le piccole grandi cose che riempiono la vita.
E, in questo senso, ci aiuta a «carpire la voce di Dio anche dalla voce del tempo».
[1] Il vostro è – per citare Paul Claudel – un “occhio che ascolta”.
L’arte è un antidoto contro la mentalità del calcolo e dell’uniformità; è una sfida al nostro immaginario, al nostro modo di vedere e capire le cose.
E in questo senso lo stesso Vangelo è una sfida artistica, con una carica “rivoluzionaria” che voi siete chiamati a esprimere grazie al vostro genio con una parola che protesta, chiama, grida.
Oggi la Chiesa ha bisogno della vostra genialità, perché ha bisogno di protestare, chiamare e gridare.
Vorrei dire però una seconda cosa: voi siete anche la voce delle inquietudini umane.
Tante volte le inquietudini sono sepolte nel fondo del cuore.
Voi sapete bene che l’ispirazione artistica non è solo confortante, ma anche inquietante, perché presenta sia le realtà belle della vita sia quelle tragiche.
L’arte è il terreno fertile nel quale si esprimono le «opposizioni polari» della realtà, [2] le quali richiedono sempre un linguaggio creativo e non rigido, capace di veicolare messaggi e visioni potenti.
Per esempio, pensiamo a quando Dostoevskij nei Fratelli Karamazov racconta di un bambino, piccolo, figlio di una serva, che lancia una pietra e colpisce la zampa di uno dei cani del padrone.
Allora il padrone aizza tutti i cani contro il bambino.
Lui scappa e prova a salvarsi dalla furia del branco, ma finisce per essere sbranato sotto gli occhi soddisfatti del generale e quelli disperati della madre.
Questa scena ha una potenza artistica e politica tremenda: parla della realtà di ieri e di oggi, delle guerre, dei conflitti sociali, dei nostri egoismi personali.
Per citare soltanto un brano poetico che ci interpella.
E non mi riferisco solamente alla critica sociale che c’è in quel brano.
Parlo delle tensioni dell’anima, della complessità delle decisioni, della contraddittorietà dell’esistenza.
Ci sono cose nella vita che, a volte, non riusciamo neanche a comprendere o per le quali non troviamo le parole adeguate: questo è il vostro terreno fertile, il vostro campo di azione.
E questo è anche il luogo dove spesso si fa esperienza di Dio.
Un’esperienza che è sempre “debordante”: tu non puoi prenderla, la senti e va oltre; è sempre debordante, l’esperienza di Dio, come una vasca dove cade l’acqua di continuo e, dopo un po’, si riempie e l’acqua straripa, deborda.
È quello che vorrei chiedere oggi anche a voi: andare oltre i bordi chiusi e definiti, essere creativi, senza addomesticare le vostre inquietudini e quelle dell’umanità.
Ho paura di questo processo di addomesticamento, perché toglie la creatività, toglie la poesia.
Con la parola della poesia, raccogliere gli inquieti desideri che abitano il cuore dell’uomo, perché non si raffreddino e non si spengano.
Questa opera permette allo Spirito di agire, di creare armonia dentro le tensioni e le contraddizioni della vita umana, di tenere acceso il fuoco delle passioni buone e di contribuire alla crescita della bellezza in tutte le sue forme, quella bellezza che si esprime proprio attraverso la ricchezza delle arti.
Questo è il vostro lavoro di poeti, narratori, registi, artisti: dare vita, dare corpo, dare parola a tutto ciò che l’essere umano vive, sente, sogna, soffre, creando armonia e bellezza.
È un lavoro evangelico che ci aiuta a comprendere meglio anche Dio, come grande poeta dell’umanità.
Vi criticheranno? Va bene, portate il peso della critica, cercando anche di imparare dalla critica.
Ma comunque non smettete di essere originali, creativi.
Non perdete lo stupore di essere vivi.
Dunque, occhi che sognano, voce delle inquietudini umane; e perciò voi avete anche una grande responsabilità.
E qual è? È la terza cosa che vorrei dirvi: siete tra coloro che plasmano la nostra immaginazione.
Questo è importante.
Il vostro lavoro, infatti, ha una conseguenza sull’immaginazione spirituale delle persone del nostro tempo, specialmente riguardo alla figura di Cristo.
In questo nostro tempo – come ho già avuto modo di dire – «abbiamo bisogno della genialità di un linguaggio nuovo, di storie e immagini potenti, di scrittori, poeti, artisti capaci di gridare al mondo il messaggio evangelico, di farci vedere Gesù» [3].
La vostra opera ci aiuta a vedere Gesù, a guarire la nostra immaginazione da tutto ciò che ne oscura il volto o, ancor peggio, da tutto ciò che vuole addomesticarlo.
Addomesticare il volto di Cristo, quasi per tentare di definirlo e di chiuderlo nei nostri schemi, significa distruggere la sua immagine.
Il Signore ci sorprende sempre, Cristo è sempre più grande, è sempre un mistero che in qualche modo ci sfugge.
Si fa fatica a metterlo dentro una cornice e ad appenderlo al muro.
Lui sempre ci sorprende, e quando noi non sentiamo che il Signore ci sorprende, qualcosa non funziona: il nostro cuore è finito e chiuso.
Ecco la sfida per l’immaginazione cattolica del nostro tempo, la sfida che è consegnata a voi: non “spiegare” il mistero di Cristo, che in realtà è inesauribile; ma farcelo toccare, farcelo sentire immediatamente vicino, consegnarcelo come realtà viva, e farci cogliere la bellezza della sua promessa.
Perché la sua promessa aiuta la nostra immaginazione: ci aiuta a immaginare in modo nuovo la nostra vita, la nostra storia e il futuro dell’umanità! E qui torno a un altro capolavoro di Dostoevskij, piccolo ma che ha dentro tutte queste cose: le “Storie dal sottosuolo”.
Lì dentro c’è tutta la grandezza dell’umanità e tutti i dolori dell’umanità, tutte le miserie, insieme.
Questa è la strada.
Cari amici, grazie per il vostro servizio.
Continuate a sognare, a inquietarvi, a immaginare parole e visioni che ci aiutino a leggere il mistero della vita umana e orientino le nostre società verso la bellezza e la fraternità universale.
Aiutateci ancora ad aprire la nostra immaginazione perché essa superi gli angusti confini dell’io e si apra al mistero santo di Dio.
Andate avanti, senza stancarvi, con creatività e coraggio! Vi benedico e prego per voi; e anche voi, per favore, pregate per me.
Grazie.
[1] K.
RAHNER, La libertà di parola nella Chiesa.
Le proposte del cristianesimo, Torino, Borla, 1964, 37.
[2] Cfr R.
GUARDINI, L’opposizione polare.
Saggio per una filosofia del concreto vivente, Brescia, Morcelliana, 1977.
[3] «Prefazione», in A.
SPADARO, Una trama divina.
Gesù in controcampo, Venezia, Marsilio, 2023, p.
10.
Care sorelle, buongiorno e benvenute!
Vi incontro in questo momento significativo per la vostra Congregazione che è il Capitolo Generale, un tempo forte di dialogo tra voi e con lo Spirito Santo, da cui uscire rinnovati, nel cuore prima che nelle iniziative e nelle strutture.
Quando San Luigi Orione fondava la vostra prima comunità vi dava come missione quella di «far sperimentare [alle persone] la Provvidenza di Dio e la maternità della Chiesa».
Vi chiamava cioè a incarnare l’agire misericordioso di Dio e della Chiesa con spirito materno.
Per farlo poi vi indicava tre vie fondamentali: essere unite a Gesù, vicine ai fratelli e attive nel servizio.
Vediamole insieme.
Essere unite a Gesù.
San Luigi Orione ha fondato la vostra Congregazione – assieme ai Figli della Divina Provvidenza, alle Suore Sacramentine Adoratrici non vedenti e alle Suore Contemplative di Gesù Crocifisso – sotto l’insegna del motto paolino Instaurare omnia in Christo: «Ricondurre a Cristo, unico capo, tutte le cose» ( Ef 1,10).
È chiaro allora che l’unione a Cristo per voi dev’essere la radice di ogni attività.
Il Concilio Vaticano II ci ha ricordato questo come un valore basilare per tutti i religiosi, dicendo che essi tanto più arricchiscono l’apostolato e la vitalità della Chiesa quanto più fervorosamente vivono uniti a Cristo (cfr Perfectae caritatis, 1), come i primi discepoli.
Non si tratta dunque né di coltivare, nella vita spirituale e apostolica, intimismi fumosi e sterili, né di trasformarsi in “efficienti quadri aziendali” nella gestione delle opere.
Si tratta invece di fare proprio il modo di vivere di Gesù, lasciando sempre più che sia Lui ad agire in noi, abbandonandoci a Lui, fino a poter dire come San Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» ( Gal 2,20); e ancora: «Caritas Christi urget nos», «L’amore del Cristo ci possiede» (cfr 2 Cor 5,14).
Don Orione aveva presente questa realtà quando affermava che «per conquistare Dio e afferrare gli altri occorre prima vivere una vita intensa di Dio in noi stessi», [1] una fede che bruci dentro e risplenda attorno a noi.
E allora lasciatevi sempre prima di tutto conquistare dal Signore, dalla sua presenza viva nell’Eucaristia, nella sua Parola, in voi stesse grazie allo Spirito Santo.
Ricordatevi che, come madri, il dono più grande che potete fare ai figli che Dio vi affida è quello di trasmettere loro il vostro amore tenero e appassionato per Gesù, di insegnare loro ad amarlo e conoscerlo come voi lo conoscete e lo amate, e di renderli partecipi della vostra fede in Lui.
La seconda indicazione lasciatavi da don Orione è quella di essere vicine ai fratelli.
Gesù stesso infatti ci ha detto: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» ( Mt 25,40).
Allora anche il vostro servizio potete viverlo come incontro con Lui, animate dallo stesso amore.
È Lui che si fa povero e piccolo nei poveri e nei piccoli; è Lui che in loro vi chiede calore e protezione.
Abbiate dunque sempre, tra voi e verso gli altri, un senso di tenerezza materna, mai di freddezza.
E se qualche volta questo malanno del cuore si fa sentire, cacciatelo subito via, con pensieri, parole e gesti di accoglienza e di gentilezza! Sappiamo bene che è meglio un pezzo di pane condiviso con un sorriso che una pietanza magari raffinata, ma condita di gelo e insipida di amore.
Le vostre case e i luoghi del vostro servizio siano pieni di calore materno! Come diceva don Orione: tutti possano scaldarsi e illuminarsi attraverso «la fiamma che arde nel vostro cuore e la luce del vostro incendio interiore».
Infine, San Luigi Orione vi ha insegnato a “lavorare sodo”, a non risparmiarvi nel servizio a favore dei più bisognosi.
Servire «i poveri, i piccoli, gli afflitti da ogni male e dolore», con le «maniche rimboccate», da buone mamme, con compassione, creatività e fantasia, nella carità.
[3] Una mamma non si arrende mai di fronte ai bisogni dei suoi figli: non fa mai mancare loro le attenzioni, le sorprese, le tenerezze e anche i rimproveri necessari; riesce a inventarsi soluzioni e rimedi impensati, anche di fronte a situazioni difficili o nell’incomprensione degli altri: è perché una mamma ama, e l’amore rende liberi e creativi! Del resto, è soprattutto questo che fa sentire i figli “a casa”, al sicuro, accettati al di là delle loro capacità, dei successi, delle condizioni sociali, della provenienza e dell’appartenenza religiosa, perché una madre vuole bene a tutti, non fa differenze.
Così ama Cristo, così ama la Madre Chiesa, e così auguro anche a voi di saper amare, con questa maternità domestica, con cuore generoso e con “olio di gomito”! In questo modo darete gioia e speranza a molti, e un esempio concreto di vita sana, prezioso specialmente per i giovani, spesso disorientati da modelli esistenziali fragili e vuoti.
Voi vi definite per vocazione una “congregazione samaritana”: e chi più di una mamma è “samaritano” per i suoi figli? Vede, anzi intuisce le loro ferite, si ferma, li cura e alla fine li lascia partire per la loro strada.
Vi esorto ad amare così, come ha fatto San Luigi Orione, come madri nella carità.
Vi benedico di cuore.
E vi raccomando, non dimenticatevi di pregare per me.
________________________________________________
[1] Lo spirito di Don Orione, vol.
VI, X Speranza, 10, “Silenzio e unione con Dio”).
[2] Ibid.
[3] Cfr Piano e programma della Piccola Opera, n.
3.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!
Saluto tutti voi, Vescovi, insieme ai referenti diocesani, al Comitato e alla Presidenza: grazie di essere qui.
Questo incontro si colloca nel vivo di un processo di Sinodo che sta interessando tutta la Chiesa e, in essa, le Chiese locali, nelle quali i Cantieri sinodali si sono costituiti come una bella esperienza di ascolto dello Spirito e di confronto tra le diverse voci delle comunità cristiane.
Ciò ha generato un coinvolgimento di tanti, specialmente su alcuni temi che riconoscete come cruciali e prioritari per il presente e per il futuro.
Si tratta di un’esperienza spirituale unica, di conversione e di rinnovamento, che potrà rendere le vostre comunità ecclesiali più missionarie e più preparate all’evangelizzazione nel mondo attuale.
Questo cammino è cominciato 60 anni fa, quando San Paolo VI, alla fine del Concilio, si è accorto che la Chiesa in occidente aveva perso la sinodalità.
Lui creò la Segreteria per il Sinodo dei Vescovi.
In questi anni è stato fatto ogni quattro anni un Sinodo; nel 50° anni è stato fatto un documento sulla sinodalità - è importante quel documento -; e poi in questi ultimi dieci anni si è andati avanti e adesso si fa un Sinodo per dire cosa sia la sinodalità, che come sappiamo non è cercare le opinioni della gente e neppure un mettersi d’accordo, è un’altra cosa.
Vorrei perciò esortarvi a proseguire con coraggio e determinazione su questa strada, anzitutto valorizzando il potenziale presente nelle parrocchie e nelle varie comunità cristiane.
Per favore questo è importante.
Nello stesso tempo, poiché, dopo il biennio dedicato all’ascolto, state per affacciarvi a quella che chiamate “fase sapienziale”, con l’intento di non disperdere quanto è stato raccolto e di avviare un discernimento ecclesiale, vorrei affidarvi alcune consegne.
Con esse cerco di rispondere, almeno in parte, alle domande che il Comitato mi ha fatto pervenire sulle priorità per la Chiesa in relazione alla società, su come superare resistenze e preoccupazioni, sul coinvolgimento dei sacerdoti e dei laici e sulle esperienze di emarginazione.
Ecco, dunque, la prima consegna: continuate a camminare.
Si deve fare.
Mentre cogliete i primi frutti nel rispetto delle domande e delle questioni emerse, siete invitati a non fermarvi.
La vita cristiana è un cammino.
Continuate a camminare, lasciandovi guidare dallo Spirito.
Al Convegno ecclesiale di Firenze indicavo nell’umiltà, nel disinteresse e nella beatitudine tre tratti che devono caratterizzare il volto della Chiesa, il volto delle vostre comunità.
Umiltà, disinteresse e beatitudine.
Una Chiesa sinodale è tale perché ha viva consapevolezza di camminare nella storia in compagnia del Risorto, preoccupata non di salvaguardare sé stessa e i propri interessi, ma di servire il Vangelo in stile di gratuità e di cura, coltivando la libertà e la creatività proprie di chi testimonia la lieta notizia dell’amore di Dio rimanendo radicato in ciò che è essenziale.
Una Chiesa appesantita dalle strutture, dalla burocrazia, dal formalismo faticherà a camminare nella storia, al passo dello Spirito, rimarrà lì e non potrà camminare incontro agli uomini e alle donne del nostro tempo.
La seconda consegna è questa: fare Chiesa insieme.
È un’esigenza che sentiamo di urgente, oggi, sessant’anni dopo la conclusione del Vaticano II.
Infatti, è sempre in agguato la tentazione di separare alcuni “attori qualificati” che portano avanti l’azione pastorale, mentre il resto del popolo fedele rimane «solamente recettivo delle loro azioni» (Evangelii gaudium, 120).
Ci sono i “capi” di una parrocchia, portano avanti le cose e la gente riceve soltanto quello.
La Chiesa è il santo Popolo fedele di Dio e in esso, «in virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro […] è diventato discepolo missionario» (ibid.).
Questa consapevolezza deve far crescere sempre più uno stile di corresponsabilità ecclesiale: ogni battezzato è chiamato a partecipare attivamente alla vita e alla missione della Chiesa, a partire dallo specifico della propria vocazione, in relazione con le altre e con gli altri carismi, donati dallo Spirito per il bene di tutti.
Abbiamo bisogno di comunità cristiane nelle quali si allarghi lo spazio, dove tutti possano sentirsi a casa, dove le strutture e i mezzi pastorali favoriscano non la creazione di piccoli gruppi, ma la gioia di sentirsi corresponsabili.
In tal senso, dobbiamo chiedere allo Spirito Santo di farci comprendere e sperimentare come essere ministri ordinati e come esercitare il ministero in questo tempo e in questa Chiesa: mai senza l’Altro con la “A” maiuscola, mai senza gli altri con cui condividere il cammino.
Questo vale per i Vescovi, il cui ministero non può fare a meno di quello dei presbiteri e dei diaconi; e vale anche per gli stessi presbiteri e diaconi, chiamati a esprimere il loro servizio all’interno di un noi più ampio, che è il presbiterio.
Ma questo vale anche per l’intera comunità dei battezzati, nella quale ciascuno cammina con altri fratelli e altre sorelle alla scuola dell’unico Vangelo e nella luce dello Spirito.
La terza consegna: essere una Chiesa aperta.
Riscoprirsi corresponsabili nella Chiesa non equivale a mettere in atto logiche mondane di distribuzione dei poteri, ma significa coltivare il desiderio di riconoscere l’altro nella ricchezza dei suoi carismi e della sua singolarità.
Così, possono trovare posto quanti ancora faticano a vedere riconosciuta la loro presenza nella Chiesa, quanti non hanno voce, coloro le cui voci sono coperte se non zittite o ignorate, coloro che si sentono inadeguati, magari perché hanno percorsi di vita difficili o complessi.
A volte sono “scomunicati” a priori.
Ma ricordiamocelo: la Chiesa deve lasciar trasparire il cuore di Dio: un cuore aperto a tutti e per tutti.
Non dimentichiamo per favore la parabola di Gesù della festa di nozze fallita, quando quel signore, non essendo venuti gli invitati, cosa dice? “Andate agli incroci delle strade e chiamate tutti” (cfr Mt 22,9).
Tutti: malati, non malati, giusti, peccatori, tutti, tutti dentro.
Dovremmo domandarci quanto facciamo spazio e quanto ascoltiamo realmente nelle nostre comunità le voci dei giovani, delle donne, dei poveri, di coloro che sono delusi, di chi nella vita è stato ferito ed è arrabbiato con la Chiesa.
Fino a quando la loro presenza resterà una nota sporadica nel complesso della vita ecclesiale, la Chiesa non sarà sinodale, sarà una Chiesa di pochi.
Ricordate questo, chiamate tutti: giusti, peccatori, sani, malati, tutti, tutti, tutti.
A volte si ha l’impressione che le comunità religiose, le curie, le parrocchie siano ancora un po’ troppo autoreferenziali.
E l’autoreferenzialità è un po’ la teologia dello specchio: guardarsi allo specchio, maquillage, mi pettino bene… È una bella malattia questa, una bella malattia che ha la Chiesa: autoreferenziale, la mia parrocchia, la mia classe, il mio gruppo, la mia associazione… Sembra che si insinui, un po’ nascostamente, una sorta di “neoclericalismo di difesa” – il clericalismo è una perversione, e il vescovo, il prete clericale è perverso, ma il laico e la laica clericale lo è ancora di più: quando il clericalismo entra nei laici è terribile! –: il neoclericalismo di difesa generato da un atteggiamento timoroso, dalla lamentela per un mondo che “non ci capisce più”, dove “i giovani sono perduti”, dal bisogno di ribadire e far sentire la propria influenza – “ma io farò questo…”.
Il Sinodo ci chiama a diventare una Chiesa che cammina con gioia, con umiltà e con creatività dentro questo nostro tempo, nella consapevolezza che siamo tutti vulnerabili e abbiamo bisogno gli uni degli altri.
E a me piacerebbe che in un percorso sinodale si prendesse sul serio questa parola “vulnerabilità” e si parlasse di questo, con senso di comunità, sulla vulnerabilità della Chiesa.
E aggiungo: camminare cercando di generare vita, di moltiplicare la gioia, di non spegnere i fuochi che lo Spirito accende nei cuori.
Don Primo Mazzolari scriveva: «Che contrasto quando la nostra vita spegne la vita delle anime! Preti che sono soffocatori di vita.
Invece di accendere l’eternità, spegniamo la vita».
Siamo inviati non per spegnere, ma per accendere i cuori dei nostri fratelli e sorelle, e per lasciarci rischiarare a nostra volta dai bagliori delle loro coscienze che cercano la verità.
Mi ha colpito, a questo proposito, la domanda del cappellano di un carcere italiano, che mi chiedeva come far sì che l’esperienza sinodale vissuta in una casa circondariale possa poi trovare un seguito di accoglienza nelle comunità.
Su questa domanda inserirei un’ultima consegna: essere una Chiesa “inquieta” nelle inquietudini del nostro tempo.
Siamo chiamati a raccogliere le inquietudini della storia e a lasciarcene interrogare, a portarle davanti a Dio, a immergerle nella Pasqua di Cristo.
Il grande nemico di questo cammino è la paura: “Ho paura, stai attento…”.
Formare dei gruppi sinodali nelle carceri vuol dire mettersi in ascolto di un’umanità ferita, ma, nel contempo, bisognosa di redenzione.
C’è in Spagna un carcere, con un bravo cappellano, che mi invia messaggi perché io veda sempre le loro riunioni… Ma sono in sinodo permanente questi carcerati! È interessante vedere come questo cappellano fa uscire da dentro il meglio di loro stessi, per proiettarlo al futuro.
Per un detenuto, scontare la pena può diventare occasione per fare esperienza del volto misericordioso di Dio, e così cominciare una vita nuova.
E la comunità cristiana è provocata a uscire dai pregiudizi, a mettersi in ricerca di coloro che provengono da anni di detenzione, per incontrarli, per ascoltare la loro testimonianza, e spezzare con loro il pane della Parola di Dio.
Questo è un esempio di inquietudine buona, che voi mi avete dato; e potrei citarne tanti altri: esperienze di una Chiesa che accoglie le sfide del nostro tempo, che sa uscire verso tutti per annunciare la gioia del Vangelo.
Cari fratelli e sorelle, proseguiamo insieme questo percorso, con grande fiducia nell’opera che lo Spirito Santo va realizzando.
È Lui il protagonista del processo sinodale, Lui, non noi! È Lui che apre i singoli e le comunità all’ascolto; è Lui che rende autentico e fecondo il dialogo; è Lui che illumina il discernimento; è Lui che orienta le scelte e le decisioni.
È Lui soprattutto che crea l’armonia, la comunione nella Chiesa.
Mi piace come lo definisce San Basilio: Lui è l’armonia.
Non ci facciamo l’illusione che il Sinodo lo facciamo noi, no.
Il Sinodo andrà avanti se noi saremo aperti a Lui che è il protagonista.
Afferma la Lumen gentium: «Egli – lo Spirito – introduce la Chiesa nella pienezza della verità (cfr Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti (cfr Ef 4,11-12; 1 Cor 12,4; Gal 5,22)» (n.
4).
Grazie del lavoro che state facendo.
Quando sono entrato uno di voi mi ha detto un’espressione molto argentina, che non ripeto, ma ha una bella traduzione in italiano, che forse lui dirà… Una cosa che sembra disordinata… Pensate al processo degli Apostoli la mattina di Pentecoste: quella mattina era peggio! Disordine totale! E chi ha provocato quel “peggio” è lo Spirito: Lui è bravo a fare queste cose, il disordine, per smuovere… Ma lo stesso Spirito che ha provocato questo ha provocato l’armonia.
Entrambe le cose sono fatte dallo Spirito, Lui è il protagonista, è Lui che fa queste cose.
Non bisogna avere paura quando ci sono disordini provocati dallo Spirito; ma averne paura quando sono provocati dai nostri egoismi o dallo Spirito del male.
Affidiamoci allo Spirito Santo.
Lui è l’armonia.
Lui fa tutto questo, il disordine, ma Lui è capace di fare l’armonia, che è una cosa totalmente diversa dall’ordine che noi potremmo fare da noi stessi.
Il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca.
E per favore, non dimenticatevi di pregare per me.
Grazie.
Catechesi.
La passione per l’evangelizzazione: lo zelo apostolico del credente. 14. Testimoni: Sant’Andrea Kim Tae-gon
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
In questa serie di catechesi ci mettiamo alla scuola di alcuni Santi e Sante che, come testimoni esemplari, ci insegnano lo zelo apostolico.
Ricordiamo che stiamo parlando dello zelo apostolico, quello che noi dobbiamo avere per annunciare il Vangelo.
