Nei Venerdì di Quaresima non si celebra la santa Messa. E’ invece raccomandata la celebrazione solenne dei Vespri con il popolo. [Letture dei Vespri : cliccare su "Oggi la Chiesa celebra"]
Poi diede loro quest'ordine: "Io sto per essere riunito ai miei antenati: seppellitemi presso i miei padri nella caverna che è nel campo di Efron l'Hittita, nella caverna che si trova nel campo di Macpela di fronte a Mamre, nel paese di Cànaan, quella che Abramo acquistò con il campo di Efron l'Hittita come proprietà sepolcrale. Là seppellirono Abramo e Sara sua moglie, là seppellirono Isacco e Rebecca sua moglie e là seppellii Lia. La proprietà del campo e della caverna che si trova in esso proveniva dagli Hittiti. Quando Giacobbe ebbe finito di dare questo ordine ai figli, ritrasse i piedi nel letto e spirò e fu riunito ai suoi antenati. Allora Giuseppe si gettò sulla faccia di suo padre, pianse su di lui e lo baciò. Poi Giuseppe ordinò ai suoi medici di imbalsamare suo padre.
I medici imbalsamarono Israele e vi impiegarono quaranta giorni, perché tanti ne occorrono per l'imbalsamazione.
Gli Egiziani lo piansero settanta giorni. Passati i giorni del lutto, Giuseppe parlò alla casa del faraone: "Se ho trovato grazia ai vostri occhi, vogliate riferire agli orecchi del faraone queste parole: Mio padre mi ha fatto giurare: Ecco, io sto per morire: tu devi seppellirmi nel sepolcro che mi sono scavato nel paese di Cànaan.
Ora, possa io andare a seppellire mio padre e tornare". Il faraone rispose: "Và e seppellisci tuo padre com'egli ti ha fatto giurare". Allora Giuseppe andò a seppellire suo padre e con lui andarono tutti i ministri del faraone, gli anziani della sua casa, tutti gli anziani del paese d'Egitto, tutta la casa di Giuseppe e i suoi fratelli e la casa di suo padre.
Soltanto i loro bambini e i loro greggi e i loro armenti essi lasciarono nel paese di Gosen. Andarono con lui anche i carri da guerra e la cavalleria, così da formare una carovana imponente. Quando arrivarono all'Aia di Atad, che è al di là del Giordano, fecero un lamento molto grande e solenne ed egli celebrò per suo padre un lutto di sette giorni. I Cananei che abitavano il paese videro il lutto alla Aia di Atad e dissero: "È un lutto grave questo per gli Egiziani".
Per questo la si chiamò Abel-Mizraim, che si trova al di là del Giordano. Poi i suoi figli fecero per lui così come aveva loro comandato. I suoi figli lo portarono nel paese di Cànaan e lo seppellirono nella caverna del campo di Macpela, quel campo che Abramo aveva acquistato, come proprietà sepolcrale, da Efron l'Hittita, e che si trova di fronte a Mamre.
T'invoco con tutto il cuore, Signore, rispondimi; custodirò i tuoi precetti. Io ti chiamo, salvami, e seguirò i tuoi insegnamenti. Precedo l'aurora e grido aiuto, spero sulla tua parola. I miei occhi prevengono le veglie per meditare sulle tue promesse. Ascolta la mia voce, secondo la tua grazia; Signore, fammi vivere secondo il tuo giudizio. A tradimento mi assediano i miei persecutori, sono lontani dalla tua legge. Ma tu, Signore, sei vicino, tutti i tuoi precetti sono veri. Da tempo conosco le tue testimonianze che hai stabilite per sempre.
Parole di Lemuèl, re di Massa, che sua madre gli insegnò. E che, figlio mio! E che, figlio delle mie viscere! E che, figlio dei miei voti! Non dare il tuo vigore alle donne, né i tuoi costumi a quelle che corrompono i re. Non conviene ai re, Lemuèl, non conviene ai re bere il vino, né ai principi bramare bevande inebrianti, per paura che, bevendo, dimentichino i loro decreti e tradiscano il diritto di tutti gli afflitti. Date bevande inebrianti a chi sta per perire e il vino a chi ha l'amarezza nel cuore. Beva e dimentichi la sua povertà e non si ricordi più delle sue pene. Apri la bocca in favore del muto in difesa di tutti gli sventurati. Apri la bocca e giudica con equità e rendi giustizia all'infelice e al povero.
E nacque dissenso tra la gente riguardo a lui. Alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno gli mise le mani addosso. Le guardie tornarono quindi dai sommi sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: «Perché non lo avete condotto?». Risposero le guardie: «Mai un uomo ha parlato come parla quest'uomo!». Ma i farisei replicarono loro: «Forse vi siete lasciati ingannare anche voi? Forse gli ha creduto qualcuno fra i capi, o fra i farisei? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!». Disse allora Nicodèmo, uno di loro, che era venuto precedentemente da Gesù: «La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?». Gli risposero: «Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea». E tornarono ciascuno a casa sua.
Quelli che vedono con gli occhi del corpo, percepiscono ciò che si svolge in questa vista terrena e distinguono le cose differenti tra di loro: la luce e le tenebre, il bianco e il nero, il brutto e il bello...