Un grande esempio di Santo della passione per l’evangelizzazione oggi andiamo a trovarlo in una terra molto lontana, ovvero nella Chiesa coreana.
Guardiamo al martire e primo sacerdote coreano Sant’Andrea Kim Tae-gon.
Ma l’evangelizzazione della Corea è stata fatta dai laici.
Sono stati i laici battezzati che hanno trasmesso la fede, non c’erano preti, perché non ne avevano: vennero più tardi, pertanto la prima evangelizzazione l’hanno fatta i laici.
Noi saremmo capaci di una cosa del genere? Pensiamoci: è una cosa interessante.
E questo è uno dei primi sacerdoti, Sant’Andrea.
La sua vita è stata e rimane una testimonianza eloquente di zelo per l’annuncio del Vangelo.
Circa 200 anni fa, la terra coreana fu teatro di una persecuzione severissima: i cristiani erano perseguitati e annientati.
Credere in Gesù Cristo, nella Corea di quell’epoca, voleva dire essere pronti a dare testimonianza fino alla morte.
In particolare, l’esempio di Sant’Andrea Kim lo possiamo ricavare da due aspetti concreti della sua vita.
Il primo è il modo che lui doveva usare per incontrarsi con i fedeli.
Stante il contesto fortemente intimidatorio, il Santo era costretto ad accostare i cristiani in una forma non manifesta, e sempre in presenza di altre persone, come se si parlassero da tempo.
Allora, per individuare l’identità cristiana del suo interlocutore, Sant’Andrea metteva in atto questi espedienti: anzitutto, c’era un segno di riconoscimento concordato in precedenza: tu ti incontrerai con questo cristiano e lui avrà questo segnale nell’abito o nella mano; dopo di che, lui poneva di nascosto la domanda – ma sottovoce: “Tu sei discepolo di Gesù?”.
Poiché altre persone assistevano alla conversazione, il Santo doveva parlare a voce bassa, pronunciando solo poche parole, quelle più essenziali.
Quindi, per Andrea Kim, l’espressione che riassumeva tutta l’identità del cristiano era “discepolo di Cristo”: “Tu sei discepolo di Cristo?”, ma a bassa voce perché era pericoloso.
Era vietato essere cristiano.
In effetti, essere discepolo del Signore significa seguirlo, seguire la sua strada.
E il cristiano è per sua natura uno che predica e dà testimonianza di Gesù.
Ogni comunità cristiana riceve dallo Spirito Santo questa identità, e così la Chiesa intera, dal giorno di Pentecoste (cfr Conc.
Vat.
II, Decr.
Ad gentes, 2).
E da questo Spirito che noi riceviamo nasce la passione, la passione per l’evangelizzazione, questo zelo apostolico grande: è un dono dello Spirito.
E anche se il contesto circostante non è favorevole, come quello coreano di Andrea Kim, la passione non cambia, anzi, acquista ancora maggior valore.
Sant’Andrea Kim e gli altri fedeli coreani hanno dimostrato che la testimonianza del Vangelo data in tempo di persecuzione può portare molti frutti per la fede.
Vediamo ora un secondo esempio concreto.
Quando era ancora seminarista, Sant’Andrea doveva trovare un modo per accogliere segretamente i missionari provenienti dall’estero.
Questo non era un compito facile, poiché il regime dell’epoca vietava rigorosamente a tutti gli stranieri di entrare nel territorio.
Per questo era stato – prima di questo – tanto difficile trovare un sacerdote che venisse a missionare: la missione l’hanno fatta i laici.
Una volta – pensate a questo che ha fatto Sant’Andrea – una volta egli camminò sotto la neve, senza mangiare, talmente a lungo che cadde a terra sfinito, rischiando di perdere i sensi e di rimanere lì congelato.
A quel punto, all’improvviso sentì una voce: “Alzati, cammina!”.
Udendo quella voce, Andrea si ridestò, scorgendo come un’ombra di qualcuno che lo guidava.
Questa esperienza del grande testimone coreano ci fa comprendere un aspetto molto importante dello zelo apostolico.
Vale a dire il coraggio di rialzarsi quando si cade.
Ma i santi cadono? Sì! Ma dai primi tempi: pensate a San Pietro: ha fatto un grande peccato, ma ha avuto forza nella misericordia di Dio e si è rialzato.
E in Sant’Andrea noi vediamo questa forza: lui era caduto fisicamente ma ha avuto la forza di andare, andare, andare per portare il messaggio avanti.
Per quanto la situazione possa essere difficile, anzi a volte sembri non lasciare spazio al messaggio evangelico, non dobbiamo demordere e non dobbiamo rinunciare a portare avanti ciò che è essenziale nella nostra vita cristiana, cioè l’evangelizzazione.
Questa è la strada.
E ognuno di noi può pensare: “Ma io, come posso evangelizzare?”.
Ma guarda questi grandi e tu pensa nel tuo piccolo, pensiamo noi nel nostro piccolo: evangelizzare la famiglia, evangelizzare gli amici, parlare di Gesù, ma parlare di Gesù ed evangelizzare con il cuore pieno di gioia, pieno di forza.
E questa la dà lo Spirito Santo.
Prepariamoci a ricevere lo Spirito Santo nella prossima Pentecoste e chiediamogli quella grazia, la grazia del coraggio apostolico, la grazia di evangelizzare, di portare avanti sempre il messaggio di Gesù.
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Saluti
Je salue cordialement les personnes de langue française, en particulier les jeunes venus de France et les pèlerins venus de Belgique.
Frères et sœurs, pour être missionnaires et témoins du Seigneur, demandons à l’Esprit de force de toujours nous aider à persévérer dans l’épreuve et à nous relever après les chutes.
Que Dieu vous bénisse !
[Saluto cordialmente le persone di lingua francese, in particolare i giovani venuti dalla Francia e i pellegrini dal Belgio.
Fratelli e sorelle, per essere missionari e testimoni del Signore, chiediamo allo Spirito la forza per perseverare nelle prove e poterci rialzare dopo le cadute.
Dio vi benedica!]
I extend a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, especially the groups from England, India, Indonesia, Malaysia, Canada and the United States of America.
As we prepare to celebrate the Solemnity of Pentecost, I invoke upon you and your families a rich outpouring of the gifts of the Holy Spirit.
May the Lord bless you all!
[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua inglese, specialmente ai gruppi provenienti da Inghilterra, India, Indonesia, Malaysia, Canada e Stati Uniti d’America.
Nell’imminenza della Solennità di Pentecoste, invoco su di voi e sulle vostre famiglie un’abbondante effusione dei doni dello Spirito Santo.
Il Signore vi benedica!]
Herzlich grüße ich die Gläubigen deutscher Sprache.
Vereint mit der seligen Jungfrau Maria und den Aposteln rufen wir den Heiligen Geist an, er möge unsere Herzen mit seiner Liebe erfüllen und uns anspornen, das Evangelium mutig immer und überall zu verkünden.
[Saluto cordialmente i fedeli di lingua tedesca.
In unione con la beata Vergine Maria e gli Apostoli invochiamo lo Spirito Santo perché ricolmi i nostri cuori del suo amore e ci spinga ad annunciare con coraggio il Vangelo sempre ed in ogni luogo.]
Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española.
Pidamos al Señor el celo que movió a san Andrés, que el Señor nos dé la fuerza de su Espíritu Santo, que en este tiempo pedimos con especial intensidad, para testimoniar su Evangelio en lo cotidiano, simplemente siendo “discípulos de Jesús”, en la vocación a la que Dios nos llamó.
Pidámosle también que sea siempre ese amigo que nos sostiene en las dificultades, para perseverar en el camino del bien hasta el final.
Que el Señor los bendiga y la Virgen Santa los cuide.
Muchas gracias.
Saúdo cordialmente os fiéis de língua portuguesa, especialmente os peregrinos vindos de Bragança (Portugal) e de Brasília, Rio Grande do Sul, Campo Magro, Divinópolis e Marcos Moura (Brasil).
Queridos irmãos e irmãs, é o Senhor que nos sustenta no anúncio do Evangelho.
Oxalá possais sentir sempre o conforto do Seu Espírito, que reconstrói a harmonia entre nós e nos abre novos caminhos de evangelização.
Que Nossa Senhora proteja a cada um de vós e respetiva família.
[Saluto cordialmente i fedeli di lingua portoghese, in modo speciale i pellegrini pervenuti da Bragança (in Portogallo) e da Brasília, Rio Grande do Sul, Campo Magro, Divinópolis e Marcos Moura (in Brasile).
Cari fratelli e sorelle, è il Signore che ci sorregge nell’annuncio del Vangelo.
Possiate dunque sentire sempre il conforto del Suo Spirito, che ricostruisce l’armonia tra noi e ci apre nuove vie di evangelizzazione.
La Madonna costudisca voi e le vostre famiglie.]
أُحيِّي المُؤمِنِينَ الناطِقِينَ باللُغَةِ العربِيَّة.
قيامةُ الرَّبِّ يسوعَ مِن بينِ الأمواتِ هي ينبوعُ القُوَّةِ الَّتي تَسمَحُ لنا بأنْ نَستَمِرَّ.
لِهذا يجبُ ألَّا نُصابَ بالإحباط، وألَّا نَسمَحَ بأنْ تُسلَبَ منَّا عُذوبَةُ فَرَحِ البشارةِ بالإنجيل.
بارَكَكُم الرَّبُّ جَميعًا وَحَماكُم دائِمًا مِنْ كُلِّ شَرّ!
[Saluto i fedeli di lingua araba.
La Risurrezione del Signore è la sorgente della forza che ci permette di andare avanti.
Per questo non ci scoraggiamo, non lasciamoci rubare la dolce gioia di evangelizzare.
Il Signore vi benedica tutti e vi protegga sempre da ogni male!]
Pozdrawiam serdecznie Polaków.
W dniu dzisiejszym wspominamy Matkę Bożą Wspomożycielkę Wiernych.
Niech Ona, Matka Pocieszenia, wyjedna Kościołowi w Polsce, pasterzom i wiernym, a przede wszystkim rodzinom, osobom starszym i chorym, łaskę gotowości do dawania świadectwa wiary.
Żyjcie tak, by inni mogli rozpoznać w was uczniów Chrystusa.
Z serca wam błogosławię.
[Saluto cordialmente i Polacchi.
Oggi ricordiamo la Beata Vergine Maria Ausiliatrice.
Lei, Madre di consolazione, conceda alla Chiesa in Polonia, ai pastori e ai fedeli, e soprattutto alle famiglie, agli anziani e ai malati, la grazia di essere pronti a testimoniare la fede.
Vivete in modo che gli altri possano riconoscere in voi i discepoli di Cristo.
Vi benedico di cuore.]
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APPELLO
Oggi ricorre la giornata mondiale di preghiera per la Chiesa cattolica in Cina.
Essa coincide con la festa della Beata Vergine Maria Aiuto dei cristiani, venerata e invocata nel Santuario di Nostra Signora di Sheshan, a Shanghai.
In questa circostanza, desidero assicurare il ricordo ed esprimere la vicinanza ai nostri fratelli e sorelle in Cina, condividendo le loro gioie e le loro speranze.
Un pensiero speciale è rivolto a tutti coloro che soffrono, pastori e fedeli, affinché nella comunione e nella solidarietà della Chiesa Universale possano sperimentare consolazione e incoraggiamento.
Invito tutti ad elevare la preghiera a Dio, perché la Buona Novella di Cristo crocifisso e risorto possa essere annunciata nella sua pienezza, bellezza e libertà, portando frutti per il bene della Chiesa cattolica e di tutta la società cinese.
* * *
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana.
In particolare, saluto le Missionarie della Carità, il Comitato Organizzatore eventi speciali di Roma, il gruppo oncologico pediatrico del Policlinico di Bari, la Scuola Divina Provvidenza di Roma.
Infine, come di consueto, mi rivolgo ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli.
Oggi è la festa della Madonna venerata con il titolo di Maria Ausiliatrice.
Maria aiuti voi, cari giovani, a rinsaldare ogni giorno la vostra fedeltà a Cristo.
Ottenga conforto e serenità per voi, cari anziani e cari ammalati.
Incoraggi voi, cari sposi novelli, a tradurre nella vita quotidiana il comandamento dell’amore.
Il giorno di Maria Ausiliatrice è una vocazione mariana tanto cara a Don Bosco: un saluto e un ricordo alla Famiglia Salesiana, ringraziando per tutto quello che fa per la Chiesa.
E ancora la tristezza a tutti ci viene per la martoriata Ucraina: si soffre tanto lì, non dimentichiamoli.
Preghiamo oggi Maria Ausiliatrice che sia vicina al popolo ucraino.
E a tutti la mia benedizione.
Fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!
Vi ringrazio per la vostra visita e sono contento di accogliervi a un anno dalla canonizzazione di San Giustino Maria Russolillo, apostolo delle vocazioni e fondatore della vostra Famiglia Vocazionista.
Celebrare un anniversario come questo significa per noi, oltre che fare memoria grata dei doni di Dio e del cammino compiuto, anche chiederci quale luce possiamo ricevere per il presente e quale eredità siamo chiamati ad accogliere per il futuro dalla testimonianza di San Giustino.
In altre parole: quale messaggio egli ci lascia per rinnovare la nostra sequela del Signore.
Ognuno di noi deve farsi questa domanda dentro, interrogarsi.
La vostra chiamata è quella di offrire un «servizio a tutte le vocazioni» (S.
Russolillo, Lo Spirito e il Carisma di Don Giustino, Centro studi vocazionisti, 60).
Questo carisma sgorga dal desiderio del giovane Giustino il quale, ancora seminarista, sentì forte nel cuore l’impulso a prendersi cura delle vocazioni, in particolare di quelle al sacerdozio ordinato e alla vita consacrata.
E c’è tanto bisogno anche oggi di questo: prendersi cura delle vocazioni.
E vi chiedo, per favore: prendetevi cura delle vocazioni: seminare, prepararle, farle crescere, accompagnarle.
E come fare? Guardando a San Giustino, vorrei indicarvi tre sentieri: la preghiera, l’annuncio, la missione.
Anzitutto, la preghiera.
Ognuno risponda dentro di sé a questa domanda, non ad alta voce, ma dentro il cuore: io prego per le vocazioni? O soltanto dico un Padre Nostro o un Ave Maria un po’ di corsa? Offro una preghiera intensa per le vocazioni? La preghiera è la radice di ogni nostra attività e di ogni apostolato.
Il primato non è delle nostre opere, delle nostre strutture e delle nostre organizzazioni, ma è della preghiera.
Ha il primato.
E per questo la prima domanda è: io prego per le vocazioni? Perché quando entriamo nello spirito della contemplazione e dell’adorazione, il Signore ci trasforma e noi possiamo essere un riflesso dell’amore del Padre per coloro che incontriamo lungo il cammino, essere persone nuove, luminose, accoglienti, gioiose.
Quando diventiamo così, offriamo il primo servizio alle vocazioni, perché quelli che incontriamo, in particolare i giovani, vengono attratti dal nostro modo di essere e dalla scelta di vita che abbiamo fatto: possono scorgere la luce di Dio riflessa sui nostri volti, la sua tenerezza e il suo amore nei nostri gesti, la sua gioia nel cuore di chi si è donato e donata interamente a Lui.
Le vocazioni, soprattutto quelle di speciale consacrazione, nascono spesso così, a contatto con qualche sacerdote o qualche religiosa che mostrano una bella umanità, una pace del cuore, una gioia invincibile, un tratto amorevole e accogliente.
Ed è la preghiera che ci fa diventare così.
Non trascuriamola! Pregare per le vocazioni, intensamente.
Nel vostro apostolato, poi, non bisogna dimenticare l’importanza dell’annuncio.
Annunciare il Signore.
San Giustino parlava del «dovere della predicazione quotidiana e della ricerca e cultura perpetua delle vocazioni» (Regole e Costituzioni, I, 75, art.
802), raccomandando specialmente l’insegnamento del catechismo.
Si tratta di una indicazione che conserva la sua importanza e rende attuale il vostro carisma.
Nel contesto culturale odierno, infatti, mentre il senso della presenza di Dio va scomparendo e la fede si affievolisce, può succedere che le persone, in particolare i giovani, non riescano a capire il senso e la direzione della loro vita, e magari si accontentino di vivere alla giornata, oppure la progettino senza interrogarsi su quale sia la loro strada, quale sogno il Signore abbia per loro.
E allora si vede la necessità di tornare all’evangelizzazione: annunciare la Parola, comunicare in modo semplice e appassionato i contenuti della fede, e accompagnare le persone nel discernimento.
C’è bisogno di questo nella Chiesa: che le energie del nostro apostolato siano soprattutto indirizzate all’incontro e all’ascolto, per accompagnare nel discernimento.
Questo vi raccomando: raggiungere tutti con la gioia del Vangelo, aiutare le persone nel discernimento spirituale, spendersi nell’evangelizzazione!
Infine, vi ricordo di coltivare e rinnovare sempre lo spirito missionario.
Il vocazionista, dice San Giustino, è un apostolo, è un missionario, è un testimone del Vangelo, e «tutta la Congregazione Vocazionista deve essere eminentemente missionaria» (Regole e Costituzioni, I, 89, art.
971).
Si tratta di mettere in circolo, nella vita della Chiesa ma anche nei diversi ambiti della società in cui operate, tutto ciò che è utile per comunicare la gioia del Vangelo, per dialogare con i giovani, per manifestare vicinanza alle famiglie, per fecondare le attività umane, specialmente quelle che si svolgono in campo educativo.
Una missione, questa, per la quale è necessario e prezioso il servizio di tanti laici che condividono il carisma di San Giustino.
Ma aggiungo un’altra cosa: Giustino raccomandava che ogni comunità vocazionista diventasse «un chiostro per i religiosi; casa del clero; cenacolo delle vocazioni; ufficio del popolo; dispensario di luce e consolazione; cuore della comunità parrocchiale e diocesana» (Opere, I, p.
363).
Anche in questo modo si porta avanti la missione: diventando capaci di accoglienza, di ascolto, di vicinanza.
Cari fratelli e sorelle, vi auguro di essere sempre uno spazio aperto per l’accoglienza delle persone e la cura delle vocazioni; un luogo di preghiera e discernimento per chi cerca; un luogo di consolazione per chi è ferito; una “bottega dello Spirito” dove chi entra può fare l’esperienza di essere modellato dall’artigiano divino che è lo Spirito Santo.
E non scoraggiatevi nelle fatiche e nelle difficoltà: il Signore vi è vicino e San Giustino intercede per voi! Andate avanti con coraggio.
Vi benedico di cuore e, per favore, pregate per me.
Grazie!
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi in Italia e in molti altri Paesi si celebra l’Ascensione del Signore.
È una festa che ben conosciamo, ma che può far sorgere alcune domande, almeno due.
La prima: perché festeggiare la partenza di Gesù dalla terra? Sembrerebbe che il suo congedo sia un momento triste, non precisamente qualcosa di cui gioire! Perché festeggiare una partenza? Prima domanda.
Seconda domanda: cosa fa Gesù adesso in cielo? Prima domanda: perché festeggiare? Seconda domanda: cosa fa Gesù in cielo?
Perché festeggiamo.
Perché con l’Ascensione è accaduta una cosa nuova e bellissima: Gesù ha portato la nostra umanità, la nostra carne in cielo – è la prima volta! –, cioè l’ha portata in Dio.
Quell’umanità, che aveva preso in terra, non è rimasta qui.
Gesù risorto non era uno spirito, no, aveva il suo corpo umano, la carne, le ossa, tutto, e lì, in Dio, sarà per sempre.
Possiamo dire che dal giorno dell’Ascensione Dio stesso è “cambiato”: da allora non è più solo spirito, ma per quanto ci ama reca in sé la nostra stessa carne, la nostra umanità! Il posto che ci spetta è dunque indicato, il nostro destino è lì.
Così scriveva un antico Padre nella fede: «Splendida notizia! Colui che si è fatto per noi uomo […], per renderci suoi fratelli, si presenta come uomo davanti al Padre, per portare con sé tutti coloro che gli sono congiunti» (S.
Gregorio di Nissa, Discorso sulla risurrezione di Cristo, 1).
Oggi festeggiamo “la conquista del cielo”: Gesù che torna al Padre, ma con la nostra umanità.
E così il cielo è già un po’ nostro.
Gesù ha aperto la porta e il suo corpo è lì.
La seconda domanda: che cosa fa Gesù in cielo? Lui sta per noi davanti al Padre, gli mostra continuamente la nostra umanità, mostra le piaghe.
A me piace pensare che Gesù, davanti il Padre, prega così, facendogli vedere le piaghe.
“Questo è quello che ho sofferto per gli uomini: fai qualcosa!”.
Gli fa vedere il prezzo della redenzione, e il Padre si commuove.
Questa è una cosa che mi piace pensare.
Così prega Gesù.
Lui non ci ha lasciati soli.
Infatti, prima di ascendere ci ha detto, come riporta il Vangelo di oggi: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
È sempre con noi, ci guarda, è «sempre vivo per intercedere» (Eb 7,25) a nostro favore.
Per far vedere le piaghe al Padre, per noi.
In una parola, Gesù intercede; è nel “luogo” migliore, davanti al Padre suo e nostro, per intercedere a nostro vantaggio.
L’intercessione è fondamentale.
Anche per noi è di aiuto questa fede: ci aiuta a non perdere la speranza, a non scoraggiarsi.
Davanti il Padre c’è qualcuno che gli fa vedere le piaghe e intercede.
La Regina del cielo ci aiuti a intercedere con la forza della preghiera.
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Dopo il Regina Caeli
Cari fratelli e sorelle!
È triste ma, a un mese dallo scoppio delle violenze in Sudan, la situazione continua ad essere grave.
Nell’incoraggiare gli accordi parziali finora raggiunti, rinnovo un accorato appello affinché vengano deposte le armi, e chiedo alla comunità internazionale di non risparmiare alcuno sforzo per far prevalere il dialogo e alleviare la sofferenza della popolazione.
Per favore, non abituiamoci ai conflitti e alle violenze.
Non abituiamoci alla guerra! E continuiamo a stare vicino al martoriato popolo ucraino.
Si celebra oggi la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, sul tema Parlare con il cuore.
È il cuore che ci muove a una comunicazione aperta e accogliente.
Saluto i giornalisti e, gli operatori della comunicazione qui presenti, li ringrazio per il loro lavoro e auspico che sia sempre al servizio della verità e del bene comune.
Un applauso a tutti i giornalisti!
Oggi inizia la Settimana Laudato si’.
Ringrazio il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale e le numerose organizzazioni aderenti; e invito tutti a collaborare per la cura della nostra casa comune: c’è tanto bisogno di mettere insieme competenze e creatività! Ce lo ricordano anche le recenti calamità, come le inondazioni che hanno colpito in questi giorni l’Emilia Romagna, alla cui popolazione rinnovo di cuore la mia vicinanza.
Adesso in Piazza saranno distribuiti i libretti sulla Laudato si’ che il Dicastero ha preparato in collaborazione con l’Istituto ambientale di Stoccolma.
Saluto tutti voi, romani e pellegrini dell’Italia e di tanti Paesi… Vedo tante bandiere, benvenuti! Saluto, in particolare le Suore Francescane di Santa Elisabetta dall’Indonesia – da lontano! –, i fedeli di Malta, del Mali, dell’Argentina, dell’Isola Caraibica Curaçao e la Banda musicale di Porto Rico.
Ci piacerebbe sentirvi suonare, dopo!
Saluto inoltre il pellegrinaggio diocesano di Alessandria; i ragazzi della Cresima della diocesi di Genova, che ho incontrato ieri a S.
Marta, con il cappello rosso, lì, bravi!; i gruppi parrocchiali del Molise, di Scandicci, Grotte e Grumo Nevano; le associazioni impegnate per la difesa della vita umana; il Coro giovanile “Emil Komel” di Gorizia; le scuole “Caterina di Santa Rosa” e “Sant’Orsola” di Roma e i ragazzi dell’Immacolata.
A tutti voi auguro una buona domenica.
Per favore, non dimenticatevi di pregare per me.
Per favore, non dimenticatevi.
Buon pranzo e arrivederci!
Cari fratelli e sorelle, fratellini, sorelline, tutti: benvenuti!
Vi do il benvenuto e vi ringrazio per essere venuti pellegrini a Roma nell’Anno giubilare che state vivendo per l’anniversario della dedicazione della Cattedrale di Santa Maria Assunta a Spoleto.
So che la sua facciata, apparsa in televisione tante volte negli ultimi anni, è diventata familiare ad ogni italiano.
Ma so soprattutto che è una chiesa molto bella.
La bellezza attrae, e vorrei dirvi qualcosa proprio sulla bellezza.
Perché comunicare la fede è anzitutto questione di bellezza.
Ma la bellezza non si spiega, si mostra, si fa vedere; non si può convincere della bellezza, occorre testimoniarla.
Perciò nella Chiesa ciò che si testimonia è più importante di ciò che si predica.
E il vostro Duomo, con le sue magnifiche cappelle, custodisce storie di vita e di fede, racchiude santità e bellezza.
È una testimonianza di storia, di vita, di bellezza, di santità.
Certo, è una bellezza che va cercata, che va portata alla luce, come fa un restauratore quando riscopre i colori di un affresco antico.
Così è nella Chiesa, dove quello che non appare agli occhi è più prezioso di quello che si vede: la preghiera, la carità fatta di nascosto, la forza del perdono non vanno in prima pagina; così pure i sacrifici dei pastori, la vita di tanti “santi della porta accanto”, la testimonianza dei genitori, delle famiglie, degli anziani… Ecco, vi auguro di essere scopritori di bellezza, cercatori dei tesori della fede; di non fermarvi alla superficie delle cose, ma di vedere oltre, apprezzando e abbracciando il patrimonio di santità e servizio che è la ricchezza della Chiesa.
E anche di accrescerlo, perché la fede non può rimanere un ricordo del passato, qualcosa di “museale”, no; ma rivive sempre nella gioia del Vangelo, nella comunità fatta di persone, nell’assemblea di quanti sperimentano la misericordia e si riconoscono per grazia fratelli e sorelle amati da Dio.
Cercare la bellezza è andare al cuore delle cose, non all’apparenza.
Nella Chiesa non è più tempo di concentrarsi su aspetti secondari, aspetti esteriori; è tempo di guardare alla comunità delle origini e di focalizzarsi sulle vere priorità, che sono la preghiera, la carità e l’annuncio.
So che vi state impegnando per dare vita a un’azione apostolica più genuina.
Rinnovare la pastorale richiede scelte, e le scelte devono partire da ciò che più conta.
Non abbiate paura di aggiornare le modalità dell’evangelizzazione, la catechesi, il ministero del parroco e il servizio degli operatori pastorali, per passare da una pastorale di conservazione, dove ci si aspetta che la gente venga, a una pastorale missionaria, dove ci si allena a dilatare il cuore all’annuncio, uscendo dalle “introversioni pastorali”.
Quando il cuore non resta chiuso e triste a rimuginare le cose che non vanno, ma si apre, come avviene in un sacerdote che si spende per la sua gente, in una famiglia che genera vita, in un giovane che sceglie di non pensare solo a divertirsi ma di mettersi in gioco per Dio e per gli altri, allora il Vangelo passa in modo genuino, attraverso la bellezza della testimonianza.
Ricordiamolo sempre: la testimonianza della vita comunica la bellezza della fede.
La testimonianza della vita comunica la bellezza della fede.
“Ma guarda, studia, quanto bella è la fede nostra …” – “Io non la capisco, non la vedo.
Io la vedo nella testimonianza dei cristiani”.
Se io mi dico cristiano e faccio testimonianza di non cristiano o di mondano, non serve a nulla.
C’è la coerenza tra quello che credo e come vivo quello che credo: questa coerenza di vuole tanto.
Oltre alla bellezza, vorrei condividere con voi una seconda parola che credo vi riguardi in modo particolare.
La parola è intercessione.
Il vostro Duomo, dedicato alla Madre di Dio, ha la sua effige più rappresentativa nella “Santissima Icone”.
Questa immagine raffigura la Vergine con le mani alzate, mentre intercede per noi: “intercessora”.
Ed è “un’icona che parla”: infatti il suo cartiglio dà voce all’immagine.
Lo fa attraverso un dialogo tra Gesù e sua Madre, un dialogo quasi drammatico, con Cristo che dice: «Che cosa chiedi, o Maria?», e Lei risponde: «La salvezza dei viventi».
Lui ribatte: «Ma provocano a sdegno».
E lei: «Compatiscili, Figlio mio».
Lui: «Ma non si convertono!», e Lei: «E tu salvali per grazia».
È con questa intercessione che la Madonna tocca il cuore del Figlio.
E questa non è un’immagine poetica, è la verità.
Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi – diciamo nell’Ave Maria.
E lei prega per noi.
Noi le chiediamo di pregare per noi e lei lo fa, lei parla al Figlio.
L’intercessione ha come una dimensione interessante, è portare gli altri davanti al Signore, lottare con Lui attraverso la preghiera, sapendo insistere, non solo e non tanto per i nostri amici e per le persone care, come si fa di solito, ma soprattutto per chi è lontano, per chi non è dei nostri, per chi ci critica, per chi non conosce l’amore di Dio.
Una Chiesa che intercede, prega per gli altri, che porta il mondo al Signore senza diventare mondana, è una Chiesa sempre viva, sempre vivace, sempre bella.
Quante volte, invece, serpeggia anche tra noi il virus della lamentela, perché “le cose che non vanno sono tante”, “i tempi passati erano migliori”, “il parroco di prima era più bravo”, e questa musica di lamentarsi.
La lamentela è una cosa amara, brutta, sai? Ti sembra che sia una cosa dolce? No.
Amareggia il cuore, la lamentela.
E Santa Teresa, che era brava, sapeva condurre, diceva: «Guai a quelli che si lamentano e dicono: “Mi hanno fatto un’ingiustizia”».
Guai.
Perché i lamentativi sono come quelle donne che un tempo andavano a piangere alle onoranze funebri, davanti al morto.
E piangevano, piangevano … il loro compito era lamentarsi e piangere.
Brutto, brutto ufficio e brutta figura della persona che vive lamentandosi sempre.
Il cristiano non può lasciarsi intrappolare nei lacci di questa mondanità stanca e snervante, ma è chiamato a riscoprire la bellezza che ha ricevuto per grazia e a intercedere, cioè ad attirare la bellezza sugli altri.
Cari fratelli e sorelle, questo giubileo vi aiuti a rinsaldare le radici, così che voi della valle spoletana e dei monti nursini, dalla vostra Basilica secolare, alla scuola di Maria e del vostro patrono il martire San Ponziano, possiate gioire per la bellezza dell’amore di Dio e dell’essere Chiesa, e sentirvi chiamati a intercedere.
Questo vi auguro mentre di cuore vi benedico.
E vi chiedo un favore: sostando nella Cattedrale di Spoleto presso la Santissima Icone, non dimenticatevi di pregare per me.
Grazie.
Cari fratelli e sorelle, benvenuti!
Sono lieto di incontrarvi in occasione del vostro trentottesimo Capitolo Generale, negli anniversari della nascita e della canonizzazione del vostro Fondatore.
Celebrando più di tre secoli di vita e di servizio, avete scelto come tema per i vostri lavori il motto: «Osare rischiare per Dio e per l’umanità.
La nostra fedeltà creativa».
E’ vero, non è una fedeltà mummificata, è creativa! Sono parole che ben richiamano i valori che hanno animato San Luigi Maria Grignion de Montfort agli inizi della vostra storia.
Egli è vissuto in un tempo segnato da sfide impegnative per la Chiesa e per la società: detto “epoca di razionalisti e di libertini” e al tempo stesso “culla del giansenismo”.
Di fronte a queste provocazioni, San Luigi Maria si è chiesto prima di tutto quale ne fosse la radice comune, e l’ha individuata in una eccessiva fiducia degli uomini nella sapienza del mondo a scapito del primato della Sapienza di Dio.
Per questo si è lanciato in un’intensa attività di predicazione, con creatività e senza paura, incontrando anche incomprensioni dentro e fuori della Chiesa: succede sempre così.
E non si è mai arreso, continuando a predicare e a promuovere l’amore per la vera Sapienza, attraverso la devozione a Maria, fino alla sua morte, avvenuta a soli quarantatré anni, in Vandea, durante una missione.
Del suo coraggio voi testimoniate i frutti: presenti in trentatré Paesi, con più di settecento religiosi, assieme ai Fratelli di San Gabriele, alle Figlie della Sapienza e ai Laici Associati.
È bello, questo!
Anche oggi le sfide pastorali non mancano: ad esempio l’individualismo che chiude ciascuno nel suo piccolo mondo, il relativismo e l’edonismo che fanno del piacere o del tornaconto personale il metro di ogni scelta, l’egoismo consumistico che inaridisce il cuore dei ricchi e crea ingiuste sperequazioni a danno dei poveri.
Di fronte a tutto questo, San Luigi Maria vi ha lasciato un programma di vita e di azione che è sempre attuale: «cercare, contemplare, rivelare la Sapienza nel cuore del mondo e denunciarne la falsa sapienza» (Regola di vita, Introduzione), e questo sull’esempio e con l’aiuto di Maria.
Vorrei sottolineare tre valori che ritengo importanti e attuali, vostri: l’accoglienza, l’internazionalità e la tenerezza.
Il Vangelo ci mostra Maria come colei che, per accogliere in sé Gesù, Sapienza del Padre, con coraggio ha accettato di cambiare completamente la sua vita, le sue abitudini, i suoi sogni e le sue scelte.
Così ha custodito e donato ai fratelli l’amore che ha ricevuto, a Nazareth, sul Calvario e nel Cenacolo dove, nella luce della Pasqua, ha condiviso umilmente la vita della prima comunità.
L’accoglienza – che è la prima cosa di cui vorrei parlare – è stata una dimensione fondamentale dell’esistenza di Maria e nella missione di lei.
Sul suo esempio, esorto anche voi ad esercitarla nelle vostre case e verso le persone che Dio vi affida.
Il nostro mondo ha tanto bisogno di accoglienza e, nell’accoglienza ha bisogno di creatività, che ci faccia vicini a tutti, anche in situazioni nuove, che richiedono risposte urgenti.
Accogliere a cuore aperto per ricevere.
Per voi questo valore si arricchisce, come testimonia la vostra presenza qui, dei colori dell’internazionalità, della multiculturalità e del dialogo intergenerazionale.
In un recente documento avete scritto che il volto vivo di San Luigi Maria oggi ha in voi «i tratti ben marcati dell’Europa, con accenti luccicanti dei Caraibi, dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia» (Lettera dei Capitolari ai Confratelli, Roma, 20 maggio 2017): è vero, è ben musicale, questo, è così; e che è ricco del sorriso, delle lacrime, degli occhi e della bocca di tutte le sorelle e di tutti i fratelli sparsi nel mondo (cfr ivi).
E forse qualche canonista vi dirà: “Ma questo non serve, questa non è una definizione canonica di quello che è un istituto”: è una definizione vivace e questo mi piace.
È una bella immagine di comunità evangelica, un vero dono per tutti! Fatene tesoro, coltivatela e diffondetela con la vostra testimonianza.
Infine vorrei ricordarvi che le virtù di cui abbiamo parlato fioriscono, ad ogni livello, quando le persone si sentono amate e rispettate.
Il Montfort ce lo ha insegnato indicandoci le braccia tenere di Maria, che ci accoglie tutti come figli (cfr Trattato della vera devozione a Maria, n.
48).
Lasciatevi stringere dal suo abbraccio materno e colla stessa tenerezza abbracciatevi gli uni gli altri; la tenerezza.
Questo aiuterà voi e le persone che incontrerete a tirar fuori e a condividere il meglio di sé e, nella luce di tale condivisione, a discernere ciò che il Signore vi chiede per il vostro futuro.
Se volete essere coraggiosi e creativi, dunque, fate vostra la tenerezza di Maria e donatela a tutti, sempre! Ma la tenerezza non è un dolce che si compra, la tenerezza fa dolcezza, ma è forte.
Avere un cuore tenero indica fortezza nel cuore per diventare tenero.
Non dimenticatevi che la tenerezza è uno dei tre tratti di Dio.
Dio è vicino, tenero e compassionevole.
Tenerezza, compassione e vicinanza.
Fate l’esame di coscienza con questo: “Io, oggi, sono stato vicino o mi sono difeso un po’? Sono stato compassionevole o ho condannato mezzo mondo? Sono stato tenero?”.
Portate avanti questi tre tratti di Dio: vicinanza, compassione e tenerezza.
Lo ha testimoniato padre Olivier Maire, Missionario Monfortano, morto per aver accolto in comunità un uomo che aveva sbagliato, una persona molto problematica, a cui però voleva donare un tetto e una speranza per il futuro.
La sua generosità e il suo coraggio gli sono costati la vita, per un gesto folle e inspiegabile, e mentre mi stringo ai suoi genitori e parenti, qui presenti, invito tutti voi a far tesoro del suo esempio: ha accolto un fratello perdonando il suo passato e abbracciandolo senza fare calcoli, desiderando solo di donargli amore, con tenerezza.
Abbiamo tanto bisogno di imparare ad amare così, di crescere in questo amore, di essere vicini, compassionevoli e teneri.
Per questa ragione lo scorso anno ho voluto consacrare al Cuore Immacolato di Maria la Chiesa e il mondo intero, specialmente l’Ucraina e la Russia.
E a voi, che siete la Compagnia di Maria, chiedo di rinnovare questo atto di affidamento e questa supplica.
La Madre Celeste ci aiuti tutti a cercare con coraggio e creatività cammini di perdono, di dialogo, di accoglienza e di pace per tutta l’umanità.
Vi benedico di cuore e vi chiedo, per favore, di pregare per me.
A Sua Eccellenza Reverendissima Alexis-Mitsuru Shirahama
Vescovo di Hiroshima
Mentre il vertice del G7 si riunisce a Hiroshima per discutere questioni urgenti dinanzi alle quali si trova attualmente la comunità mondiale, desidero assicurarLe la mia vicinanza spirituale e la mia preghiera affinché il summit sia fruttuoso.
La scelta di Hiroshima come luogo dell’incontro è particolarmente significativa alla luce della continua minaccia del ricorso ad armi nucleari.
Ricordo la profonda impressione che mi ha lasciato la commovente visita al Memoriale della Pace durante il mio viaggio in Giappone nel 2019.
Stando lì in piedi in silenziosa preghiera e pensando alle vittime innocenti dell’attacco nucleare avvenuto decenni prima, ho voluto ribadire la ferma convinzione della Santa Sede che “l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune” (Discorso al Memoriale della Pace, 24 novembre 2019).
È a quel futuro che uomini e donne responsabili guardano ora con preoccupazione, specialmente sulla scia della esperienza di una pandemia globale e del persistere di conflitti armati in diverse regioni, tra cui la devastante guerra che si sta combattendo su suolo ucraino.
Gli eventi degli ultimi anni hanno reso evidente che solo insieme, in fratellanza e solidarietà, la nostra famiglia umana può cercare di curare le ferite e costruire un mondo giusto e pacifico.
Di fatto, è diventato sempre più evidente che nel mondo multipolare del ventunesimo secolo la ricerca della pace è strettamente collegata al bisogno di sicurezza e alla riflessione sui mezzi più efficaci per garantirla.
Tale riflessione deve necessariamente tenere in considerazione il fatto che la sicurezza globale deve essere integrale, capace di abbracciare questioni come l’accesso a cibo e acqua, il rispetto dell’ambiente, l’assistenza sanitaria, le fonti energetiche e la equa distribuzione dei beni del mondo.
Un concetto integrale di sicurezza può servire a rinsaldare il multilateralismo e la cooperazione internazionale tra attori governativi e non governativi, sulla base della profonda interconnessione tra tali questioni, la quale rende necessario adottare, insieme, un approccio di cooperazione multilaterale responsabile.
Hiroshima, come “simbolo della memoria”, proclama con forza l’inadeguatezza delle armi nucleari per rispondere in modo efficace alle grandi minacce odierne alla pace e per garantire la sicurezza nazionale e internazionale.
Basta considerare l’impatto umanitario e ambientale catastrofico che risulterebbe dall’uso di armi nucleari, come anche lo spreco a la cattiva destinazione di risorse umane ed economiche che la loro produzione comporta.
Né dobbiamo sottovalutare gli effetti del persistente clima di paura e sospetto generato dal mero possesso delle stesse, che compromette la crescita di un clima di fiducia reciproca e di dialogo.
In tale contesto, le armi nucleari e le altre armi di distruzione di massa rappresentano un moltiplicatore di rischio che dà solo un'illusione di pace.
Assicurando la mia preghiera per Lei e per quanti sono affidati alla sua cura pastorale, mi unisco nella preghiera affinché il vertice del G7 a Hiroshima dia prova di una visione lungimirante nel gettare le fondamenta per una pace duratura e per una sicurezza stabile e sostenibile a lungo termine.
Con gratitudine per il suo impegno al servizio della giustizia e della pace, invio di cuore la mia benedizione.
Roma, San Giovanni in Laterano, 19 maggio 2023
FRANCESCO
Catechesi.
La passione per l’evangelizzazione: lo zelo apostolico del credente. 13. Testimoni: San Francesco Saverio
Cari Fratelli e sorelle, buongiorno!
Proseguendo il nostro itinerario delle Catechesi con alcuni modelli esemplari di zelo apostolico… ricordiamo che stiamo parlando della evangelizzazione, dello zelo apostolico, del portare avanti il nome di Gesù, e ci sono nella storia tante donne e uomini che hanno fatto questo in modo esemplare.
Oggi, per esempio, scegliamo, San Francesco Saverio: è considerato, alcuni dicono, il più grande missionario dei tempi moderni.
Ma non si può dire chi è il più grande, chi è il più piccolo, perché ci sono tanti missionari nascosti che anche oggi fanno tanto più di San Francesco Saverio.
E Saverio è il Patrono delle missioni, come Santa Teresa del Bambin Gesù.
Ma un missionario è grande quando va.
E ci sono tanti, tanti, sacerdoti, laici, suore, che vanno nelle missioni, anche dall’Italia e tanti di voi.
Io vedo, per esempio, quando mi presentano la storia di un sacerdote come candidato all’episcopato: ha passato dieci nella missione in tale luogo… questo è grande: uscire dalla patria per predicare il Vangelo.
È lo zelo apostolico.
E questo noi dobbiamo coltivare tanto.
E guardando la figura di questi uomini, di queste donne, impariamo.
E San Francesco Saverio nasce in una famiglia nobile ma impoverita della Navarra, nel nord della Spagna, nel 1506.
Va a studiare a Parigi – è un giovane mondano, intelligente, bravo.
Lì incontra Ignazio di Loyola.
Gli fa fare gli esercizi spirituali e cambia vita.
E lui lascia tutta la sua carriera mondana per diventare missionario.
Lui si fa gesuita, fa i voti.
Poi diventa sacerdote, e va a evangelizzare, inviato in Oriente.
In quel tempo i viaggi dei missionari in Oriente erano un invio verso mondi sconosciuti.
E lui va, perché era pieno di zelo apostolico.
Parte così il primo di una numerosa schiera di missionari appassionati dei tempi moderni, pronti a sopportare fatiche e pericoli immensi, a raggiungere terre e incontrare popoli di culture e lingue del tutto sconosciute, spinti solo dal fortissimo desiderio di far conoscere Gesù Cristo e il suo Vangelo.
In poco più di undici anni compirà un’opera straordinaria.
È stato missionario undici anni più o meno.
I viaggi in nave a quel tempo erano durissimi, erano pericolosi.
Molti morivano in viaggio per naufragi o malattie.
Oggi purtroppo muoiono perché noi li lasciamo morire nel Mediterraneo… Saverio passa sulle navi oltre tre anni e mezzo, un terzo dell’intera durata della sua missione.
Sulle navi lui passa oltre tre anni e mezzo, per andare in India, poi dall’India in Giappone.
Arrivato a Goa, in India, la capitale dell’Oriente portoghese, la capitale culturale e anche commerciale, Saverio vi pone la sua base, ma non si ferma lì.
Va ad evangelizzare i poveri pescatori della costa meridionale dell’India, insegnando catechismo e preghiere ai bambini, battezzando e curando i malati.
Poi, durante una preghiera notturna presso la tomba dell’apostolo San Bartolomeo, sente di dover andare oltre l’India.
Lascia in buone mani il lavoro già avviato e salpa con coraggio per le Molucche, le isole più lontane dell’arcipelago indonesiano.
Per questa gente non c’erano orizzonti, loro andavano oltre… Un coraggio avevano questi santi missionari! Anche quelli di oggi, anche se non vanno in nave per tre mesi, vanno in aereo per 24 ore ma poi lì è lo stesso.
Si deve mettere lì, e fare tanti chilometri, addentrarsi nelle foreste.
E Saverio, nelle Molucche, mette in versi il catechismo nella lingua locale e insegna a cantare il catechismo, perché con il canto lo si apprende meglio.
Quali siano i suoi sentimenti lo capiamo dalle sue lettere.
Scrive così: «I pericoli e le sofferenze, accolti volontariamente e unicamente per amore e servizio di Dio nostro Signore, sono tesori ricchi di grandi consolazioni spirituali.
Qui in pochi anni si potrebbero perdere gli occhi per le troppe lacrime di gioia!» (20 gennaio 1548).
Piangeva di gioia vedendo l’opera del Signore.
Un giorno, in India, incontra un giapponese, che gli parla del suo lontano Paese, dove mai nessun missionario europeo si era ancora spinto.
E Francesco Saverio aveva l’inquietudine dell’apostolo, di andare oltre, e decide di partire al più presto, e ci arriva dopo un viaggio avventuroso sulla giunca di un cinese.
I tre anni in Giappone sono durissimi, per il clima, le opposizioni e l’ignoranza della lingua, ma anche qui i semi piantati daranno grandi frutti.
Il grande sognatore, Saverio, in Giappone capisce che il Paese decisivo per la missione nell’Asia era un altro: la Cina.
con la sua cultura, la sua storia, la sua grandezza, esercitava di fatto un predominio su quella parte del mondo.
Anche oggi la Cina è proprio un polo culturale, con una storia grande, una storia bellissima.
Perciò egli torna a Goa e poco dopo s’imbarca di nuovo sperando di poter entrare in Cina.
Ma il suo disegno fallisce: egli muore alle porte della Cina, su un’isola, la piccola isola di Sancian, davanti alle coste cinesi aspettando invano di poter sbarcare sulla terraferma vicino a Canton.
Il 3 dicembre 1552, muore in totale abbandono, solo un cinese è accanto a lui a vegliarlo.
Così termina il viaggio terreno di Francesco Saverio.
Era invecchiato, quanti anni aveva? Ottanta già? No…Aveva soltanto quarantasei anni, aveva speso la vita nella missione, con lo zelo.
Parte dalla Spagna colta e arriva al Paese più colto del mondo in quel momento, la Cina, e muore davanti alla grande Cina, accompagnato da un cinese.
Tutto un simbolo!
La sua attività intensissima è stata sempre unita alla preghiera, all’unione con Dio, mistica e contemplativa.
Non lasciò la preghiera mai, perché sapeva che lì c’era la forza.
Dovunque si trovava, aveva grande cura per i malati, i poveri e i bambini.
Non era un missionario “aristocratico”: andava sempre con i più bisognosi, i bambini che erano i più bisognosi di istruzione, di catechesi, i poveri, i malati: andava proprio alle frontiere dell’assistenza dove è cresciuto in grandezza.
L’amore di Cristo è stato la forza che lo ha spinto sino ai confini più lontani, con fatiche e pericoli continui, superando insuccessi, delusioni e scoraggiamenti, anzi, dandogli consolazione e gioia nel seguirlo e servirlo fino alla fine.
San Francesco Saverio che ha fatto questa cosa tanto grande, in tanta povertà, e con tanto coraggio, ci dia un po’ di questo zelo, di questo zelo per vivere il Vangelo e annunciare il Vangelo.
Ai tanti giovani oggi che hanno un po’ di inquietudine e non sanno che cosa fare con quella inquietudine, dico: guardate Francesco Saverio, guardate l’orizzonte del mondo, guardate i popoli in tanta necessità, guardate tanta gente che soffre, tanta gente che ha bisogno di Gesù.
E andate, abbiate coraggio.
Anche oggi ci sono giovani coraggiosi.
Penso a tanti missionari per esempio nella Papua Nuova Guinea, penso ad amici miei, giovani, che stanno nella diocesi di Vanimo, e tutti quelli che sono andati ad evangelizzare sulla scia di Francesco Saverio.
Che il Signore dia a tutti noi la gioia di evangelizzare, la gioia di portare avanti questo messaggio tanto bello che fa felici noi, e tutti.
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Saluti
Je salue cordialement les pèlerins de langue française, en particulier les groupes venus de Haïti avec Mgr Dumas et ceux venus de France, notamment du diocèse de La Rochelle avec Mgr Colomb, des écoles de Paris et de Laval ou de diverse paroisses.
Chers frères et sœurs, que l’élan et l’exemple de saint François-Xavier nous fassent découvrir dans les fatigues et les difficultés de la mission, la joie profonde que ressentait le missionnaire heureux de porter le Christ aux confins du monde.
Que Dieu vous bénisse.
[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese, specialmente i gruppi di Haiti con il Vescovo Dumas e quelli provenienti dalla Francia, in modo particolare dalla diocesi di La Rochelle con il Vescovo Colomb, dalle scuole di Parigi e Laval e da varie parrocchie.
Cari fratelli e sorelle, lo slancio e l'esempio di San Francesco Saverio ci aiutino a scoprire, nelle fatiche e nelle difficoltà della missione, la gioia profonda del missionario felice di portare Cristo fino agli estremi confini della terra.
Dio vi benedica.]
I extend a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, especially the groups from England, Scotland, India, Indonesia, Korea, Taiwan, Canada and the United States of America.
In the joy of the Risen Christ, I invoke upon you and your families the loving mercy of God our Father.
May the Lord bless you all!
[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua inglese, specialmente ai gruppi provenienti da Inghilterra, Scozia, India, Indonesia, Corea, Taiwan, Canada e Stati Uniti d’America.
Nella gioia del Cristo Risorto, invoco su di voi e sulle vostre famiglie l’amore misericordioso di Dio nostro Padre.
Il Signore vi benedica!]
Herzlich grüße ich die Pilger deutscher Sprache.
Christus lädt uns vor seiner Himmelfahrt ein, ihn zu bezeugen bis an die Grenzen der Erde.
Folgen wir seinem Ruf, indem wir ihm durch das Gebet, die Sakramente und den Dienst am Nächsten verbunden bleiben.
Ich segne euch von Herzen.
[Saluto di cuore i pellegrini di lingua tedesca.
Cristo, prima della sua Ascensione, ci invita ad essere suoi testimoni fino ai confini della terra.
Accogliamo la sua chiamata, vivendo uniti a lui nella preghiera, nei sacramenti e nel servizio del prossimo.
Vi benedico di cuore.]
Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española.
Pidamos al Señor que envíe su Espíritu Santo sobre nosotros para que, como san Francisco Javier, seamos fieles discípulos y misioneros de su Evangelio, hasta los confines de la tierra.
Que Jesús los bendiga y la Virgen Santa los cuide.
Muchas gracias.
Amados peregrinos de língua portuguesa, dou as boas-vindas a todos, nomeadamente aos fiéis da paróquia São Paulo Apóstolo em São Miguel Paulista e ao grupo de Faro.
Esta semana trouxe-vos até Roma, e leva-nos até à Festa da Ascensão de Jesus ao Céu.
São metas de ordem e nível diversos, mas coexistem no coração do romeiro cristão: sabendo ele que não possui aqui cidade permanente, orienta os seus passos para o Céu.
O Espírito Santo abençoe, com os seus dons, cada um de vós e quantos se encontram no vosso caminho.
[Cari pellegrini di lingua portoghese, do il benvenuto a tutti, in particolare ai fedeli della parrocchia San Paolo Apostolo in “São Miguel Paulista” e al gruppo di Faro.
Questa settimana vi ha portati a Roma, e ci porta alla Festa dell’Ascensione di Gesù al Cielo.
Sono mete di diverso ordine e livello, ma convivono nel cuore del pellegrino cristiano: lui, sapendo di non avere qui città stabile, dirige i suoi passi verso il Cielo.
Lo Spirito Santo benedica, con i suoi doni, ognuno di voi e quanti si trovano sul vostro cammino.]
أُحيِّي المُؤمِنِينَ الناطِقِينَ باللُغَةِ العربِيَّة.
في شَهرِ أيّار/مايو، الشَّهرِ المُكَرَّسِ لِسَيِّدَتِنا مَريمَ العَذراء، تُتلَى السُّبحَةُ الوَردِيَّةُ المُقَدَّسَة، وهي خُلاصَةٌ وافِيَة لِتارِيخِ خَلاصِنا بأَكمَلِه.
إنَّ السُّبحَةَ الوَردِيَّة هي سِلاحٌ قَوِيٌ ضِدَّ الشَّرِّ ووسِيلَةٌ فعّالَةٌ لِلحُصولِ على سَلامٍ حَقِيقيٍّ في قلوبِنا.
بارَكَكُم الرَّبُّ جَميعًا وَحَماكُم دائِمًا مِن كُلِّ شَرّ!
[Saluto i fedeli di lingua araba.
Nel mese di maggio, mese dedicato alla Madonna, si recita il Santo Rosario, compendio di tutta la storia della nostra salvezza.
Il Santo Rosario è un’arma potente contro il male, e un mezzo efficace per ottenere la vera pace nei nostri cuori.
Il Signore vi benedica tutti e vi protegga sempre da ogni male!]
Serdecznie witam pielgrzymów polskich, a szczególnie grupę zaangażowaną w obronę życia z Bractwa „Małych stópek”.
Wczoraj Kościół w Polsce obchodził wspomnienie św.
Andrzeja Boboli, jezuity, kapłana i męczennika.
Polecajmy mu wszystkie trudne sprawy waszej ojczyzny i innych krajów, w szczególności sprawę pokoju na Ukrainie.
Z serca wam błogosławię.
[Saluto cordialmente i pellegrini polacchi, in particolare il gruppo impegnato nella difesa della vita della Fraternità “Małych stópek”.
Ieri la Chiesa in Polonia faceva memoria liturgica di Sant'Andrea Bobola, gesuita, sacerdote e martire.
A lui affidiamo tutte le questioni difficili della vostra patria e quelle degli altri paesi, in particolare la questione della pace in Ucraina.
Vi benedico di cuore.]
Szeretettel köszöntöm a mai általános kihallgatáson részt vevő magyar nyelvű zarándokokat, különösen a Szombathelyi Egyházmegyéből érkezett hívek csoportját, akik Székely János püspökükkel együtt, Boldog Batthányi-Strattmann László, a szegények orvosa, boldoggá avatásának 20.
évfordulója alkalmából érkeztek.
Boldog Batthányi-Strattmann László a szenvedők érdekében végzett munkája révén vált nagy misszionáriussá, mert tanúságot tett a szeretet evangéliumáról.
Ingyenesen segített a szegényeknek, akiktől jutalmul csupán csak azt kérte, hogy imádkozzanak érte.
Arra buzdítalak benneteket, kedves testvérek, hogy utánozzátok az életszentségnek ezt a tiszteletre méltó példáját.
Isten áldjon benneteket.
[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua ungherese partecipanti a questa Udienza Generale, in modo speciale il gruppo dei fedeli provenienti dalla Diocesi di Szombathely con il loro Vescovo Székely János convenuti in occasione del 20° anniversario della beatificazione di Ladislao Batthanyi-Strattmann, medico dei poveri.
Il Beato Ladislao attraverso la sua opera in favore dei più bisognosi è diventato un grande missionario, perché testimoniava il Vangelo della carità.
Assisteva gratuitamente i poveri, ai quali chiedeva come compenso di pregare per lui.
Cari fratelli e sorelle vi incoraggio a imitare questo mirabile esempio di santità.
Dio vi benedica.]
* * *
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana.
In particolare, saluto l’Azione Cattolica di Lecce con l’Arcivescovo Mons.
Michele Seccia: lo Spirito del Risorto vi aiuti a discernere i segni dei tempi, così da testimoniare il Vangelo con fedeltà e gioia in ogni ambiente.
Siate costruttori di fraternità!
Infine, come di consueto, mi rivolgo ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli.
La Solennità dell’Ascensione del Signore, che domani celebreremo, ci invita a guardare al momento in cui Gesù, prima di salire al cielo, affida agli Apostoli il mandato di portare il suo Messaggio di salvezza fino agli estremi confini della terra.
Cari giovani – specialmente voi alunni di tante scuole oggi qui presenti – accogliendo il mandato missionario di Cristo, impegnatevi a mettere il vostro entusiasmo a servizio del Vangelo.
Voi, cari malati e anziani, vivete uniti al Signore, nella certezza di offrire un contributo prezioso alla crescita del Regno di Dio nel mondo.
E voi, cari sposi novelli, fate in modo che le vostre famiglie siano luoghi in cui si impara ad amare Dio e ad essere suoi testimoni nella gioia.
E tutti noi preghiamo il Signore per l’amata Ucraina: si soffre tanto, lì, si soffre tanto.
Preghiamo per i feriti, per i bambini, per quelli che sono morti, perché torni la pace.
A tutti voi la mia benedizione.
Papa Francesco:
Grazie per la visita, sono contento di vedervi – e tanti, tanti! Sono contento.
Benvenuti! Vi auguro un bel soggiorno a Roma: conoscere le cose, passeggiare, andare per i giardini… tante cose belle.
E soprattutto, essere uniti, non litigare tra voi.
Sapete chi è che ha inventato il litigare? Chi lo sa?
Ragazzi:
Il diavolo.
Papa Francesco:
Il diavolo.
Il diavolo vuole che noi litighiamo e lui è felice.
No.
Noi dobbiamo essere amici e mai sparlare.
Sapete cos’è sparlare? Cos’è?
Ragazzi:
Parlare male degli altri.
Papa Francesco:
Parlare male degli altri.
Sparlare è una cosa brutta, una cosa molto brutta.
E la gente che sparla è gente che perde la dignità, perché si occupa di sporcare gli altri.
Sparlare è sporcare gli altri.
Dunque, cos’è sparlare?
Ragazzi:
Sporcare gli altri.
Papa Francesco:
È bello sporcare gli altri?
Ragazzi:
No!
Papa Francesco:
“Eh, Padre, io non so come fare a non sparlare perché mi viene…”.
Ma io ho una medicina molto buona, sapete? Morditi la lingua, sai? E così non sparlerai.
Grazie, grazie di questa visita.
Adesso vi invito a pregare la Madonna e così vi do la benedizione.
Preghiamo la Madonna.
Ave o Maria,…
[Benedizione]
Buon soggiorno!
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Il Vangelo di oggi, sesta domenica di Pasqua, ci parla dello Spirito Santo, che Gesù chiama Paraclito (cfr Gv 14,15-17).
Paraclito è una parola che viene dal greco, che significa nello stesso tempo consolatore e avvocato.
Lo Spirito Santo, cioè, non ci lascia soli mai, sta vicino a noi, come un avvocato che assiste l’imputato stando al suo fianco.
E ci suggerisce come difenderci di fronte a chi ci accusa.
Ricordiamo che il grande accusatore è sempre il diavolo, che ti mette dentro i peccati, la voglia di peccato, la malvagità.
Riflettiamo su questi due aspetti: la sua vicinanza a noi e il suo aiuto contro chi ci accusa.
La sua vicinanza: lo Spirito Santo, dice Gesù, “rimane presso di voi e sta in voi” (cfr v.
17).
Non ci abbandona mai.
Lo Spirito Santo vuole stare con noi: non è un ospite di passaggio che viene a farci una visita di cortesia.
È un compagno di vita, una presenza stabile, è Spirito e desidera dimorare nel nostro spirito.
È paziente e sta con noi anche quando cadiamo.
Rimane perché ci ama davvero: non fa finta di volerci bene per poi lasciarci soli nelle difficoltà.
No, è leale, è trasparente, è autentico.
Anzi, se ci troviamo nella prova, lo Spirito Santo ci consola, portandoci il perdono e la forza di Dio.
E quando ci mette di fronte ai nostri sbagli e ci corregge, lo fa con gentilezza: nella sua voce che parla al cuore ci sono sempre il timbro della tenerezza e il calore dell’amore.
Certo, lo Spirito Paraclito è esigente, perché è un amico vero, fedele, che non nasconde nulla, che ci suggerisce cosa cambiare e come crescere.
Ma quando ci corregge non ci umilia mai e non infonde mai sfiducia; al contrario, ci trasmette la certezza che con Dio ce la possiamo fare, sempre.
Questa è la sua vicinanza.
È una bella certezza!
Secondo aspetto, lo Spirito Paraclito è il nostro avvocato e ci difende.
Ci difende di fronte a chi ci accusa: di fronte a noi stessi, quando non ci vogliamo bene e non ci perdoniamo, fino magari a dirci che siamo dei falliti e dei buoni a nulla; di fronte al mondo, che scarta chi non corrisponde ai suoi schemi e ai suoi modelli; di fronte al diavolo, che è per eccellenza l’“accusatore” e il divisore (cfr Ap 12,10) e fa di tutto per farci sentire incapaci e infelici.
Di fronte a tutti questi pensieri accusatori, lo Spirito Santo ci suggerisce come rispondere.
In che modo? Il Paraclito, dice Gesù, è Colui che “ci ricorda tutto ciò che Gesù ci ha detto” (cfr Gv 14,26).
Egli ci ricorda, dunque, le parole del Vangelo, e così ci permette di rispondere al diavolo accusatore non con parole nostre, ma con le parole stesse del Signore.
Soprattutto ci ricorda che Gesù parlava sempre del Padre che è nei cieli, ce lo ha fatto conoscere e ci ha rivelato il suo amore per noi, che siamo i suoi figli.
Se invochiamo lo Spirito, impariamo ad accogliere e ricordare la realtà più importante della vita, che ci protegge dalle accuse del male.
E qual è questa realtà più importante della vita? Che siamo figli amati di Dio.
Siamo figli amati di Dio: questa è la realtà più importante, e lo Spirito ci ricorda questo.
Fratelli e sorelle, chiediamoci oggi: invochiamo lo Spirito Santo, lo preghiamo spesso? Non dimentichiamoci di Lui che è vicino a noi, anzi dentro di noi! E poi, prestiamo ascolto alla sua voce, sia quando ci incoraggia sia quando ci corregge? Rispondiamo con le parole di Gesù alle accuse del male, ai “tribunali” della vita? Ci ricordiamo che siamo figli amati di Dio? Maria ci renda docili alla voce dello Spirito Santo e sensibili alla sua presenza.
_______________________
Dopo il Regina Caeli
Cari fratelli e sorelle,
in questi giorni abbiamo assistito di nuovo a scontri armati tra israeliani e palestinesi, nei quali hanno perso la vita persone innocenti, anche donne e bambini.
Auspico che la tregua appena raggiunta diventi stabile, che le armi tacciano, perché con le armi non si otterrà mai la sicurezza e la stabilità, ma al contrario si continuerà a distruggere anche ogni speranza di pace.
Saluto di cuore tutti voi, romani e pellegrini d’Italia e di tanti Paesi, in particolare i fedeli provenienti dal Canada, da Singapore, dalla Malesia e dalla Spagna.
Saluto i Responsabili della Comunità di Sant’Egidio di 25 Paesi africani; come pure le Autorità e i docenti dell’Università di Radom in Polonia.
Saluto la Caritas Internationalis, che si è riunita e ha eletto il nuovo presidente.
Avanti, con coraggio, sulla via della riforma!
Saluto i fedeli di Scandicci e quelli di Torrita di Siena; i ragazzi del Decanato di Appiano Gentile, gli Scout Agesci di Alghero e i giovani di Senigallia; l’Istituto scolastico “Giovanni XXIII” di Cammarata; e i partecipanti alla staffetta podistica solidale a sostegno della Fondazione per la Ricerca sul Cancro.
Oggi in tanti Paesi si celebra la Festa della mamma; ricordiamo con gratitudine e affetto tutte le mamme, quelle che ancora sono tra noi e quelle che sono andate in cielo.
Affidiamole a Maria, la mamma di Gesù.
E un forte applauso!
A Lei ci rivolgiamo chiedendo di alleviare le sofferenze della martoriata Ucraina e di tutte le nazioni ferite da guerre e violenze.
A tutti auguro una buona domenica.
E saluto i ragazzi dell’Immacolata, che sono bravi.
Per favore, non dimenticatevi di pregare per me.
Buon pranzo e arrivederci!
Francesco
Chiamato ad esercitare in forza del munus petrino poteri sovrani anche sullo Stato della Città del Vaticano, che il Trattato lateranense ha posto come strumento per assicurare alla Santa Sede l'assoluta e visibile indipendenza e per garantirle la sovranità anche nel campo internazionale, ho ritenuto necessario emanare una nuova Legge Fondamentale per rispondere alle necessità dei nostri giorni.
Predisposta e formulata per dare costitutiva fisionomia allo Stato, ai suoi poteri e all’esercizio delle derivanti funzioni, questa Legge – che succede a quella del 1929 e sostituisce quella del 2000 – assume e completa gli aggiornamenti normativi sin qui emanati e i mutati profili istituzionali resi operativi nello Stato anzitutto, con la riforma della Legge sulle fonti del diritto, della Legge sul Governo dello Stato e della Legge sull'ordinamento giudiziario.
A queste disposizioni è affidato il compito di rendere operative quelle situazioni derivanti dagli impegni internazionali assunti da questa Sede Apostolica anche per lo Stato, con le rinnovate esigenze che tale aspetto specifico richiede.
La presente Legge, fondamento e riferimento di ogni altra normativa e regolazione nello Stato, conferma la singolare peculiarità e l’autonomia dell’ordinamento giuridico vaticano che, distinto da quello della Curia Romana, si caratterizza per riconoscere il diritto canonico quale prima fonte normativa e insostituibile criterio interpretativo.
Si vuole così garantire agli atti e alle attività che, dello Stato sono propri, quella necessaria autonomia richiesta dalle funzioni statali.
A questo compito è preposto il Governatorato dello Stato della Città del Vaticano che con la propria struttura organizzativa concorrealla missione propria dello Stato ed è al servizio del Successore di Pietro, a cui direttamente risponde.
Agli Organi di governo e a quanti, con diverse funzioni di responsabilità e animati da vero spirito ecclesiale, svolgono stabilmente il loro servizio per lo Stato, questo strumento conferisce l'esercizio di ogni potere conseguente sul territorio, definito dal Trattato lateranense, e negli immobili e nelle aree dove operano istituzioni dello Stato o della Santa Sede e sono vigenti, in forza del diritto internazionale, garanzie e immunità personali e funzionali.
Di conseguenza, con la pienezza della sovrana autorità e certa scienza, stabilisco e ordino quanto appresso, da osservarsi come Legge Fondamentale dello Stato:
Titolo I
Disposizioni Generali
Articolo 1
Il Sommo Pontefice, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza della potestà di governo, che comprende il potere legislativo, esecutivo e giudiziario.
Articolo 2
1.
Lo Stato della Città del Vaticano assicura l’assoluta e visibile indipendenza della Santa Sede per l’adempimento della Sua alta missione nel mondo e ne garantisce l’indiscutibile sovranità anche nel campo internazionale.
2.
Lo Stato e il suo ordinamento sono distinti dalla Curia Romana e dalle altre Istituzioni della Santa Sede.
3.
Le funzioni proprie dell’ordinamento statale sono esercitate dal Governatorato dello Stato della Città del Vaticano in conformità alle leggi e alle altre disposizioni normative.
Articolo 3
1.
Durante il periodo di Sede Vacante il Collegio dei Cardinali assicura la continuità delle funzioni dello Stato e ne esercita i poteri.
2.
Il Collegio, tuttavia, può emanare disposizioni legislative solo in caso di necessità e urgenza e con efficacia limitata alla durata della vacanza, salvo che esse siano successivamente confermate dal Sommo Pontefice.
Articolo 4
1.
Lo Stato esercita la sovranità e ogni potere conseguente sul territorio come stabilito dal Trattato lateranense dell’11 febbraio 1929.
2.
I suoi organi esercitano parimenti i poteri a essi attribuiti, oltre che sul territorio dello Stato, anche negli immobili e nelle aree dove operano istituzioni dello Stato o della Santa Sede, in cui vigono le garanzie e le immunità previste dal diritto internazionale.
Articolo 5
Fanno parte della comunità dello Stato i cittadini, i residenti e quanti, ad altro titolo e con diverse funzioni e responsabilità, svolgono stabilmente il loro servizio, con spirito ecclesiale, per lo Stato o per la Santa Sede.
Articolo 6
1.
La rappresentanza dello Stato della Città del Vaticano nei rapporti con gli Stati e con altri soggetti di diritto internazionale, nelle relazioni diplomatiche e per la conclusione dei trattati, sono riservate al Sommo Pontefice che le esercita mediante la Segreteria di Stato.
2.
Negli altri casi la rappresentanza è esercitata dal Presidente del Governatorato.
3.
Il Governatorato partecipa alle Istituzioni internazionali delle quali la Santa Sede è membro in nome e per conto dello Stato.
4.
Il Governatorato, attesa la condizione di enclave dello Stato, mantiene rapporti e sottoscrive, con organismi ed enti esteri, atti necessari per assicurare gli approvvigionamenti, i collegamenti, le dotazioni e i servizi pubblici, avendo a riferimento l’art.
6 del Trattato lateranense.
Titolo II
Articolo 7
La funzione legislativa, salvi i casi che il Sommo Pontefice intenda riservare a Sé stesso, è esercitata dalla Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano.
Articolo 8
1.
La Pontificia Commissione è composta da Cardinali, tra cui il Presidente, e da altri membri, nominati dal Sommo Pontefice per un quinquennio.
2.
In caso di assenza o impedimento del Presidente, la Pontificia Commissione è presieduta dal primo dei Cardinali Membri con maggiore anzianità di nomina e poi di età.
Articolo 9
1.
La Pontificia Commissione esercita i poteri che le sono attribuiti in conformità alle leggi e alle altre disposizioni normative.
2.
Le adunanze della Pontificia Commissione sono convocate e presiedute dal Presidente.
Partecipano, con funzioni consultive, il Segretario Generale e il Vice Segretario Generale del Governatorato.
Possono essere consultati componenti di organismi dello Stato, di Istituzioni della Curia Romana o altri esperti.
3.
La Pontificia Commissione disciplina, con apposito regolamento, il proprio funzionamento.
Articolo 10
1.
La Pontificia Commissione approva le leggi e le altre disposizioni normative.
Per l’elaborazione dei relativi progetti, si avvale della collaborazione dei Consiglieri dello Stato, dell’Ufficio Giuridico del Governatorato o dialtri esperti.
2.
Prima della promulgazione, le leggi approvate dalla Pontificia Commissione sono sottoposte alla diretta considerazione del Sommo Pontefice.
3.
L’interpretazione autentica delle leggi dello Stato è riservata alla Pontificia Commissione.
4.
La Pontificia Commissione emana regolamenti generali nelle materie che non sono riservate alla legge o per la disciplina di materie per quali la legge rinvia a regolamenti fissandone i principi.
Articolo 11
1.
Il Presidente della Pontificia Commissione può emanare ordinanze, decreti e altre disposizioni, in attuazione di norme legislative o regolamentari.
2.
In casi di urgente necessità, il Presidente può emanare decreti aventi forza di legge i quali, tuttavia, perdono efficacia se non sono convertiti in legge dalla Pontificia Commissione entro novanta giorni dalla pubblicazione.
Articolo 12
1.
Il Consigliere Generale e i Consiglieri dello Stato sono nominati dal Sommo Pontefice per un quinquennio e costituiscono un Collegio.
Svolgono, anche individualmente, funzioni consultive nell’elaborazione delle leggi, degli altri atti normativi e funzioni esecutive.
2.
Il Consigliere Generale organizza l’attività e presiede le riunioni del Collegio dei Consiglieri dello Stato.
3.
Al Collegio può essere sottoposta dal Presidente del Governatorato, anche su istanza di un’istituzione della Santa Sede, la richiesta di parere per un dubbio di diritto, tale da non richiedere un’interpretazione autentica.
Tali pareri possono assumere la forma di dichiarazioni o note esplicative.
Articolo 13
1.
La Pontificia Commissione, in conformità alle regole di contabilità, delibera annualmente, con atti aventi forza di legge, il bilancio preventivo e il consuntivo; inoltre delibera il piano finanziario triennale.
Sottopone questi atti direttamente all’approvazione del Sommo Pontefice.
2.
Il bilancio assicura l’equilibrio delle entrate e delle uscite e si ispira ai principi di chiarezza, di trasparenza e di correttezza.
3.
In caso di necessità, il Presidente può disporre con decreto spostamenti di risorse tra i capitoli di bilancio, mantenendo l’equilibrio dei saldi e tenendo conto della sostenibilità nel tempo.
Articolo 14
Il bilancio è sottoposto al controllo e alla verifica contabile di un Collegio, composto da tre membri, nominati per un triennio dalla Pontificia Commissione, alla quale riferisce.
Titolo III
Funzione Esecutiva
Articolo 15
1.
Il Presidente della Pontificia Commissione è il Presidente del Governatorato ed esercita la funzione esecutiva in conformità alle leggi e alle altre disposizioni normative.
2.
Il Presidente si avvale del Governatorato, i cui organi di governo e organismi concorrono all’esercizio della funzione esecutiva dello Stato, che si esercita negli ambiti previsti dall’art.
4.
3.
Le questioni di maggiore importanza sono sottoposte dal Presidente, a seconda del loro rilievo, al Sommo Pontefice o all'esame della Pontificia Commissione.
Articolo 16
1.
Il Segretario Generale coadiuva il Presidente nell’esercizio delle sue funzioni.
2.
In caso di assenza o impedimento sostituisce il Presidente, eccetto per quanto riguarda l’emanazione di disposizioni aventi forza di legge e l’adozione di altri atti normativi.
3.
Il Segretario Generale rappresenta lo Stato quando è previsto da leggi o regolamenti o per delega del Presidente.
Sovraintende all’esecuzione delle leggi e all’adozione di altri atti normativi e attua le decisioni e le direttive del Presidente.
Articolo 17
Il Vice Segretario Generale collabora con il Presidente e il Segretario Generale, svolge le altre funzioni a lui attribuite, sovraintende alla preparazione e alla redazione degli atti e della corrispondenza.
Sostituisce il Segretario Generale in caso di sua assenza o impedimento o per delega dello stesso.
Articolo 18
1.
È competenza propria ed esclusiva dello Stato assicurare le dotazioni, le infrastrutture, i servizi e le forniture, avendo a riferimento l’art.
6 del Trattato lateranense, per le necessità proprie e della Santa Sede.
2.
Il Governatorato provvede alla loro acquisizione, distribuzione ed erogazione alle istituzioni dello Stato e della Santa Sede.
Articolo 19
1.
L’organizzazione e le funzioni del Governatoratosono disciplinate dalla Legge sul Governo e da regolamenti adottati dalla Pontificia Commissione o dal suoPresidente.
2.
Il Governatorato, con la propria struttura amministrativa, provvede, come compito proprio ed esclusivo, che esercita negli ambiti previsti all’art.
4:
a) alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla protezione civile;
b) alla tutela della salute, della sanità, dell’igiene pubblica, dell’ambiente e dell’ecologia;
c) alle attività economiche, ai servizi postali, filatelici e doganali;
d) ad ogni infrastruttura di connettività e di rete, all’attività edilizia, agli impianti tecnici, idraulici, elettrici e alla loro vigilanza e manutenzione;
e) alla conservazione, alla valorizzazione e alla fruizione del complesso artistico dei Musei Vaticani, nonché alla sovraintendenza sui beni dell’intero patrimonio artistico, storico, archeologico ed etnografico;
f) ad ogni altra funzione prevista dalla legge o da altre disposizioni normative.
Articolo 20
Il Presidente del Governatorato, oltre ad avvalersi del Corpo della Gendarmeria, ai fini della sicurezza e della polizia, può richiedere l’assistenza della Guardia Svizzera Pontificia.
Titolo IV
Funzione Giudiziaria
Articolo 21
1.
La funzione giudiziaria è esercitata, in nome del Sommo Pontefice, dagli organi costituiti secondo l’ordinamento giudiziario e dagli altri organi a cui la legge conferisce la competenza per specifiche materie.
2.
Il Sommo Pontefice, in qualunque causa civile o penale e in qualsiasi stato della medesima, può deferirne l’istruttoria e la decisione ad una particolare istanza con esclusione di ogni altro gravame.
3.
Nell’applicare la legge, il giudice si ispira al principio di equità, opera per il ristabilimento della giustizia e favorisce la conciliazione tra le parti.
Nelle cause penali, inoltre, il giudice commina la pena in funzione della riabilitazione del colpevole, del suo reinserimento e del ripristino dell’ordine giuridico violato.
4.
In ogni processo è garantita l’imparzialità del giudice, il diritto di difesa e il contraddittorio tra le parti.
Articolo 22
È riservata al Sommo Pontefice la facoltà di concedere l’amnistia, l’indulto, il condono, la grazia e di commutare le pene.
Titolo V
Disposizioni finali
Articolo 23
1.
La bandiera dello Stato della Città del Vaticano è costituita da due campi divisi verticalmente, uno giallo aderente all’asta e l’altro bianco, e porta in quest'ultimo la tiara con le chiavi, il tutto secondo il modello che forma l’allegato A della presente Legge.
2.
Lo stemma è costituito dalla tiara con le chiavi secondo il modello che forma l’allegato B della presente Legge.
3.
Il sigillo dello Stato porta nel centro la tiara con le chiavi e intorno le parole "Stato della Città del Vaticano" secondo il modello che forma l’allegato C della presente Legge.
Articolo 24
1.
La presente Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano sostituisce integralmente la precedente del 26 novembre 2000.
2.
Parimenti sono abrogate tutte le leggi, le disposizioni, i privilegi e le consuetudini, anche degni di speciale e singolare menzione, in contrasto con la presente Legge.
3.
Essa entra in vigore il 7 giugno 2023.
Comando che l'originale della presente legge, munita del sigillo dello Stato, sia depositata nell’Archivio delle leggi dello Stato della Città del Vaticano e che il testo corrispondente sia pubblicato dapprima nel quotidiano L’Osservatore Romano, quindi nel Supplemento degli Acta Apostolicae Sedis, mandandosi a chiunque spetti di osservarla e farla osservare.
Dal Vaticano, 13 maggio 2023
Festa della Beata Maria Vergine di Fatima
XI del Nostro Pontificato.
FRANCESCO
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Do il benvenuto a voi e a quante seguono la trasmissione da remoto, donne che fate parte della Unión Mundial de Organizaciones Femeninas Católicas, venute da diverse parti del mondo con i vostri familiari, per impregnarsi dello spirito ecclesiale e poter tornare con maggiore entusiasmo ai vostri luoghi di provenienza.
A tutte porgo il mio più cordiale saluto.
Ringrazio per gli interventi che mi hanno preceduto e che hanno presentato il vostro lavoro e le iniziative che state portando avanti.
Grazie.
Con la vostra presenza qui intendete prepararvi a partecipare all’Assemblea Generale che terrete ad Assisi la prossima settimana.
Potrete farlo tutte accompagnando con la preghiera le delegate, affinché si lascino illuminare dallo Spirito e sia un’occasione per rinnovare il vostro impulso missionario, seguendo i principi originari che mossero le fondatrici dell’Unión e, al tempo stesso, per guardare al futuro con gli occhi e il cuore aperti al mondo, per ascoltare il lamento di tante donne nel mondo che subiscono l’ingiustizia, l’abbandono, la discriminazione, la povertà, o un trattamento disumano fin da bambine in alcuni procedimenti.
L’Osservatorio Mondiale delle Donne che avete avviato vi darà indicazioni per individuare i bisogni e poter così essere “samaritane”, compagne di viaggio, che infondono speranza e serenità nei cuori, aiutando e facendo in modo che altri aiutino ad alleviare i tanti bisogni corporali e spirituali dell’umanità.
Oggigiorno c’è urgente bisogno di trovare la pace nel mondo, una pace che comincia, soprattutto, dentro al cuore, un cuore malato, lacerato dalla divisione dell’odio e del rancore.
Oltre alla pace, a essere in pericolo è anche l’identità antropologica della donna poiché viene usata come strumento, come argomento di dispute politiche e di ideologie culturali che ignorano la bellezza con la quale è stata creata.
È necessario valorizzare maggiormente le sue capacità di relazione e di donazione, e che gli uomini comprendano meglio la ricchezza della reciprocità che ricevono dalla donna, per recuperare quegli elementi antropologici che caratterizzano l’identità umana e, con essa, quella della donna e il suo ruolo nella famiglia e nella società, dove non smette di essere un cuore pulsante.
E se vogliamo sapere che cos’è l’umanità senza la donna, che cos’è l’uomo senza la donna, lo abbiamo nella prima pagina della Bibbia: solitudine.
L’uomo senza la donna è solo.
L’umanità senza la donna è sola.
Una cultura senza la donna è sola.
Dove non c’è la donna, c’è solitudine, solitudine arida che genera tristezza e ogni sorta di danno per l’umanità.
Dove non c’è la donna, c’è solitudine.
Oggi, giorno in cui si commemorano le apparizioni della Vergine Maria ai pastorelli di Fátima — e anche oggi sono molto triste, perché nel Paese in cui apparve la Vergine si promulga una legge per uccidere, un ulteriore passo nella lunga lista di Paesi con l’eutanasia — oggi allora, pensando alla Vergine, guardiamo a Maria come modello di donna per eccellenza, che vive in pienezza un dono e un compito: il dono della “maternità” e il compito di “prendersi cura” dei suoi figli nella Chiesa.
Anche voi in quanto donne possedete questo dono e questo compito, in ogni ambito in cui siete presenti, sapendo che senza di voi questi ambiti sono soli.
Non è bene che l’uomo sia solo, per questo la donna.
Maria vi insegna a generare vita e a proteggerla sempre, relazionandovi con gli altri a partire dalla tenerezza e dalla compassione, e coniugando tre linguaggi: quello della mente, quello del cuore e quello delle mani, che devono essere coordinati.
Quello che pensa la testa lo senta il cuore e lo facciano le mani; quello che sente il cuore sia in armonia con ciò che si pensa nella testa e fanno le mani; quello che fanno le mani sia in armonia con ciò che si sente e con ciò che si pensa.
Come ho già detto in altre occasioni, credo che le donne abbiano questa capacità di pensare quello che sentono, di sentire quello che pensano e fanno e di fare quello che sentono e pensano.
Vi incoraggio a continuare a offrire questa sensibilità al servizio degli altri.
Tornando a Fátima, in mezzo al silenzio e alla solitudine dei campi, una donna buona e piena di luce incontrò dei bambini poveri e semplici.
Come in tutte le cose grandi che Dio fa, a caratterizzare la scena sono la povertà e l’umiltà.
In quei pastorelli siamo rappresentati anche noi — tutta l’umanità —, fragili e piccoli, e potremmo addirittura dire un po’ sconcertati e impauriti dinanzi agli eventi che si presentano nella vita e che a volte non riusciamo a capire, poiché quegli eventi ci superano e ci mettono in crisi.
In questo contesto segnato dalla debolezza ci si deve chiedere: che cosa ha reso forte Maria? Che cosa diede forza ai pastorelli per fare quello che Lei chiese loro? Qual è il segreto che trasformò quelle persone fragili e piccole in testimoni autentici della gioia del Vangelo? Care sorelle, il segreto di ogni discepolato e della disponibilità alla missione sta nel coltivare questa unione, un’unione dal di dentro con l’“ospite dolce dell’anima” che ci accompagna sempre: l’amore a Dio e il restare uniti a Lui, come i tralci alla vite (cfr.
Gv 15, 1-11), per vivere — come Maria — la pienezza dell’essere donne con la consapevolezza di sentirsi scelte e protagoniste nell’opera salvifica di Dio.
Ma ciò da solo non basta.
Questa unione interiore con Gesù deve manifestarsi all’esterno, deve manifestarsi rimanendo in comunione con la Chiesa, con la mia famiglia o con la mia organizzazione, che mi aiutano a maturare nella fede.
È questo a dare valore a tutte le iniziative che portiamo avanti.
Bisogna “pregare” le opere e “operare” la preghiera.
In tal modo ci situeremo in sintonia con la missione di tutta la Chiesa.
È anche questa l’essenza della sinodalità, ciò che ci fa sentire protagonisti e corresponsabili del “buon essere” della Chiesa, per saper integrare le differenze e lavorare in armonia ecclesiale.
Vi ringrazio per tutto quello che fate e vi incoraggio ad andare avanti con entusiasmo nei vostri progetti e attività a favore dell’evangelizzazione, seguendo la voce interiore dello Spirito, docili ai tocchi interiori.
Che Gesù vi benedica e la Vergine custodisca voi e le vostre famiglie.
Prego per i frutti della Assemblea, parlate chiaro, discutete, litigate un po’ perché fa bene, vi fa andare avanti.
E vi chiedo, per favore, di continuare ad accompagnarmi con le vostre preghiere.
Grazie.
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L'Osservatore Romano, Anno CLXIII n.
111, sabato 13 maggio 2023, p.
12.
Cari fratelli e sorelle!
“Che scorrano la giustizia e la pace” è quest’anno il tema del Tempo ecumenico del Creato, ispirato dalle parole del profeta Amos: «Come le acque scorra il diritto e la giustizia come un torrente perenne» (5,24).
Questa espressiva immagine di Amos ci dice quello che Dio desidera.
Dio vuole che regni la giustizia, che è essenziale per la nostra vita di figli a immagine di Dio come l’acqua lo è per la nostra sopravvivenza fisica.
Questa giustizia deve emergere laddove è necessaria, non nascondersi troppo in profondità o svanire come acqua che evapora, prima di poterci sostenere.
Dio vuole che ciascuno cerchi di essere giusto in ogni situazione, che si sforzi sempre di vivere secondo le sue leggi e di rendere quindi possibile alla vita di fiorire in pienezza.
Quando cerchiamo prima di tutto il regno di Dio (cfr Mt 6,33), mantenendo una giusta relazione con Dio, l’umanità e la natura, allora la giustizia e la pace possono scorrere, come una corrente inesauribile di acqua pura, nutrendo l’umanità e tutte le creature.
Nel luglio 2022, in una bella giornata estiva, ho meditato su questi argomenti durante il mio pellegrinaggio sulle sponde del Lago Sant’Anna, nella provincia di Alberta, in Canada.
Quel lago è stato ed è un luogo di pellegrinaggio per molte generazioni di indigeni.
Come ho detto in quell’occasione, accompagnato dal suono dei tamburi: «Quanti cuori sono giunti qui desiderosi e ansimanti, gravati dai pesi della vita, e presso queste acque hanno trovato la consolazione e la forza per andare avanti! Anche qui, immersi nel creato, c’è un altro battito che possiamo ascoltare, quello materno della terra.
E così come il battito dei bimbi, fin dal grembo, è in armonia con quello delle madri, così per crescere da esseri umani abbiamo bisogno di cadenzare i ritmi della vita a quelli della creazione che ci dà vita».
In questo Tempo del Creato, soffermiamoci su questi battiti del cuore: il nostro, quello delle nostre madri e delle nostre nonne, il battito del cuore creato e del cuore di Dio.
Oggi essi non sono in armonia, non battono insieme nella giustizia e nella pace.
A troppi viene impedito di abbeverarsi a questo fiume possente.
Ascoltiamo pertanto l’appello a stare a fianco delle vittime dell’ingiustizia ambientale e climatica, e a porre fine a questa insensata guerra al creato.
Vediamo gli effetti di questa guerra in tanti fiumi che si stanno prosciugando.
«I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi», ha affermato una volta Benedetto XVI.
[2] Il consumismo rapace, alimentato da cuori egoisti, sta stravolgendo il ciclo dell’acqua del pianeta.
L’uso sfrenato di combustibili fossili e l’abbattimento delle foreste stanno creando un innalzamento delle temperature e provocando gravi siccità.
Spaventose carenze idriche affliggono sempre più le nostre abitazioni, dalle piccole comunità rurali alle grandi metropoli.
Inoltre, industrie predatorie stanno esaurendo e inquinando le nostre fonti di acqua potabile con pratiche estreme come la fratturazione idraulica per l’estrazione di petrolio e gas, i progetti di mega-estrazione incontrollata e l’allevamento intensivo di animali.
“Sorella acqua”, come la chiama San Francesco, viene saccheggiata e trasformata in «merce soggetta alle leggi del mercato» (Enc.
Laudato si’, 30).
Il Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (IPCC) afferma che un’azione urgente per il clima può garantirci di non perdere l’occasione di creare un mondo più sostenibile e giusto.
Possiamo, dobbiamo evitare che si verifichino le conseguenze peggiori.
«È molto quello che si può fare!» (ibid., 180), se, come tanti ruscelli e torrenti, alla fine insieme confluiamo in un fiume potente per irrigare la vita del nostro meraviglioso pianeta e della nostra famiglia umana per le generazioni a venire.
Uniamo le nostre mani e compiamo passi coraggiosi affinché la giustizia e la pace scorrano in tutta la Terra.
Come possiamo contribuire al fiume potente della giustizia e della pace in questo Tempo del Creato? Cosa possiamo fare noi, soprattutto come Chiese cristiane, per risanare la nostra casa comune in modo che torni a pullulare di vita? Dobbiamo decidere di trasformare i nostri cuori, i nostri stili di vita e le politiche pubbliche che governano le nostre società.
Per prima cosa, contribuiamo a questo fiume potente trasformando i nostri cuori.
È essenziale se si vuole iniziare qualsiasi altra trasformazione.
È la “conversione ecologica” che San Giovanni Paolo II ci ha esortato a compiere: il rinnovamento del nostro rapporto con il creato, affinché non lo consideriamo più come oggetto da sfruttare, ma al contrario lo custodiamo come dono sacro del Creatore.
Rendiamoci conto, poi, che un approccio d’insieme richiede di praticare il rispetto ecologico su quattro vie: verso Dio, verso i nostri simili di oggi e di domani, verso tutta la natura e verso noi stessi.
Quanto alla prima di queste dimensioni, Benedetto XVI ha individuato un’urgente necessità di comprendere che Creazione e Redenzione sono inseparabili: «Il Redentore è il Creatore e se noi non annunciamo Dio in questa sua totale grandezza – di Creatore e di Redentore – togliamo valore anche alla Redenzione».
[3] La creazione si riferisce al misterioso e magnifico atto di Dio di creare questo maestoso e bellissimo pianeta e questo universo dal nulla, e anche al risultato di quell’azione, tuttora in corso, che sperimentiamo come un dono inesauribile.
Durante la liturgia e la preghiera personale nella «grande cattedrale del creato», [4] ricordiamo il Grande Artista che crea tanta bellezza e riflettiamo sul mistero della scelta amorosa di creare il cosmo.
In secondo luogo, contribuiamo al flusso di questo potente fiume trasformando i nostri stili di vita.
Partendo dalla grata ammirazione del Creatore e del creato, pentiamoci dei nostri “peccati ecologici”, come avverte il mio fratello, il Patriarca Ecumenico Bartolomeo.
Questi peccati danneggiano il mondo naturale e anche i nostri fratelli e le nostre sorelle.
Con l’aiuto della grazia di Dio, adottiamo stili di vita con meno sprechi e meno consumi inutili, soprattutto laddove i processi di produzione sono tossici e insostenibili.
Cerchiamo di essere il più possibile attenti alle nostre abitudini e scelte economiche, così che tutti possano stare meglio: i nostri simili, ovunque si trovino, e anche i figli dei nostri figli.
Collaboriamo alla continua creazione di Dio attraverso scelte positive: facendo un uso il più moderato possibile delle risorse, praticando una gioiosa sobrietà, smaltendo e riciclando i rifiuti e ricorrendo ai prodotti e ai servizi sempre più disponibili che sono ecologicamente e socialmente responsabili.
Infine, affinché il potente fiume continui a scorrere, dobbiamo trasformare le politiche pubbliche che governano le nostre società e modellano la vita dei giovani di oggi e di domani.
Politiche economiche che favoriscono per pochi ricchezze scandalose e per molti condizioni di degrado decretano la fine della pace e della giustizia.
È ovvio che le Nazioni più ricche hanno accumulato un “debito ecologico” ( Laudato si’, 51).
[5] I leader mondiali presenti al vertice COP28, in programma a Dubai dal 30 novembre al 12 dicembre di quest’anno, devono ascoltare la scienza e iniziare una transizione rapida ed equa per porre fine all’era dei combustibili fossili.
Secondo gli impegni dell’Accordo di Parigi per frenare il rischio del riscaldamento globale, è un controsenso consentire la continua esplorazione ed espansione delle infrastrutture per i combustibili fossili.
Alziamo la voce per fermare questa ingiustizia verso i poveri e verso i nostri figli, che subiranno gli impatti peggiori del cambiamento climatico.
Faccio appello a tutte le persone di buona volontà affinché agiscano in base a questi orientamenti sulla società e sulla natura.
Un’altra prospettiva parallela è specifica dell’impegno della Chiesa cattolica per la sinodalità.
Quest’anno, la chiusura del Tempo del Creato, il 4 ottobre, festa di San Francesco, coinciderà con l’apertura del Sinodo sulla Sinodalità.
Come i fiumi che sono alimentati da mille minuscoli ruscelli e torrenti più grandi, il processo sinodale iniziato nell’ottobre 2021 invita tutte le componenti, a livello personale e comunitario, a convergere in un fiume maestoso di riflessione e rinnovamento.
Tutto il Popolo di Dio viene accolto in un coinvolgente cammino di dialogo e conversione sinodale.
Allo stesso modo, come un bacino fluviale con i suoi tanti affluenti grandi e piccoli, la Chiesa è una comunione di innumerevoli Chiese locali, comunità religiose e associazioni che si alimentano della stessa acqua.
Ogni sorgente aggiunge il suo contributo unico e insostituibile, finché tutte confluiscono nel vasto oceano dell’amore misericordioso di Dio.
Come un fiume è fonte di vita per l’ambiente che lo circonda, così la nostra Chiesa sinodale dev’essere fonte di vita per la casa comune e per tutti coloro che vi abitano.
E come un fiume dà vita a ogni sorta di specie animale e vegetale, così una Chiesa sinodale deve dare vita seminando giustizia e pace in ogni luogo che raggiunge.
Nel luglio 2022 in Canada, ho ricordato il Mare di Galilea dove Gesù ha guarito e consolato tanta gente, e dove ha proclamato “una rivoluzione d’amore”.
Ho appreso che il Lago Sant’Anna è anche un luogo di guarigione, consolazione e amore, un luogo che «ci ricorda che la fraternità è vera se unisce i distanti, che il messaggio di unità che il Cielo invia in terra non teme le differenze e ci invita alla comunione, alla comunione delle differenze, per ripartire insieme, perché tutti – tutti! – siamo pellegrini in cammino».
In questo Tempo del Creato, come seguaci di Cristo nel nostro comune cammino sinodale, viviamo, lavoriamo e preghiamo perché la nostra casa comune abbondi nuovamente di vita.
Lo Spirito Santo aleggi ancora sulle acque e ci guidi a «rinnovare la faccia della terra» (cfr Sal 104,30).
Roma, San Giovanni in Laterano, 13 maggio 2023
FRANCESCO
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Anna, Canada, 26 luglio 2022.
[2] Omelia in occasione del solenne inizio del ministero petrino , 24 aprile 2005.
[3] Conversazione nella Cattedrale di Bressanone, 6 agosto 2008.
[4] Messaggio per la Giornata Mondiale di Preghiera per la Cura del Creato, 21 luglio 2022.
[5] «C’è infatti un vero “debito ecologico”, soprattutto tra il Nord e il Sud, connesso a squilibri commerciali con conseguenze in ambito ecologico, come pure all’uso sproporzionato delle risorse naturali compiuto storicamente da alcuni Paesi» ( Laudato si’, 51).
Anna, Canada, 26 luglio 2022.
Cari fratelli e sorelle!
Nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia ho sottolineato che «il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa» (n.
31).
Con questo convincimento desidero sostenere il Family Global Compact, un programma condiviso di azioni volto a mettere in dialogo la pastorale familiare con i centri di studio e ricerca sulla famiglia presenti nelle Università cattoliche di tutto il mondo.
Si tratta di un’iniziativa del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita e della Pontificia Accademia per le Scienze Sociali, nata a partire da studi e ricerche sulla rilevanza culturale e antropologica della famiglia e sulle nuove sfide che essa si trova a fronteggiare.
L’obiettivo è la sinergia, è fare in modo che il lavoro pastorale con le famiglie nelle Chiese particolari si avvalga più efficacemente dei risultati della ricerca e dell’impegno didattico e formativo che hanno luogo nelle Università.
Insieme, Università cattoliche e pastorale possono meglio promuovere una cultura della famiglia e della vita che, a partire dalla realtà, aiuti le nuove generazioni – in questo tempo di incertezze e di carestia della speranza – ad apprezzare il matrimonio, la vita familiare con le sue risorse e le sue sfide, la bellezza di generare e custodire la vita umana.
Serve, insomma, «uno sforzo più responsabile e generoso nel presentare [...] le motivazioni per optare in favore del matrimonio e della famiglia, così che le persone siano più disposte a rispondere alla grazia che Dio offre loro» (Amoris laetitia, 35).
Alle Università cattoliche è affidato il compito di sviluppare analisi approfondite di natura teologica, filosofica, giuridica, sociologica ed economica sul matrimonio e la famiglia per sostenerne l’effettiva importanza all’interno dei sistemi di pensiero e di azione contemporanei.
Dagli studi condotti emerge un contesto di crisi delle relazioni familiari, alimentato sia da difficoltà contingenti sia da ostacoli strutturali, il che rende più difficile formare serenamente una famiglia in assenza di adeguati supporti da parte della società.
Anche per questo molti giovani declinano la scelta del matrimonio in favore di forme di relazioni affettive più instabili e informali.
Le indagini, però, mettono pure in luce come la famiglia continui ad essere la fonte prioritaria della vita sociale e mostrano l’esistenza di buone pratiche che meritano condivisione e diffusione a livello globale.
In tal senso, le famiglie stesse potranno e dovranno essere testimoni e protagoniste del percorso.
Il Family Global Compact, in effetti, non vuol essere un programma statico, finalizzato a cristallizzare alcune idee, ma un cammino, articolato in quattro passi:
1.
Attivare un processo di dialogo e di maggiore collaborazione fra i centri universitari di studio e ricerca che si occupano di tematiche familiari, per rendere più feconda la loro attività, in particolare creando o rilanciando le reti degli istituti universitari che si ispirano alla Dottrina sociale della Chiesa.
2.
Creare maggiore sinergia, nei contenuti e negli obiettivi, tra comunità cristiane e Università cattoliche.
3.
Favorire la cultura della famiglia e della vita nella società, affinché scaturiscano proposte e obiettivi utili alle politiche pubbliche.
4.
Armonizzare e sostenere, una volta individuate, le proposte emerse, affinché il servizio alla famiglia sia arricchito e supportato sotto i versanti spirituali, pastorali, culturali, giuridici, politici, economici e sociali.
Nella famiglia si realizzano gran parte dei sogni di Dio sulla comunità umana.
Non possiamo perciò rassegnarci al suo declino in nome dell’incertezza, dell’individualismo e del consumismo, che prospettano un avvenire di singoli che pensano a sé stessi.
Non possiamo essere indifferenti all’avvenire della famiglia, comunità di vita e di amore, alleanza insostituibile e indissolubile tra uomo e donna, luogo di incontro tra le generazioni, speranza della società.
La famiglia, ricordiamolo, ha effetti positivi su tutti, in quanto è generatrice di bene comune: le buone relazioni familiari rappresentano una ricchezza insostituibile non solo per i coniugi e per i figli, ma per l’intera comunità ecclesiale e civile.
Ringrazio quindi quanti hanno aderito e quanti aderiranno al Family Global Compact e invito a dedicarsi con creatività e fiducia a tutto ciò che può aiutare a rimettere la famiglia al cuore del nostro impegno pastorale e sociale.
Roma, San Giovanni in Laterano, 13 maggio 2023
FRANCESCO
Cari giovani,
Vi ringrazio per l’interesse che avete posto in questa visita e l’entusiasmo che dimostrate per il vostro lavoro in campagna, per il bestiame e per il servizio che desiderate prestare alla società.
E come in tanti altri ambiti della vita, l’ecologismo non lo costruiscono principalmente i sagaci resoconti degli esperti, e neppure le notizie e i progetti divulgativi che arrivano alla gente comune attraverso i mezzi di comunicazione sociale.
Possono essere necessari, possono essere vantaggiosi, se sono fatti con coscienza, ma non sono al primo posto.
Voi sapete che l’Argentina è un Paese dedito prevalentemente all’allevamento e, anche se io sono di città, ho avuto l’opportunità di conoscere la realtà dei campi.
Ciò mi ha permesso di rendermi conto che i primi ecologisti di una zona, di un Paese, di un continente, siete voi a essere in ballo, siete voi a esserci dentro, la gente che lavora con gli animali, con le piante, voi che convivete ogni giorno e sapete quali sono i vostri problemi e i vostri successi.
Mi ricordo una volta, nella facoltà di Teologia, che uno degli studenti, nato in città, vissuto in città, e tutto il resto, viene e dice: “sta morendo una mucca”, perché dietro la facoltà avevamo un campo e c’era del bestiame.
“Sta morendo una mucca e non c’è il responsabile”, ed era sabato sul tardi.
Ho preso e sono andato a vedere la mucca, e la povera mucca stava lì, partorendo, e quello che era di città, che aveva mangiato cemento fin da bambino, non aveva la minima idea di come distinguere una mucca morente da una mucca partoriente.
Lì mi sono reso conto che c’è una scienza che si acquisisce solo vivendo e con l’esperienza.
Voi non ripetete uno slogan a memoria, vivete guardando il cielo e, da quando vi svegliate a quando andate a dormire, riconoscete nei cinguettii, nei muggiti o nei nitriti la gioia o la paura, il desiderio o l’appagamento della natura che vi circonda.
Questo è un onore e, chiaramente, una grande responsabilità.
Se ci pensate bene, la vocazione a cui Dio vi ha chiamati vi rende testimoni dell’ecologia integrale di cui il mondo ha oggi bisogno.
Una vocazione primigenia perché è radicata nelle parole di Dio nella Genesi quando invitò l’umanità a collaborare al compito della creazione per mezzo del suo lavoro (cfr.
Gn 1, 28-31).
Una vocazione multidisciplinare coniuga il rapporto diretto con la terra, la sua cura e la sua coltivazione, con il servizio che questa presta alla società.
Che cosa chiede allora Dio a voi, in questo lavoro, in questa attività? Vi chiede di pensare alla campagna come a un dono, come qualcosa che vi è stato dato e che lascerete in eredità ai vostri figli; di pensare alla produzione come a un regalo che il Signore, per mezzo di voi, e per mezzo del vostro lavoro, invia al suo popolo per saziare la sua fame e placare la sua sete.
Una fame che non è solo di pane, ma anche di Dio, il quale, per saziarla, non ha esitato a farsi cibo, a farsi carne, giungendo in questo modo al cuore dell’uomo (cfr.
Mt 4, 3-4; Gv 6, 55-57).
Da questo valore fondamentale, per il quale vi rendo grazie, nasce la responsabilità affidata a voi, in prima persona, ma anche a tutti coloro che, in qualche modo, partecipano alla produzione, alla lavorazione e alla distribuzione alimentare.
È necessario lavorare affinché questo immenso bene che Dio ci dona non si trasformi in un’arma — per esempio, limitando l’arrivo di alimenti alle popolazioni in conflitto —; o non si trasformi in un meccanismo di speculazione, manipolando il prezzo e la commercializzazione dei prodotti al solo fine di ottenere un beneficio più grande.
È questo che dobbiamo denunciare, che deve farci male al cuore; non lo meritano gli animali di cui vi prendete cura con tanta dedizione, non lo meritano le persone per le quali lavorate con entusiasmo, non lo merita Dio.
Offende loro e offenderebbe voi.
Ma non scoraggiatevi, ogni vocazione comporta la croce, uno accetta lo sforzo di lavorare sodo e che con gli animali non ci sono giorni di festa, né ci sono scioperi.
Ancora più difficile è accettare l’incomprensione di quanti non danno valore a una cosa tanto essenziale per la vita qual è la produzione di cibo, o preferiscono cercare colpevoli invece di soluzioni.
Affido alla Santissima Vergine il lavoro che svolgete, affinché sentiate sempre vicino Gesù, che sulla croce offrì il suo sangue, si fece cibo, si fece vita per donarcela in abbondanza.
Andate avanti e siate poeti della terra.
Grazie.
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L'Osservatore Romano, Anno CLXIII n.
111, sabato 13 maggio 2023, p.
11.
Eccellenze,
Vi porgo un caloroso benvenuto e sono lieto di ricevere le Lettere che vi accreditano come Ambasciatori Straordinari e Plenipotenziari dei vostri Paesi presso la Santa Sede: Islanda, Bangladesh, Siria, Gambia e Kazakistan.
Nel trasmettere i miei saluti ai vostri rispettivi Capi di Stato, vi chiedo gentilmente di assicurare loro il mio ricordo nella preghiera per l’adempimento del loro servizio.
Il mio pensiero va in particolare all’amato popolo siriano, che si sta ancora riprendendo dal recente violento terremoto, tra le continue sofferenze causate dal conflitto armato.
Se guardiamo attentamente alla situazione attuale del mondo, anche uno sguardo superficiale potrebbe lasciarci turbati e scoraggiati.
Pensiamo a molti luoghi come il Sudan, la Repubblica Democratica del Congo, il Myanmar, il Libano e Gerusalemme, che stanno affrontando scontri e disordini.
Haiti continua a vivere una grave crisi sociale, economica e umanitaria.
C’è poi, naturalmente, la guerra in corso in Ucraina, che ha portato sofferenza e morte indicibili.
Inoltre, vediamo aumentare il flusso di migrazioni forzate, gli effetti del cambiamento climatico e un gran numero di nostri fratelli e sorelle in tutto il mondo che vivono ancora in povertà a causa della mancanza di accesso all’acqua potabile, al cibo, all’assistenza sanitaria di base, all’istruzione e a un lavoro dignitoso.
C’è, senza dubbio, un crescente squilibrio nel sistema economico globale.
Quando impareremo dalla storia che le vie della violenza, dell’oppressione e dell’ambizione sfrenata di conquistare terre non giovano al bene comune? Quando impareremo che investire nel benessere delle persone è sempre meglio che spendere risorse nella costruzione di armi letali? Quando impareremo che le questioni sociali, economiche e di sicurezza sono tutte collegate una con l’altra? Quando impareremo che siamo un’unica famiglia umana, che può veramente prosperare solo quando tutti i suoi membri sono rispettati, curati e capaci di offrire il proprio contribuito in maniera originale? Finché non arriveremo a questa consapevolezza, continueremo a vivere quella che ho definito una terza guerra mondiale combattuta a pezzi.
Forse questa descrizione sembra disturbare la nostra sensibilità, soprattutto la soddisfazione per gli straordinari progressi tecnologici e scientifici raggiunti o per i passi già compiuti per affrontare le questioni sociali e sviluppare ulteriormente il diritto internazionale.
Sebbene tutti questi risultati siano certamente lodevoli, non dobbiamo mai sentirci appagati o peggio indifferenti riguardo all’attuale situazione del mondo, né mancare di garantire che tutti i nostri fratelli e tutte le nostre sorelle possano beneficiare di queste conquiste e questi sviluppi.
Allo stesso tempo, dobbiamo anche rimanere ottimisti e determinati nel credere che la famiglia umana sia in grado di affrontare con successo le sfide del nostro tempo.
A questo proposito, guardiamo al servizio che voi, cari Ambasciatori, siete chiamati a svolgere.
Come ben sapete, la funzione di Ambasciatore è antica e nobile.
È stata persino inserita nelle Scritture cristiane dall’Apostolo Paolo, quando ha usato questo termine per descrivere gli annunciatori di Gesù Cristo (cfr 2 Cor 5,20).
In effetti, il ruolo positivo dell’Ambasciatore è attestato in ogni epoca e in diversi tipi di situazioni.
Se me lo permettete, vorrei condividere alcune brevi riflessioni su questo.
Come uomo o donna di dialogo, costruttore di ponti, l’Ambasciatore può essere una figura di speranza.
Speranza nella bontà ultima dell’umanità.
Speranza che un terreno comune sia possibile perché siamo tutti parte della famiglia umana.
Speranza che non sia mai detta l’ultima parola per evitare un conflitto o risolverlo pacificamente.
Speranza che la pace non sia un sogno irrealizzabile.
Pur continuando a servire fedelmente il proprio Paese d’origine, l’Ambasciatore cerca di mettere da parte le emozioni superflue e di superare le posizioni radicate per trovare soluzioni accettabili.
E certo non è un compito facile.
La voce della ragione e gli appelli alla pace spesso cadono nel vuoto.
L’attuale situazione mondiale, tuttavia, non fa che sottolineare ulteriormente la necessità che gli Ambasciatori e i loro colleghi siano fautori del dialogo, paladini della speranza.
La Santa Sede apprezza l’importante ruolo che svolgete, come dimostra con il suo impegno diplomatico a livello bilaterale e multilaterale.
Da parte sua, la Santa Sede, in conformità alla propria natura e alla sua particolare missione, si impegna a proteggere l’inviolabile dignità di ogni persona, a promuovere il bene comune e a favorire la fraternità umana tra tutti i popoli.
Questi sforzi, che non comportano il perseguimento di scopi politici, commerciali o militari, sono realizzati attraverso l’esercizio di una neutralità positiva.
Lungi dall’essere una “neutralità etica”, soprattutto di fronte alle sofferenze umane, ciò conferisce alla Santa Sede una posizione ben definita nella comunità internazionale che le permette di meglio contribuire alla risoluzione dei conflitti e di altre questioni.
Alla luce di queste osservazioni, sono fiducioso che vi saranno molte opportunità per voi di collaborare con la Santa Sede su temi di interesse comune.
A questo proposito, posso assicurarvi che la Segreteria di Stato, insieme ai Dicasteri e agli Uffici della Santa Sede, sono più che disposti a impegnarsi con voi in un dialogo aperto e onesto, collaborando per il miglioramento della famiglia umana.
Mentre iniziate questo nuovo servizio, cari Ambasciatori, invoco volentieri su di voi, sulle vostre famiglie, sui vostri collaboratori diplomatici e sul vostro personale abbondanti benedizioni divine.
* * *
Care ambasciatrici, cari ambasciatori, vi chiedo scusa perché io ho letto il discorso pensando che voi avevate la traduzione inglese, purtroppo la segreteria non lo ha preparato, mi assumo io la responsabilità e vi chiedo scusa.
Poi vi arriverà.
Grazie,
Signora Presidente del Consiglio,
distinte Autorità e Rappresentanti della società civile,
cari amici, fratelli, caro amico Gigi,
mi scuso di non parlare in piedi, ma non tollero il dolore quando sono in piedi.
Saluto tutti voi e vi ringrazio per il vostro impegno.
Grazie a Gigi De Palo, Presidente della Fondazione per la Natalità, per le sue parole e per l’invito, perché credo che il tema della natalità sia centrale per tutti, soprattutto per il futuro dell’Italia e dell’Europa.
Vorrei dare soltanto due “fotografie” che sono successe qui in Piazza [San Pietro].
Due settimane fa, il mio segretario era in Piazza e veniva una mamma con la carrozzina.
Lui, un prete tenero, si è avvicinato per benedire il bambino… era un cagnolino! Quindici giorni fa, all’Udienza del mercoledì, io andavo a salutare, e sono arrivato davanti a una signora, cinquantenne più o meno; saluto la signora e lei apre una borsa e dice: “Me lo benedice, il mio bambino”: un cagnolino! Lì non ho avuto pazienza e ho sgridato la signora: “Signora, tanti bambini hanno fame, e lei con il cagnolino!”.
Fratelli e sorelle, queste sono scene del presente, ma se le cose vanno così, questa sarà l’abitudine del futuro, stiamo attenti.
La nascita dei figli, infatti, è l’indicatore principale per misurare la speranza di un popolo.
Se ne nascono pochi vuol dire che c’è poca speranza.
E questo non ha solo ricadute dal punto di vista economico e sociale, ma mina la fiducia nell’avvenire.
Ho saputo che lo scorso anno l’Italia ha toccato il minimo storico di nascite: appena 393 mila nuovi nati.
È un dato che rivela una grande preoccupazione per il domani.
Oggi mettere al mondo dei figli viene percepito come un’impresa a carico delle famiglie.
E questo, purtroppo, condiziona la mentalità delle giovani generazioni, che crescono nell’incertezza, se non nella disillusione e nella paura.
Vivono un clima sociale in cui metter su famiglia si è trasformato in uno sforzo titanico, anziché essere un valore condiviso che tutti riconoscono e sostengono.
Sentirsi soli e costretti a contare esclusivamente sulle proprie forze è pericoloso: vuol dire erodere lentamente il vivere comune e rassegnarsi a esistenze solitarie, in cui ciascuno deve fare da sé.
Con la conseguenza che solo i più ricchi possono permettersi, grazie alle loro risorse, maggiore libertà nello scegliere che forma dare alle proprie vite.
E questo è ingiusto, oltre che umiliante.
Forse mai come in questo tempo, tra guerre, pandemie, spostamenti di massa e crisi climatiche, il futuro pare incerto.
Amici, è incerto; non solo pare, è incerto.
Tutto va veloce e pure le certezze acquisite passano in fretta.
Infatti, la velocità che ci circonda accresce la fragilità che ci portiamo dentro.
E in questo contesto di incertezza e fragilità, le giovani generazioni sperimentano più di tutti una sensazione di precarietà, per cui il domani sembra una montagna impossibile da scalare.
La Signora Presidente del Consiglio ha parlato della “crisi”, parola chiave.
Ma ricordiamo due cose della crisi: dalla crisi non si esce da soli, o usciamo tutti o non usciamo; e dalla crisi non si esce uguali: usciremo migliori o peggiori.
Ricordiamo questo.
Questa è la crisi di oggi.
Difficoltà a trovare un lavoro stabile, difficoltà a mantenerlo, case dal costo proibitivo, affitti alle stelle e salari insufficienti sono problemi reali.
Sono problemi che interpellano la politica, perché è sotto gli occhi di tutti che il mercato libero, senza gli indispensabili correttivi, diventa selvaggio e produce situazioni e disuguaglianze sempre più gravi.
Alcuni anni fa, ricordo un aneddoto di una coda davanti a una compagnia di trasporti, una coda di donne che cercavano lavoro.
Ad una avevano detto che toccava a lei…; presenta i dati… “Va bene, lei lavorerà undici ore al giorno, e lo stipendio sarà di 600 (euro).
Va bene?”.
E lei: “Ma come, ma con 600 euro… 11 ore… non si può vivere…” – “Signora, guardi la coda, e scelga.
Le piace, lo prende; non le piace, fa la fame”.
Questa è un po’ la realtà che si vive.
È una cultura poco amica, se non nemica, della famiglia, centrata com’è sui bisogni del singolo, dove si reclamano continui diritti individuali e non si parla dei diritti della famiglia (cfr Esort.
ap.
Amoris laetitia, 44).
In particolare, vi sono condizionamenti quasi insormontabili per le donne.
Le più danneggiate sono proprio loro, giovani donne spesso costrette al bivio tra carriera e maternità, oppure schiacciate dal peso della cura per le proprie famiglie, soprattutto in presenza di anziani fragili e persone non autonome.
In questo momento le donne sono schiave di questa regola del lavoro selettivo, che impedisce loro pure la maternità.
Certo, esiste la Provvidenza, e milioni di famiglie lo testimoniano con la loro vita e le loro scelte, ma l’eroismo di tanti non può diventare una scusa per tutti.
Occorrono perciò politiche lungimiranti.
Occorre predisporre un terreno fertile per far fiorire una nuova primavera e lasciarci alle spalle questo inverno demografico.
E, visto che il terreno è comune, come comuni sono la società e il futuro, è necessario affrontare il problema insieme, senza steccati ideologici e prese di posizione preconcette.
L’insieme è importante.
È vero che, anche con il vostro aiuto, parecchio è stato fatto e di questo sono grato, ma ancora non basta.
Bisogna cambiare mentalità: la famiglia non è parte del problema, ma è parte della sua soluzione.
E allora mi chiedo: c’è qualcuno che sa guardare avanti con il coraggio di scommettere sulle famiglie, sui bambini, sui giovani? Tante volte sento le lamentele delle mamme: “Eh, mio figlio si è laureato già da tempo… e non si sposa, rimane a casa… cosa devo fare?” – “Non stiri le camicie, signora, incominciamo così, poi vediamo”.
Non possiamo accettare che la nostra società smetta di essere generativa e degeneri nella tristezza.
Quando non c’è generatività viene la tristezza.
È un malessere brutto, grigio.
Non possiamo accettare passivamente che tanti giovani fatichino a concretizzare il loro sogno familiare e siano costretti ad abbassare l’asticella del desiderio, accontentandosi di surrogati privati e mediocri: fare soldi, puntare alla carriera, viaggiare, custodire gelosamente il tempo libero… Tutte cose buone e giuste quando rientrano in un progetto generativo più grande, che dona vita attorno a sé e dopo di sé; se invece rimangono solo aspirazioni individuali, inaridiscono nell’egoismo e portano a quella stanchezza interiore.
Questo è lo stato d’animo di una società non generativa: stanchezza interiore che anestetizza i grandi desideri e caratterizza la nostra società come società della stanchezza! Ridiamo fiato ai desideri di felicità dei giovani! Sì, loro hanno desideri di felicità: ridiamo fiato, apriamo il cammino.
Ognuno di noi sperimenta qual è l’indice della propria felicità: quando ci sentiamo ripieni di qualcosa che genera speranza e riscalda l’animo, e viene spontaneo farne partecipi gli altri.
Al contrario, quando siamo tristi, grigi, ci difendiamo, ci chiudiamo e percepiamo tutto come una minaccia.
Ecco, la natalità, così come l’accoglienza, che non vanno mai contrapposte perché sono due facce della stessa medaglia, ci rivelano quanta felicità c’è nella società.
Una comunità felice sviluppa naturalmente i desideri di generare e di integrare, di accogliere, mentre una società infelice si riduce a una somma di individui che cercano di difendere a tutti i costi quello che hanno.
E tante volte si dimenticano di sorridere.
Amici, dopo aver condiviso queste preoccupazioni che porto nel cuore, vorrei consegnarvi una parola che mi è cara: speranza.
La sfida della natalità è questione di speranza.
Ma attenzione, la speranza non è, come spesso si pensa, ottimismo, non è un vago sentimento positivo sull’avvenire.
“Ah, tu sei un uomo positivo, una donna positiva, bravo!”.
No, la speranza è un’altra cosa.
Non è un’illusione o un’emozione che tu senti, no; è una virtù concreta, un atteggiamento di vita.
E ha a che fare con scelte concrete.
La speranza si nutre dell’impegno per il bene da parte di ciascuno, cresce quando ci sentiamo partecipi e coinvolti nel dare senso alla vita nostra e degli altri.
Alimentare la speranza è dunque un’azione sociale, intellettuale, artistica, politica nel senso più alto della parola; è mettere le proprie capacità e risorse al servizio del bene comune, è seminare futuro.
La speranza genera cambiamento e migliora l’avvenire.
È la più piccola delle virtù – diceva Peguy – è la più piccola, ma è quella che ti porta più avanti! E la speranza non delude.
Oggi ci sono tante Turandot nella vita che dicono: “La speranza che sempre delude”.
La Bibbia ci dice: “La speranza non delude” (cfr Rm 5,5).
Mi piace pensare agli “Stati generali della Natalità” – arrivati alla terza edizione – come a un cantiere di speranza.
Un cantiere dove non si lavora su commissione, perché qualcuno paga, ma dove si lavora tutti insieme proprio perché tutti vogliono sperare.
E allora vi auguro che questa edizione sia l’occasione per “allargare il cantiere”, per creare, a più livelli, una grande alleanza di speranza.
Qui è bello vedere il mondo della politica, delle imprese, delle banche, dello sport, dello spettacolo, del giornalismo riuniti per ragionare su come passare dall’inverno alla primavera demografica.
Su come ricominciare a nascere, non solo fisicamente, ma interiormente, per venire alla luce ogni giorno e illuminare di speranza il domani.
Fratelli e sorelle, non rassegniamoci al grigiore e al pessimismo sterile, al sorriso di compromesso, no.
Non crediamo che la storia sia già segnata, che non si possa fare nulla per invertire la tendenza.
Perché – permettetemi di dirlo nel linguaggio che prediligo, quello della Bibbia – è proprio nei deserti più aridi che Dio apre strade nuove (cfr Is 43,19).
Cerchiamo insieme queste strade nuove in questo deserto arido!
La speranza, infatti, interpella a mettersi in moto per trovare soluzioni che diano forma a una società all’altezza del momento storico che stiamo vivendo, tempo di crisi attraversato da tante ingiustizie.
La guerra è una di queste.
Ridare impulso alla natalità vuol dire riparare le forme di esclusione sociale che stanno colpendo i giovani e il loro futuro.
Ed è un servizio per tutti: i figli non sono beni individuali, sono persone che contribuiscono alla crescita di tutti, apportando ricchezza umana e generazionale.
Apportando creatività anche al cuore dei genitori.
A voi, che siete qui per trovare buone soluzioni, frutto della vostra professionalità e delle vostre competenze, vorrei dire: sentitevi chiamati al grande compito di rigenerare speranza, di avviare processi che diano slancio e vita all’Italia, all’Europa, al mondo, che ci portino tanti bambini.
Grazie.
Cari fratelli e sorelle,
Dinanzi agli orrori e alle devastazioni della Seconda Guerra Mondiale, il Venerabile Pio XII volle mostrare la sollecitudine e la preoccupazione della Chiesa intera per la famiglia umana, per le tante circostanze in cui la vita di uomini, donne, bambini e anziani era minacciata e ostacolata, nel perseguimento di uno sviluppo umano integrale, dall’imperversare dei conflitti bellici.
Mosso da spirito profetico, si pronunciò a favore dell’istituzione di un organismo che sostenesse, coordinasse e incrementasse la collaborazione tra le già numerose organizzazioni caritative attraverso cui la Chiesa universale annunciava e testimoniava, con gesti e parole, l’amore di Dio e la predilezione di Cristo per i poveri, gli ultimi, gli scartati.
San Giovanni Paolo II volle evidenziare lo stretto vincolo che, sin dagli inizi, congiunse Caritas Internationalis ai Pastori della Chiesa e, in particolare, al Successore di Pietro che presiede all’universale carità [1].
Lo fece, anzitutto, richiamando alla sorgente dell’amore per la Chiesa, alla consegna con cui Cristo ha fatto dono di sé ai suoi durante l’Ultima cena.
Non dobbiamo mai dimenticare come all’origine di ogni nostra attività caritativa e sociale si pone Cristo che «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1).
Nel sacramento dell’Eucaristia, segno della presenza viva, reale e permanente di Cristo che offre se stesso per noi, che ama per primo senza chiedere nulla in cambio, «il Signore viene incontro all’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio (cfr Gn 1,27), facendosi suo compagno di viaggio» [2].
L’Eucaristia è per l’uomo.
È cibo e bevanda che ci sostiene nel cammino, rinfranca nella fatica, rialza dalle cadute, chiama ad accogliere liberamente il tutto di Dio per noi e per la nostra salvezza.
Posti di fronte a questo mistero, grande e ineffabile, all’incondizionato e sovrabbondante dono che Cristo ha fatto di sé per amore, rimaniamo meravigliati e, talvolta, sopraffatti.
Come i giudei che si sentirono trafiggere il cuore alle parole di Pietro, nel giorno di Pentecoste, anche noi dobbiamo domandarci: «Che cosa possiamo fare, fratelli?» (At 2,37).
Possiamo entrare nel gioioso ed eccedente mistero della “restituzione”, della memoria grata e riconoscente, che ci fa rendere grazie a Dio nella scelta di volgere lo sguardo al fratello che soffre, che ha bisogno di cure, che necessita del nostro aiuto per ritrovare la sua dignità di figlio, riscattato «non a prezzo di cose corruttibili, […] ma con il sangue prezioso di Cristo» (1Pt 1,18-19).
Possiamo ricambiare l’amore che Dio ha per noi nel diventarne segno e strumento per gli altri.
Non c’è modo migliore per mostrare a Dio di aver compreso il senso dell’Eucaristia che consegnando agli altri quello che noi abbiamo ricevuto.
Ecco un modo di intendere il significato più autentico della Tradizione: quando in risposta all’amore di Cristo, ci facciamo dono per gli altri, noi annunciamo la morte e risurrezione del Signore, finché egli venga (Cf.
1 Cor 11,26).
È importante ritornare alla fonte, l’amore di Dio per noi, perché l’identità di Caritas Internationalis dipende direttamente dalla missione che ha ricevuto.
Ciò che la distingue dalle altre agenzie che operano nell’ambito del sociale è la sua vocazione ecclesiale e, all’interno della Chiesa, ciò che ne specifica il servizio rispetto alle tante istituzioni e associazioni ecclesiali dedite alla carità è il compito di coadiuvare e agevolare i Vescovi nell’esercizio della carità pastorale, in comunione con la Sede Apostolica e in sintonia con il Magistero della Chiesa.
Vi ringrazio per il lavoro che state svolgendo sul partenariato e la cooperazione fraterna, come pilastri dell’identità cattolica di Caritas, e vi esorto ad andare avanti in questo cammino.
Per incoraggiarvi a proseguire nel vostro impegno al servizio della carità, con larghezza di cuore e rinnovata speranza, desidero invitarvi a rileggere con attenzione l’Esortazione post-sinodale Amoris Letitia.
In particolare, il quarto capitolo, sebbene riferito alla vita familiare e matrimoniale, contiene degli spunti che possono tornare utili ad orientare il lavoro che vi attende in futuro e dare nuovo impulso alla vostra missione.
Scrivendo alla comunità dei cristiani di Corinto, San Paolo afferma che la carità è la «via più sublime» (1Cor 12,31) per conoscere Dio e cogliere l’essenziale della vita cristiana.
Nel celebre Inno alla carità, l’Apostolo precisa come la mancanza di carità svuoti di contenuto ogni azione: rimane la forma esteriore, ma non la realtà.
Anche le azioni più straordinarie, la generosità più eroica, persino il distribuire tutti i propri averi per darli agli affamati (1 Cor 13,3), senza la carità non vale nulla.
Senza la confessione di fede in Dio Padre, che è principio di ogni bene; senza l’esperienza dell’amicizia con Cristo, che ha mostrato al mondo il volto dell’amore trinitario; senza la guida dello Spirito, che orienta la storia dell’umanità verso il possesso della vita piena (Gv 10,10), non rimane altro che apparenza.
Non più il bene, ma solo una parvenza di bene.
Sarebbe allora facile perdere di vista lo scopo della diaconia cui siamo chiamati: portare la gioia del Vangelo, l’unità, la giustizia e la pace.
Sarebbe facile assecondare quelle logiche mondane che inducono a smarrirsi nell’attivismo pragmatico e a perdersi nei particolarismi che dilaniano il corpo ecclesiale.
È la carità che ci fa essere.
Quando accogliamo l’amore di Dio e amiamo in Lui, attingiamo alla verità di ciò che siamo, come individui e come Chiesa, e comprendiamo a fondo il senso della nostra esistenza.
Non soltanto capiamo l’importanza della nostra vita, ma anche quanto sia preziosa quella degli altri.
Distinguiamo chiaramente come ogni vita sia irrinunciabile e appaia come un prodigio agli occhi di Dio.
L’amore ci fa aprire gli occhi, allargare lo sguardo, ci permette di riconoscere nell’estraneo che incrociamo sul nostro cammino il volto di un fratello, con un nome, una storia, un dramma a cui non possiamo rimanere indifferenti.
Alla luce dell’amore di Dio, la fisionomia dell’altro emerge dall’ombra, esce dall’insignificanza, e acquista valore, rilevanza.
Le indigenze del prossimo ci interrogano, ci scomodano, ci provocano alla sfida della responsabilità.
Ed è sempre alla luce dell’amore che troviamo la forza e il coraggio di rispondere al male che opprime l’altro, di rispondere in prima persona, mettendoci la faccia, il cuore, rimboccandoci le maniche.
L’amore di Dio ci fa avvertire il peso dell’umanità dell’altrocome «un giogo soave e un carico leggero» (Mt 11,30).
Ci induce a sentire come nostre le ferite che scorgiamo sul suo corpo e ci sollecita a versare l’olio della fraternità sulle piaghe invisibili che leggiamo nella filigrana dell’altrui animo.
Vuoi sapere se un cristiano vive la carità?
Allora guarda se è disposto ad aiutare di buon grado, con il sorriso sulle labbra, senza brontolare e adirarsi.
La carità è paziente, scrive Paolo, e la pazienza è la capacità di sostenere le prove inaspettate, le fatiche quotidiane, senza perdere la gioia e la fiducia in Dio.
Per questo è il risultato di un lento travaglio dello spirito, in cui si impara a dominare se stessi, prendendo coscienza del propri limiti.
È un modo di rapportarsi a se stessi da cui, poi, scaturisce quella maturità relazionale che ci porta a riconoscere «che anche l’altro possiede il diritto a vivere su questa terra insieme a me, così com’è» (AL 92).
Uscire dall’autoreferenzialità, dal considerare ciò che vogliamo per noi come il centro attorno cui far ruotare ogni cosa, a costo di piegare gli altri ai nostri desideri, non soltanto ci chiede di contenere la tirannia dell’egocentrismo, ma domanda anche l’attitudine dinamica e creativa a lasciare emergere le qualità e i carismi degli altri.
In questo senso, vivere la carità significa essere magnanimi, benevoli, riconoscendo ad esempio che per lavorare insieme, in modo costruttivo, bisogna anzitutto “dare spazio” all’altro.
Lo facciamo quando ci apriamo al dialogo e all’ascolto, accettando con flessibilità le opinioni diverse dalle nostre, senza irrigidirci sulle nostre posizioni, ma anzi cercando un punto di incontro, una via di mediazione.
Il cristiano che vive immerso nell’amore di Dio non alimenta l’invidia, perché «nell’amore non c’è posto per il provare dispiacere a causa del bene dell’altro» (AL 95).
Non si vanta e non si gonfia, perché ha il senso della misura, e non gode nel porsi al di sopra del prossimo, ma anzi accosta l’altro con rispetto e con garbo, con gentilezza e tenerezza, tenendo conto delle sue fragilità.
Coltiva in sé l’umiltà, «perché per poter comprendere, scusare e servire gli altri di cuore, è indispensabile guarire l’orgoglio» (AL 98).
Non cerca il proprio interesse, ma si impegna a promuovere il bene dell’altro e a sostenerlo nello sforzo di conseguirlo.
Non tiene conto del male ricevuto, né propaga con il pettegolezzo quello commesso dagli altri, ma con discrezione e nel silenzio affida tutto a Dio, senza dare adito al giudizio.
L’amore tutto copre, dice Paolo, non perché sia nascosta la verità, di cui anzi il cristiano si rallegra sempre, ma perché il peccato sia distinto dal peccatore, in modo che l’uno venga condannato e l’altro sia salvato.
L’amore tutto scusa, perché tutti possiamo trovare conforto nell’abbraccio misericordioso del Padre ed essere ammantati dal suo perdono.
Paolo conclude il suo “elogio alla carità” affermando che quest’ultima, in quanto via eccellente per giungere a Dio, è più grande della fede e della speranza.
Quanto dice l’Apostolo è estremamente vero.
Mentre la fede e la speranza sono “doni provvisori”, cioè legati alla nostra condizione viatica, di pellegrini su questa terra, la carità invece è un “dono definitivo”, un pegno e un’anticipazione del tempo ultimo, del Regno di Dio.
Ecco perché tutto il resto passerà, ma la carità non avrà mai fine.
Il bene che si opera in nome di Dio è la parte buona di noi che non verrà cancellata, che non andrà perduta.
Il giudizio di Dio sulla storia si compie sull’oggi dell’amore, sul discernimento di ciò che abbiamo fatto per gli altri in suo nome.
Come promette Gesù, sarà il guadagno della vita eterna: «Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo» (Mt 25,34).
Caritas Internationalis è stata pensata e voluta per dare espressione alla comunione ecclesiale, l’agape intra-ecclesiale, per esserne un mezzo e una manifestazione, mediando tra la Chiesa universale e le Chiese particolari, sostenendo l’impegno di tutto il Popolo di Dio nell’esercizio della carità.
Il vostro compito è, anzitutto, quello di cooperare nella semina della Chiesa universale, annunciando il Vangelo con le opere buone.
Non si tratta soltanto di dare avvio a progetti e strategie che si rivelino vincenti, che perseguano l’efficacia, ma di pensarsi in un costante e continuo processo di conversione missionaria.
Significa mostrare che il Vangelo è «risposta alle attese più profonde della persona umana: alla sua dignità e alla realizzazione piena nella reciprocità, nella comunione e nella fecondità» (AL 201).
Per questo, non è secondario ricordare l’intimo legame tra il cammino di santità personale e la conversione missionaria ecclesiale: chi lavora per la Caritas è chiamato a rendere testimonianza di tale amore di fronte al mondo.
Siate discepoli missionari, ponetevi alla sequela di Cristo!
In secondo luogo, siete chiamati ad accompagnare le chiese locali nel loro impegno fattivo alla carità pastorale.
Abbiate cura di formare persone competenti, in grado di portare il messaggio della Chiesa nella vita politica e sociale.
La sfida di un laicato consapevole e maturo è più che mai attuale, perché la loro presenza si estende in tutti quegli ambiti che toccano direttamente la vita dei poveri.
Sono loro che possono esprimere, con libertà creativa, il cuore materno e la sollecitudine della Chiesa per la giustizia sociale, compromettendosi nell’arduo compito di cambiare le strutture sociali ingiuste e promuovere la felicità della persona umana.
Infine, vi raccomando l’unità.
La vostra confederazione è fatta di tante identità: vivete la diversità come ricchezza, la pluralità come una risorsa.
Gareggiate nello stimarvi a vicenda, lasciando che i conflitti portino al confronto, alla crescita, e non alla divisione.
Invoco l’intercessione di Maria, Madre della Chiesa, e mentre vi chiedo di pregare per me, volentieri imploro la benedizione del Signore su di voi e su quanti vi sostengono nella vostra opera.
_______________________________________________
[1] Cf.
Giovanni Paolo II, Chirografo Durante l’Ultima Cena, 16 settembre 2004, 2.
[2] Benedetto XVI, Esortazione Apostolica post-sinodale Sacramentum caritatis, 2.
Liberi di scegliere se migrare o restare
Cari fratelli e sorelle!
I flussi migratori dei nostri giorni sono espressione di un fenomeno complesso e articolato, la cui comprensione esige l’analisi attenta di tutti gli aspetti che caratterizzano le diverse tappe dell’esperienza migratoria, dalla partenza all’arrivo, incluso un eventuale ritorno.
Con l’intenzione di contribuire a tale sforzo di lettura della realtà, ho deciso di dedicare il Messaggio per la 109a Giornata Mondiale del Migrante e Rifugiato alla libertà che dovrebbe sempre contraddistinguere la scelta di lasciare la propria terra.
“Liberi di partire, liberi di restare”, recitava il titolo di un’iniziativa di solidarietà promossa qualche anno fa dalla Conferenza Episcopale Italiana come risposta concreta alle sfide delle migrazioni contemporanee.
E dal mio ascolto costante delle Chiese particolari ho potuto comprovare che la garanzia di tale libertà costituisce una preoccupazione pastorale diffusa e condivisa.
«Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo”» (Mt 2,13).
La fuga della Santa Famiglia in Egitto non è frutto di una scelta libera, come del resto non lo furono molte delle migrazioni che hanno segnato la storia del popolo d’Israele.
Migrare dovrebbe essere sempre una scelta libera, ma di fatto in moltissimi casi, anche oggi, non lo è.
Conflitti, disastri naturali, o più semplicemente l’impossibilità di vivere una vita degna e prospera nella propria terra di origine costringono milioni di persone a partire.
Già nel 2003 San Giovanni Paolo II affermava che «costruire condizioni concrete di pace, per quanto concerne i migranti e i rifugiati, significa impegnarsi seriamente a salvaguardare anzitutto il diritto a non emigrare, a vivere cioè in pace e dignità nella propria Patria» (Messaggio per la 90a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, 3).
«Presero il loro bestiame e tutti i beni che avevano acquistato nella terra di Canaan e vennero in Egitto, Giacobbe e con lui tutti i suoi discendenti» (Gen 46,6).
È a causa di una grave carestia che Giacobbe con tutta la sua famiglia fu costretto a rifugiarsi in Egitto, dove suo figlio Giuseppe aveva assicurato loro la sopravvivenza.
Persecuzioni, guerre, fenomeni atmosferici e miseria sono tra le cause più visibili delle migrazioni forzate contemporanee.
I migranti scappano per povertà, per paura, per disperazione.
Al fine di eliminare queste cause e porre così termine alle migrazioni forzate è necessario l’impegno comune di tutti, ciascuno secondo le proprie responsabilità.
Un impegno che comincia col chiederci che cosa possiamo fare, ma anche cosa dobbiamo smettere di fare.
Dobbiamo prodigarci per fermare la corsa agli armamenti, il colonialismo economico, la razzia delle risorse altrui, la devastazione della nostra casa comune.
«Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (At 2,44-45).
L’ideale della prima comunità cristiana pare così distante dalla realtà odierna! Per fare della migrazione una scelta davvero libera, bisogna sforzarsi di garantire a tutti un’equa partecipazione al bene comune, il rispetto dei diritti fondamentali e l’accesso allo sviluppo umano integrale.
Solo così si potrà offrire ad ognuno la possibilità di vivere dignitosamente e realizzarsi personalmente e come famiglia.
È chiaro che il compito principale spetta ai Paesi di origine e ai loro governanti, chiamati ad esercitare la buona politica, trasparente, onesta, lungimirante e al servizio di tutti, specialmente dei più vulnerabili.
Essi però devono essere messi in condizione di fare questo, senza trovarsi depredati delle proprie risorse naturali e umane e senza ingerenze esterne tese a favorire gli interessi di pochi.
E lì dove le circostanze permettano di scegliere se migrare o restare, si dovrà comunque garantire che tale scelta sia informata e ponderata, onde evitare che tanti uomini, donne e bambini cadano vittime di rischiose illusioni o di trafficanti senza scrupoli.
«In quest’anno del giubileo ciascuno tornerà nella sua proprietà» (Lv 25,13).
La celebrazione del giubileo per il popolo d’Israele rappresentava un atto di giustizia collettivo: tutti potevano «tornare nella situazione originaria, con la cancellazione di ogni debito, la restituzione della terra, e la possibilità di godere di nuovo della libertà propria dei membri del popolo di Dio» (Catechesi, 10 febbraio 2016).
Mentre ci avviciniamo al Giubileo del 2025, è bene ricordare questo aspetto delle celebrazioni giubilari.
È necessario uno sforzo congiunto dei singoli Paesi e della Comunità internazionale per assicurare a tutti il diritto a non dover emigrare, ossia la possibilità di vivere in pace e con dignità nella propria terra.
Si tratta di un diritto non ancora codificato, ma di fondamentale importanza, la cui garanzia è da comprendersi come corresponsabilità di tutti gli Stati nei confronti di un bene comune che va oltre i confini nazionali.
Infatti, poiché le risorse mondiali non sono illimitate, lo sviluppo dei Paesi economicamente più poveri dipende dalla capacità di condivisione che si riesce a generare tra tutti i Paesi.
Fino a quando questo diritto non sarà garantito – e si tratta di un cammino lungo – saranno ancora in molti a dover partire per cercare una vita migliore.
«Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,35-36).
Queste parole suonano come monito costante a riconoscere nel migrante non solo un fratello o una sorella in difficoltà, ma Cristo stesso che bussa alla nostra porta.
Perciò, mentre lavoriamo perché ogni migrazione possa essere frutto di una scelta libera, siamo chiamati ad avere il massimo rispetto della dignità di ogni migrante; e ciò significa accompagnare e governare nel miglior modo possibile i flussi, costruendo ponti e non muri, ampliando i canali per una migrazione sicura e regolare.
Ovunque decidiamo di costruire il nostro futuro, nel Paese dove siamo nati o altrove, l’importante è che lì ci sia sempre una comunità pronta ad accogliere, proteggere, promuovere e integrare tutti, senza distinzione e senza lasciare fuori nessuno.
Il percorso sinodale che, come Chiesa, abbiamo intrapreso, ci porta a vedere nelle persone più vulnerabili – e tra questi molti migranti e rifugiati – dei compagni di viaggio speciali, da amare e curare come fratelli e sorelle.
Solo camminando insieme potremo andare lontano e raggiungere la meta comune del nostro viaggio.
Roma, San Giovanni in Laterano, 11 maggio 2023
FRANCESCO
Preghiera
Dio, Padre onnipotente,
donaci la grazia di impegnarci operosamente
a favore della giustizia, della solidarietà e della pace,
affinché a tutti i tuoi figli sia assicurata
la libertà di scegliere se migrare o restare.
Donaci il coraggio di denunciare
tutti gli orrori del nostro mondo,
di lottare contro ogni ingiustizia
che deturpa la bellezza delle tue creature
e l’armonia della nostra casa comune.
Sostienici con la forza del tuo Spirito,
perché possiamo manifestare la tua tenerezza
ad ogni migrante che poni sul nostro cammino
e diffondere nei cuori e in ogni ambiente
la cultura dell’incontro e della cura.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Sono contento di accogliervi nel vostro 50° anniversario di fondazione.
Da mezzo secolo vi dedicate a promuovere la missione ad gentes in Italia, facendovi voce di migliaia di missionari e missionarie che, votandosi all’annuncio di Cristo, in realtà parlano a tutti di una dimensione della vita cristiana, quella missionaria, propria di ogni battezzato in virtù del Battesimo.
Il Concilio Vaticano II lo dice chiaramente: «Tutta la Chiesa è missionaria, e l’opera evangelizzatrice è un dovere fondamentale del Popolo di Dio» (Ad gentes, 35).
Per questo nell’Esortazione Apostolica Evangelii gaudium invitavo i cristiani a costituirsi «in tutte le regioni della terra in un “stato permanente di missione”» (n.
25).
L’annuncio per la Chiesa non è un optional o un aspetto marginale, ma una dimensione vitale, in quanto essa è nata apostolica e missionaria, plasmata dallo Spirito Santo come comunità “in uscita” (cfr Catechesi, 15 marzo 2023).
La missione è ossigeno per la vita cristiana, che senza di essa si ammala e inaridisce (cfr ibid.) e diventa brutta, brutta.
È proprio in quest’ottica che voi operate, attraverso la condivisione di esperienze, l’animazione missionaria delle comunità locali, la sensibilizzazione dei giovani nei seminari, l’animazione vocazionale, il contributo alla stesura di documenti missionari a vari livelli, la sinergia con altre realtà ecclesiali come Caritas, Missio e Migrantes per la promozione dell’accoglienza tra popoli e culture e per la dignità della persona in ogni parte del mondo.
Vi incoraggio ad andare avanti con coraggio, perché la forza dello Spirito trovi sempre nella Chiesa e nel mondo menti e cuori desiderosi di seminare la Parola e di portare a tutti la gioia del Risorto, abbattendo le barriere e favorendo la costruzione di una società fondata sui principi evangelici della carità, della giustizia e della pace.
Proprio negli anni della vostra fondazione, San Paolo VI, parlando della missione, ne richiamava alcune dimensioni fondamentali: la testimonianza della vita, la predicazione della Parola, la catechesi e la celebrazione dei Sacramenti (cfr Evangelii nuntiandi, 40-48).
Fondata su questi pilastri e animata dallo Spirito Santo, la prima comunità cristiana ne traeva ispirazione e vigore per l’annuncio del Vangelo (cfr At 2,42-47).
Sia questo anche il vostro stile.
Non si tratta di fare proselitismo, questo non è cristiano, no, lo stile è questo: annunciare Cristo anzitutto con la testimonianza della vita.
Per questo vi raccomando di coltivare la carità prima di tutto nelle e tra le vostre comunità, dentro e tra i vostri Istituti, armonizzando le differenze di cultura, di età, di mentalità, perché nella comunione ciascun carisma sia al servizio di tutti (cfr 1 Cor 12,4-7; Catechesi, 1 ottobre 2014).
E abbiate a cuore l’accoglienza dei poveri e dei piccoli, tra voi e verso le persone che servite nel vostro ministero, in spirito di inclusione e di servizio.
Sia questo il vostro primo gioioso annuncio pasquale.
A tale scopo, come i primi discepoli, non tralasciate di nutrire la vostra vita e il vostro apostolato con la Parola di Dio, l’Eucaristia e la preghiera.
La missione infatti, come la comunione, è prima di tutto un mistero di Grazia.
Non è opera nostra, ma di Dio; non la facciamo da soli, ma mossi dallo Spirito e docili alla sua azione.
Missione e comunione scaturiscono dalla preghiera, sono modellate giorno per giorno dall’ascolto della Parola di Dio – ascolto fatto nella preghiera – e hanno come fine ultimo la salvezza dei fratelli e delle sorelle che il Signore ci affida.
Senza questi fondamenti si svuotano e finiscono col ridursi a una mera dimensione sociologica o assistenziale.
E alla Chiesa non interessa fare assistenzialismo… Aiutare sì, ma prima di tutto evangelizzare, dare testimonianza: se fai assistenza, che venga dalla testimonianza, non da metodi di tipo proselitistico.
Perciò, non solo la vostra vita e il vostro lavoro missionario, ma anche la programmazione, gli incontri e le decisioni siano sempre scanditi dall’ascolto della Parola, dalla celebrazione eucaristica e dalla preghiera.
Insieme e singolarmente affidate tutto a Dio, purificando i vostri cuori e le istituzioni in cui operate da tutto ciò che può frenare l’azione libera e creativa dello Spirito.
Vorrei concludere richiamando un altro passo di Evangelii gaudium, dove si ricorda che la missione non è un affare o un progetto aziendale, né un’organizzazione umanitaria o fare proselitismo.
Essa è «qualcosa di molto più profondo, che sfugge ad ogni misura» (cfr n.
279).
Questo è un invito a spendersi con impegno, con creatività e generosità, ma senza scoraggiarsi se i risultati non corrispondono alle aspettative; a dare il meglio di sé, senza risparmiarsi, ma poi affidare tutto con fiducia alle mani del Padre; a mettercela tutta, ma lasciando che sia Lui a rendere fecondi i nostri sforzi come vuole (cfr ibid.).
Questo, carissimi, vi auguro per il vostro lavoro.
Grazie per il vostro servizio alla missione e alla comunione.
La Madonna vi accompagni.
Vi benedico di cuore e per favore vi chiedo di pregare per me.
Mai la guerra ha dato sollievo alla vita degli esseri umani, mai ha saputo guidare il loro cammino nella storia, né è riuscita a risolvere conflitti e contrapposizioni emersi nel loro agire.
Gli effetti della guerra sono le vittime, le distruzioni, la perdita di umanità, l’intolleranza, fino alla negazione della possibilità di guardare al domani con rinnovata fiducia.
La pace invece, quale concreto obiettivo, resta nell’animo e nelle aspirazioni dell’intera famiglia umana, di ogni popolo e di ogni persona.
È questo l’insegnamento che ancora oggi possiamo trarre dal messaggio che San Giovanni XXIII ha voluto lanciare al mondo con l’enciclica Pacem in Terris.
Un messaggio positivo e costruttivo che ricorda come edificare la pace significhi, anzitutto, l’impegno a strutturare una politica ispirata a valori autenticamente umani che l’Enciclica riassume nella verità, nella giustizia, nell’amore e nella libertà.
Eppure, trascorsi sessant’anni, l’umanità non sembra aver fatto tesoro di quanto la pace sia necessaria, di quanto bene essa è portatrice.
Uno sguardo al nostro quotidiano, infatti, mostra come l’egoismo di pochi e gli interessi sempre più limitati di alcuni inducono a pensare di poter trovare nelle armi la soluzione a tanti problemi o a nuove esigenze, come pure a quei conflitti che emergono nella realtà della vita delle Nazioni.
Se le regole dei rapporti internazionali hanno limitato l’uso della forza e il superamento del sottosviluppo che è uno degli obiettivi dell’azione internazionale, il desiderio di potenza è ancora, purtroppo, criterio di giudizio ed elemento di attività nei rapporti tra gli Stati.
E questo si manifesta nelle diverse regioni con effetti devastanti sulle persone e sui loro affetti, senza risparmiare le infrastrutture e l’ambiente naturale.
In questo momento, l’aumento di risorse economiche per gli armamenti è ritornato ad essere strumento delle relazioni tra gli Stati, mostrando che la pace è possibile e realizzabile solo se fondata su un equilibrio del loro possesso.
Tutto questo genera paura e terrore e rischia di travolgere la sicurezza poiché dimentica come “un fatto imprevedibile e incontrollabile possa far scoccare la scintilla che mette in moto l’apparato bellico” (Pacem in Terris, 60).
Si rende necessaria una profonda riforma delle strutture multilaterali che gli Stati hanno creato per gestire la sicurezza e garantire la pace, ma che sono ormai prive della libertà e della possibilità di azione.
Non basta che esse proclamino la pace se non sono dotate della capacità autonoma di promuovere e attuare azioni concrete, poiché rischiano di non essere a servizio del bene comune, ma solo strumenti di parte.
Come ben spiega l’Enciclica, agli Stati, chiamati per loro natura al servizio delle rispettive comunità, spetta di operare seguendo il metodo della libertà e a rispondere alle esigenze della giustizia, sapendo però che “il problema dell’adeguazione della realtà sociale alle esigenze obiettive della giustizia è problema che non ammette mai una soluzione definitiva” (Pacem in Terris, 81).
Queste brevi annotazioni vogliono contribuire all’obiettivo di approfondimento dell’Enciclica che la Pontificia Università Lateranense e il Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale hanno promosso.
Affido all’Università il compito di approfondire il metodo di educazione alla pace, per una formazione non solo adeguata, ma ininterrotta.
Una vera formazione scientifica, infatti, è frutto di studio e ricerca, di approfondimento, di aggiornamenti e di esercizi pratici: questa deve essere la strada da percorrere per aprire nuovi orizzonti e superare forme didattiche e organizzative ormai superate e non più adeguate alla nostra era.
Sono certo che il Ciclo di studi in Scienze delle Pace da me istituito alla Lateranense, contribuirà a formare le giovani generazioni a questi obiettivi, per favorire quella cultura dell’incontro che è la base di una comunità umana modellata secondo la fraternità, che è poi norma dell’agire per edificare la pace.
Dal Vaticano, 11 maggio 2023
FRANCESCO
Santità! Cari fratelli in Cristo!
«Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo in esso!».
È con questa acclamazione pasquale che, cinquant’anni fa, Papa San Paolo VI accolse nella Basilica di San Pietro il Suo venerato predecessore, Papa Shenouda III.
È con la stessa acclamazione che La accolgo oggi, amato fratello e caro amico Tawadros.
La ringrazio di cuore per aver accettato il mio invito a commemorare insieme il giubileo di questo storico evento del 1973, come pure il decimo anniversario del nostro primo incontro nel 2013.
Nel cammino ecumenico, è importante guardare sempre avanti.
Coltivando nel cuore una sana impazienza e un ardente desiderio di unità, dobbiamo essere, come l’Apostolo Paolo, “protesi verso il futuro” (cfr Fil 3,13) e chiederci continuamente: “Quanta est nobis via?” – Quanta strada ci resta da fare? Tuttavia occorre anche fare memoria, soprattutto nei momenti di scoraggiamento, per rallegrarci del cammino già percorso e attingere al fervore dei pionieri che ci hanno preceduto.
Guardare avanti e fare memoria.
Eppure, è senza dubbio ancora più doveroso guardare in alto, per ringraziare il Signore per i passi compiuti e supplicarlo di farci il dono della sospirata unità.
Ringraziare e supplicare.
Questo è lo scopo della nostra odierna commemorazione.
L’incontro dei nostri Predecessori, avvenuto a Roma dal 9 al 13 maggio 1973, ha segnato una tappa storica nei rapporti tra la Sede di San Pietro e la Sede di San Marco.
Fu il primo incontro tra un Papa della Chiesa copta ortodossa e un Vescovo di Roma.
Segnò anche la fine di una controversia teologica risalente al Concilio di Calcedonia, grazie alla firma, il 10 maggio ‘73, di una memorabile dichiarazione cristologica comune, che è servita in seguito da ispirazione per simili accordi con altre Chiese ortodosse orientali.
L’incontro ha portato alla creazione della Commissione mista internazionale tra la Chiesa cattolica e la Chiesa copta ortodossa, che nel 1979 ha adottato i pionieristici Principi per guidare la ricerca dell’unità tra la Chiesa cattolica e la Chiesa copta ortodossa, firmati da Papa San Giovanni Paolo II e da Papa Shenouda III, nei quali si affermava, con parole profetiche, che «l’unità che immaginiamo non significa l’assorbimento dell’uno da parte dell’altro o il dominio dell’uno sull’altro.
È al servizio di ciascuno per aiutarlo a vivere meglio i doni specifici che ha ricevuto dallo Spirito di Dio».
Questa Commissione mista ha poi aperto la strada alla nascita di un fecondo dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e l’intera famiglia delle Chiese ortodosse orientali, che ha tenuto il suo primo incontro nel 2004 al Cairo, ospitato da Sua Santità Shenouda.
Ringrazio la Chiesa copta ortodossa per il suo impegno in questo dialogo teologico.
Sono anche grato a Vostra Santità per la fraterna attenzione che continua a riservare alla Chiesa copta cattolica, vicinanza che ha trovato lodevole espressione nella creazione del Consiglio Nazionale delle Chiese Cristiane in Egitto.
Come si vede, l’incontro dei nostri illustri Predecessori non ha mai smesso di portare frutti nel cammino delle nostre Chiese verso la piena comunione.
È anche in ricordo dell’incontro del 1973 che Vostra Santità mi venne incontro qui per la prima volta il 10 maggio 2013, pochi mesi dopo la Sua intronizzazione e poche settimane dopo l’inizio del mio pontificato.
In tale occasione Ella propose di celebrare ogni 10 maggio la “Giornata dell’amicizia tra copti e cattolici”, che da allora viene celebrata puntualmente dalle nostre Chiese.
Quando si parla di amicizia mi viene in mente la famosa icona copta dell’VIII secolo raffigurante il Signore che appoggia la mano sulla spalla del suo amico, il santo monaco Mena d’Egitto.
Questa icona è talvolta chiamata “icona dell’amicizia”, perché il Signore sembra voler accompagnare il suo amico e camminare con lui.
Similmente, i vincoli di amicizia tra le nostre Chiese sono radicati nell’amicizia di Gesù Cristo stesso con tutti i suoi discepoli che Egli stesso chiama “amici” (cfr Gv 15,15), e che accompagna sul loro cammino, come fece con i pellegrini di Emmaus.
In questo cammino di amicizia siamo anche accompagnati dai martiri, che testimoniano che «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Non ho parole per esprimere la mia gratitudine per il dono prezioso di una reliquia dei martiri copti uccisi in Libia il 15 febbraio 2015.
Questi martiri sono stati battezzati non solo nell’acqua e nello Spirito, ma anche nel sangue, un sangue che è seme di unità per tutti i seguaci di Cristo.
Sono lieto di annunciare oggi che, con il consenso di Vostra Santità, questi 21 martiri saranno inseriti nel Martirologio Romano come segno della comunione spirituale che unisce le nostre due Chiese.
Possa la preghiera dei martiri copti, unita a quella della Theotokos, continuare a far crescere nell’amicizia le nostre Chiese, fino al giorno benedetto in cui potremo celebrare insieme allo stesso altare e comunicare allo stesso Corpo e Sangue del Salvatore, «affinché il mondo creda» (Gv 17,21)!
Fratelli e sorelle!
È con grande gioia che saluto oggi Sua Santità Tawadros II, Papa di Alessandria e Patriarca della Sede di San Marco, e l’illustre delegazione che l’accompagna.
Sua Santità Tawadros ha accettato il mio invito a venire a Roma per celebrare con me il cinquantesimo anniversario dello storico incontro di Papa San Paolo VI e Papa Shenouda III, nel 1973.
Si trattava del primo incontro tra un Vescovo di Roma e un Patriarca della Chiesa copta ortodossa, che culminò con la firma di una memorabile dichiarazione cristologica comune, esattamente il 10 maggio.
In memoria di questo evento, Sua Santità Tawadros è venuto a trovarmi per la prima volta il 10 maggio di dieci anni fa, pochi mesi dopo la sua e la mia elezione, e ha proposto di celebrare ogni 10 maggio la “Giornata dell’amicizia copto-cattolica” che da quel tempo celebriamo ogni anno.
Ci chiamiamo al telefono, ci mandiamo i saluti, e rimaniamo buoni fratelli, non abbiamo litigato!
Caro amico e fratello Tawadros, La ringrazio di aver accettato il mio invito in questo duplice anniversario, e prego che la luce dello Spirito Santo illumini la Sua visita a Roma, gli importanti incontri che avrà qui, e in particolare le nostre conversazioni personali.
La ringrazio di cuore per il Suo impegno nella crescente amicizia tra la Chiesa copta ortodossa e la Chiesa cattolica.
Santità, cari Vescovi e amici tutti, insieme a voi imploro Dio Onnipotente, per l’intercessione dei Santi e Martiri della Chiesa copta, affinché ci aiuti a crescere nella comunione, in un unico e santo legame di fede, di speranza e di amore cristiano.
E parlando di martiri della Chiesa copta, che sono anche nostri, voglio ricordare i martiri sulla spiaggia libica, che sono stati fatti martiri pochi anni fa.
Chiedo a tutti i presenti di pregare Dio affinché benedica la visita a Roma di Papa Tawadros e protegga l’intera Chiesa ortodossa copta.
Possa questa visita avvicinarci più celermente al giorno benedetto quando saremo una sola cosa in Cristo! Grazie.
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Saluti
Je salue cordialement les personnes de langue française, particulièrement les pèlerins venus du diocèse de Gap-Embrun, les jeunes des collèges de France et le groupe de l’université catholique de Yaoundé.
Dans notre mission quotidienne de baptisés, que l’amour du Christ nous pousse à aller dans les périphéries de nos sociétés à la rencontre de nos frères et sœurs rejetés et abandonnés, afin de leur manifester la tendresse du Seigneur.
Que Dieu vous bénisse !
[Saluto cordialmente le persone di lingua francese, in particolare i pellegrini della diocesi di Gap-Embrun, i giovani dei collegi di Francia e il gruppo dell'Università Cattolica di Yaoundé.
Nella nostra missione quotidiana di cristiani battezzati, l’amore di Cristo ci spinga ad andare nelle periferie delle nostre società per incontrare i nostri fratelli e sorelle scartati e abbandonati, per mostrare loro la tenerezza del Signore.
Dio vi benedica!]
I extend a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, especially the groups from England, Finland, India, Korea, Indonesia, Egypt, South Africa, Australia and the United States of America.
In the joy of the Risen Christ, I invoke upon you and your families the loving mercy of God our Father.
May the Lord bless you all!
[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua inglese, specialmente ai gruppi provenienti da Inghilterra, Finlandia, India, Corea, Sud Africa, Australia, Egitto, Indonesia e Stati Uniti d’America.
Nella gioia del Cristo Risorto, invoco su di voi e sulle vostre famiglie l’amore misericordioso di Dio nostro Padre.
Il Signore vi benedica!]
Liebe Brüder und Schwestern, am kommenden Samstag begehen wir den Gedenktag Unserer lieben Frau von Fatima.
Nehmen wir ihre Einladung an und beten wir in diesem Monat den Rosenkranz für den Frieden in der Welt.
Der auferstandene Herr begleite euch und die selige Jungfrau Maria beschütze euch!
[Cari fratelli e sorelle, sabato prossimo celebreremo la Memoria di Nostra Signora di Fátima.
Accogliamo il suo invito e preghiamo in questo mese il Rosario per la pace nel mondo.
Il Signore risorto vi accompagni e la beata Vergine Maria vi protegga!]
Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española.
Pidamos al Señor, por intercesión de los santos pastores de la Iglesia —como san Juan de Ávila, cuya memoria hoy celebramos—, que nos ayude a extender siempre los horizontes de nuestra misión y nos fortalezca para amarlo y servirlo en toda circunstancia.
Que Jesús los bendiga y la Virgen Santa los cuide.
Muchas gracias.
Amados peregrinos de língua portuguesa, nomeadamente os alunos e professores de Penafiel, a minha cordial saudação para vós e vossos familiares, enquanto vos animo a tomar por modelo e estímulo da vossa vida a Virgem Maria.
A sua paz e coragem estavam apoiado nesta certeza: «Nada é impossível a Deus».
Como Ela, possam os vossos corações encontrar conforto na graça de Deus, que invoco sobre todos com a bênção do Senhor.
[Cari pellegrini di lingua portoghese, in particolare gli alunni e professori di Penafiel, il mio cordiale saluto a tutti voi e alle vostre famiglie: vi incoraggio a prendere la Vergine Maria come modello e stimolo per la vostra vita.
La sua pace e il suo coraggio poggiavano su questa certezza: «Nulla è impossibile a Dio»! Come Lei, possano i vostri cuori trovare conforto nella grazia di Dio, che invoco su tutti con la benedizione del Signore.]
أُحيِّي المُؤْمِنِينَ الناطِقِينَ باللُغَةِ العَرَبِيَّة.
دَعانا السَّيِّدُ المسيحُ وما زال يَدعُونا إلى أنْ نكون كنيسةً واحِدة.
وَحْدَتُنا نحن المَسِيحِيِّينَ هي استجابةٌ لإرادَتِهِ وصلاتِهِ.
عندما صلَّى يسوع، قال: "يا أَبَتِ القُدُّوس اِحفَظْهُم بِاسمِكَ الَّذي وَهَبتَهُ لي لِيَكونوا واحِدًا كما نَحنُ واحِد" (يوحنّا 17، 11).
بارَكَكُم الرَّبُّ جَميعًا وَحَماكُم دائِمًا مِنْ كُلِّ شَرّ!
[Saluto i fedeli di lingua araba.
Cristo Signore ci ha chiamato e ci chiama ancora ad essere una sola chiesa.
La nostra unità, come cristiani, è una risposta alla sua volontà e alla sua preghiera.
Quando Gesù pregava, diceva: «Padre Santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi» (Gv 17,11).
Il Signore vi benedica tutti e vi protegga sempre da ogni male!]
Serdecznie pozdrawiam polskich pielgrzymów, a szczególnie lekarzy, którzy dzięki diecezji tarnowskiej w najbliższych tygodniach ratować życie kobiet i matek w Republice Środkowoafrykańskiej.
Święty Franciszek Ksawery uczy nas, że głoszenie Ewangelii na peryferiach świata zawsze idzie w parze z pomocą medyczną i edukacyjną.
Tego wsparcia, a także naszej modlitwy o pokój potrzebuje też umęczona Ukraina.
Uczestnicząc w Nabożeństwach majowych, odmawiając różaniec, pamiętajcie szczególnie o doświadczonych wojną kobietach i dzieciach.
Z serca wam błogosławię!
[Saluto cordialmente i pellegrini polacchi, in particolare i medici che, grazie alla Diocesi di Tarnow, nelle prossime settimane si impegneranno a salvare la vita alle donne e madri nella Repubblica Centrafricana.
San Francesco Saverio ci insegna che l’annuncio del Vangelo nelle periferie del mondo va sempre di pari passo con l’assistenza medica ed educativa.
Questo sostegno, così come la nostra preghiera per la pace, è necessario anche per la martoriata Ucraina.
Mentre partecipate alle preghiere mariane di maggio, recitando il Rosario, ricordatevi soprattutto delle donne e dei bambini afflitti dalla guerra.
Vi benedico di cuore!]
* * *
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana.
In particolare, saluto i fedeli del Santuario Madonna delle Grazie in Monteodorisio e quelli del Santuario Santa Filomena in Mugnano del Cardinale.
Saluto inoltre gli studenti e docenti della Scuola Nostra Signora di Lourdes di Roma e quelli dell’Istituto Miraglia di Lauria.
Infine, come di consueto, mi rivolgo ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli: a ciascuno auguro di custodire in Cristo la speranza che illumina il senso della quotidiana esistenza.
Tutti esorto a pregare la Vergine Maria, nel mese a lei dedicato.
A Lei, consolatrice degli afflitti e Regina della pace, affido la martoriata Ucraina.
A tutti voi la mia benedizione e adesso col Patriarca Tawadros e tutti insieme pregheremo il Padre Nostro e poi il Patriarca Tawadros e io daremo la benedizione.
Eminenza,
Signor Presidente,
Cari fratelli e sorelle tutti!
Rivolgo a tutti voi un cordiale benvenuto in occasione della Conferenza sul tema “Crisi alimentari e umanitarie: scienza e politiche per la prevenzione e la mitigazione”, e ringrazio il Presidente von Braun per il suo gentile saluto.
Il tema da voi scelto è più che mai opportuno, non solo per il dibattito accademico, ma anche perché fa appello ad autorità lungimiranti e pratiche politiche, al fine di alleviare le sofferenze di tanti nostri fratelli e sorelle che non hanno un’alimentazione salutare e l’accesso a cibo sufficiente.
Mi diceva uno studioso alcuni mesi fa: “Se durante un anno non si facessero le armi, finirebbe la fame nel mondo”.
Si tratta di una sfida urgente, perché troppo spesso situazioni segnate da calamità naturali, ma anche conflitti armati – penso specialmente alla guerra in Ucraina –, corruzione politica o economica e sfruttamento della terra, nostra casa comune, ostacolano la produzione alimentare, minano la tenuta dei sistemi agricoli e minacciano pericolosamente l’approvvigionamento nutrizionale di intere popolazioni.
Allo stesso tempo, queste varie crisi sono state aggravate dagli effetti di lunga durata della pandemia di Covid-19, mentre si assiste, inoltre, al declino della solidarietà fraterna - questo è un dato di fatto: le guerre e le miserie portano al declino della solidarietà fraterna -, e questo declino è determinato, tra l’altro, dalle pretese egoistiche insite in alcuni attuali modelli economici.
In questa prospettiva, occorre prendere sempre più coscienza che tutto è strettamente correlato: «i problemi di oggi richiedono una visione capace di tenere conto di ogni aspetto della crisi globale» (Fratelli tutti, 137).
Un elemento importante di questa visione è la comprensione che una crisi può anche diventare un’opportunità, un’occasione propizia per riconoscere e imparare dagli errori del passato.
In questo senso, auspico che la vostra Conferenza ci aiuti tutti ad uscire meglio dalle crisi che stiamo attraversando, non solo concentrandoci sulle soluzioni tecniche, ma soprattutto ricordando quanto sia essenziale sviluppare un atteggiamento di solidarietà universale fondato sulla fraternità, sull’amore e sulla comprensione reciproca.
A questo proposito, la Chiesa sostiene e incoraggia con tutto il cuore i vostri sforzi, insieme a quelli di tutti coloro che lavorano non solo per nutrire gli altri o rispondere alle crisi, ma anche per promuovere uno sviluppo umano integrale, la giustizia tra i popoli e la solidarietà internazionale, rafforzando così il bene comune della società.
Cari amici, esprimo ancora una volta la mia gratitudine per il vostro prezioso servizio in collaborazione con la Pontificia Accademia delle Scienze e vi assicuro la mia preghiera, affinché il vostro lavoro porti frutto nell’aiutare ad affrontare i numerosi problemi che derivano dalle crisi alimentari e da altre crisi umanitarie.
Le crisi sono un’altra cosa rispetto ai conflitti.
I conflitti sono chiusi in sé stessi, da un conflitto è difficile uscire costruttivamente.
Invece dalle crisi si può uscire, si deve uscire, ma a due condizioni: da una crisi non si può uscire da soli, o usciamo insieme o non possiamo uscire.
Questo è importante, non si può uscire da soli, ci vuole la comunità, il gruppo per uscire.
E, dall’altra parte, da una crisi si esce per migliorare, sempre per andare avanti, per progredire.
Per questo vi ringrazio di questo vostro atteggiamento davanti a questa crisi, per uscire insieme e per uscire meglio.
Su tutti voi invoco l’abbondante benedizione di Dio Onnipotente e vi chiedo per favore di pregare per me.
Grazie!
Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!
Ringrazio il Superiore Generale per le parole che mi ha rivolto; saluto i membri del Consiglio e tutti voi.
Sono contento di questo incontro, in cui condivido con voi la gioia per i centosettantacinque anni dalla vostra rifondazione, con la fusione di due istituti religiosi.
Vorrei prendere spunto, per una breve riflessione, dal passo del profeta Isaia che avete scelto come guida nella vostra Congregazione: «Ecco, io faccio una cosa nuova» (43,19).
È una parola molto bella, e fa parte di un testo che inizia così: «Non temere [Israele], perché io ti ho redento, ti ho chiamato per nome; tu mi appartieni» (Is 43,1).
Quando sento questo mi viene in mente la mano di Dio che accarezza, accarezza il popolo, accarezza ognuno di voi: il Dio tenero che accarezza sempre.
Mi fermo su queste parole perché mi pare rispecchino molto bene alcuni valori fondamentali del vostro carisma: coraggio, apertura e abbandono all’azione dello Spirito perché faccia una cosa nuova.
Sono valori evidenti già nella storia della vostra prima fondazione: un giovane diacono, con dodici compagni di seminario, spinto dallo Spirito, con coraggio si lancia in una inaspettata avventura.
Rinuncia alla prospettiva di un futuro tranquillo – poteva essere un buon sacerdote di famiglia agiata – per una missione ancora tutta da scoprire, esponendosi a sacrifici, incomprensioni e opposizioni, con una salute molto fragile che lo porterà a una morte precoce, prima ancora di poter vedere pienamente coronato il suo sogno.
Tanti imprevisti, che però la sua docilità all’azione dello Spirito trasforma in “sì” coraggiosi, grazie ai quali Dio comincia ogni volta qualcosa di nuovo in lui, e attraverso di lui anche in altri.
Il suo esempio trova infatti conferma nei fratelli che ne continuano l’opera, pronti a rispondere a nuovi segni dei tempi, abbracciando prima il servizio ai seminaristi poveri, poi le missioni popolari e infine anche l’annuncio ad gentes in varie parti del mondo, senza lasciarsi intimorire nemmeno dalla persecuzione religiosa scatenata dalla rivoluzione francese.
Una storia bella e ricca, di cui oggi però ricordiamo un ulteriore momento speciale, in cui tutto ancora una volta si rimette in gioco.
È la seconda fondazione, quella del 1848, in cui lo Spirito Santo chiede alla comunità di condividere tutti i frutti del suo passato in uno scenario nuovo.
È tempo di unirsi a nuovi compagni, quelli della Società del Sacro Cuore di Maria, anch’essi missionari, ma con una storia diversa.
Per farlo è certamente necessario superare timori e gelosie, e i fratelli delle due famiglie accettano la sfida, unendo le loro forze e condividendo quello che hanno in un nuovo inizio.
Oggi, dopo oltre un secolo e mezzo, vediamo che la Provvidenza ha premiato la loro generosa e coraggiosa docilità allo Spirito: siete presenti in sessanta Paesi nei cinque continenti, con circa duemilaseicento religiosi e il coinvolgimento di tanti laici.
Grazie alla vostra disponibilità a cambiare e alla vostra perseveranza, siete rimasti fedeli allo spirito delle origini: evangelizzare i poveri, accettare le missioni dove nessun altro vuole andare, prediligere il servizio ai più abbandonati, rispettare popoli e culture, formare clero e laici locali per uno sviluppo umano integrale, il tutto in fraternità e semplicità di vita e in assiduità di preghiera.
Per favore, quest’ultima cosa è importante: pregare, non lasciare la preghiera.
E non solo la preghiera formale, no, pregare! Pregare sul serio! Realizzate così quella che il Venerabile Libermann chiamava “unione pratica” nel servizio, frutto di una docilità abituale allo Spirito Santo e fondamento di ogni missione.
Il vostro carisma, aperto e rispettoso, è particolarmente prezioso oggi, in un mondo in cui la sfida dell’interculturalità e dell’inclusione è viva e urgente, dentro la Chiesa e fuori di essa.
Per questo vi dico: non rinunciate al vostro coraggio e alla vostra libertà interiore, coltivatela e fatene un tratto vivo del vostro apostolato.
Sono tanti gli uomini e le donne che ancora hanno bisogno del Vangelo, non solo nelle cosiddette “terre di missione”, ma anche nel vecchio e stanco occidente.
Guardate ognuno con gli occhi di Gesù, che desidera incontrare tutti – tutti! Non dimenticare questo: tutti – facendosi vicino specialmente ai più poveri, toccandoli con le sue mani, fissando il suo sguardo nel loro.
E per portare a ciascuno il soffio fresco e vitale del suo Spirito, che è il vero «protagonista della missione» (cfr S.
Giovanni Paolo II, Enc.
Redemptoris missio, 30), lasciatevi guidare da Lui, perché «non c’è maggior libertà che quella di lasciarsi portare dallo Spirito, rinunciando a calcolare e a controllare tutto» (Esort.
ap.
Evangelii gaudium, 280).
Permettetegli di illuminarvi, di orientarvi, di spingervi dove desidera, senza porre condizioni, senza escludere nessuno, perché è Lui che sa ciò di cui c’è bisogno in ogni epoca e in ogni momento (cfr ibid.).
Questa è stata la grande intuizione dei vostri fondatori e la bella testimonianza di tanti fratelli e sorelle che vi hanno preceduto.
E questo è anche l’augurio e l’invito che vi rivolgo oggi.
La Madonna vi accompagni.
Vi benedico tutti di cuore e vi chiedo per favore di pregare per me.
Grazie!
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