La stessa cosa si può dire di quanto riguarda le orecchie e cioè i suoni acuti, i gravi e i dolci.
Allo stesso modo si comportano gli orecchi del cuore e gli occhi dell'anima in ordine alla percezione di Dio. Dio infatti, viene visto da coloro che lo possono vedere, cioè da quelli che hanno gli occhi.
Ma alcuni li hanno annebbiati e non vedono la luce del sole.
Tuttavia per il fatto che i ciechi non vedono, non si può concludere che la luce del sole non brilla.
Giustamente perciò essi attribuiscono la loro oscurità a se stessi e ai loro occhi.
Tu hai gli occhi dell'anima annebbiati per i tuoi peccati e per le tue cattive azioni...
Quando il peccato ha preso possesso dell'uomo, egli non può più vedere Dio... Ma se vuoi, puoi essere guarito.
Affidati al medico ed egli opererà gli occhi della tua anima a del tuo cuore.
Chi è questo medico? È Dio, il quale per mezzo del Verbo e della sapienza guarisce e dà la vita.
Dio per mezzo del Verbo e della sapienza, ha creato tutte le cose...
Se capisci queste cose, uomo, e se vivi in purezza, santità e giustizia, puoi vedere Dio.
Ma prima di tutto vadano innanzi nel tuo cuore la fede e il timore di Dio e allora comprenderai tutto questo.
Quando avrai deposto la tua mortalità e ti sarai rivestito dell'immortalità (1 Co 15,53), allora vedrai Dio secondo i tuoi meriti; egli infatti fa risuscitare insieme con l'anima anche la tua carne, rendendola immortale e allora, se ora credi in lui, divenuto immortale, vedrai l'Immortale.
Dopo queste cose, fu riferito a Giuseppe: "Ecco, tuo padre è malato!".
Allora egli condusse con sé i due figli Manasse ed Efraim. Poi Israele vide i figli di Giuseppe e disse: "Chi sono questi?". Giuseppe disse al padre: "Sono i figli che Dio mi ha dati qui".
Riprese: "Portameli perché io li benedica!". Ora gli occhi di Israele erano offuscati dalla vecchiaia: non poteva più distinguere.
Giuseppe li avvicinò a lui, che li baciò e li abbracciò. Israele disse a Giuseppe: "Io non pensavo più di vedere la tua faccia ed ecco, Dio mi ha concesso di vedere anche la tua prole!". Allora Giuseppe li ritirò dalle sue ginocchia e si prostrò con la faccia a terra. Poi li prese tutti e due, Efraim con la sua destra, alla sinistra di Israele, e Manasse con la sua sinistra, alla destra di Israele, e li avvicinò a lui. Ma Israele stese la mano destra e la pose sul capo di Efraim, che pure era il più giovane, e la sua sinistra sul capo di Manasse, incrociando le braccia, benché Manasse fosse il primogenito. E così benedisse Giuseppe: "Il Dio, davanti al quale hanno camminato i miei padri Abramo e Isacco, il Dio che è stato il mio pastore da quando esisto fino ad oggi, l'angelo che mi ha liberato da ogni male, benedica questi giovinetti! Sia ricordato in essi il mio nome e il nome dei miei padri Abramo e Isacco e si moltiplichino in gran numero in mezzo alla terra!". Giuseppe notò che il padre aveva posato la destra sul capo di Efraim e ciò gli spiacque.
Prese dunque la mano del padre per toglierla dal capo di Efraim e porla sul capo di Manasse. Disse al padre: "Non così, padre mio: è questo il primogenito, posa la destra sul suo capo!". Ma il padre ricusò e disse: "Lo so, figlio mio, lo so: anch'egli diventerà un popolo, anch'egli sarà grande, ma il suo fratello minore sarà più grande di lui e la sua discendenza diventerà una moltitudine di nazioni". E li benedisse in quel giorno: "Di voi si servirà Israele per benedire, dicendo: Dio ti renda come Efraim e come Manasse!".
Così pose Efraim prima di Manasse. Poi Israele disse a Giuseppe: "Ecco, io sto per morire, ma Dio sarà con voi e vi farà tornare al paese dei vostri padri.
Tu sei giusto, Signore, e retto nei tuoi giudizi. Con giustizia hai ordinato le tue leggi e con fedeltà grande. Mi divora lo zelo della tua casa, perché i miei nemici dimenticano le tue parole. Purissima è la tua parola, il tuo servo la predilige. Io sono piccolo e disprezzato, ma non trascuro i tuoi precetti. La tua giustizia è giustizia eterna e verità è la tua legge. Angoscia e affanno mi hanno colto, ma i tuoi comandi sono la mia gioia. Giusti sono i tuoi insegnamenti per sempre, fammi comprendere e avrò la vita.
Detti di Agùr figlio di Iakè, da Massa.
Dice quest'uomo: Sono stanco, o Dio, sono stanco, o Dio, e vengo meno, Quattro esseri sono fra le cose più piccole della terra, eppure sono i più saggi dei saggi: le formiche, popolo senza forza, che si provvedono il cibo durante l'estate; gli iràci, popolo imbelle, ma che hanno la tana sulle rupi; le cavallette, che non hanno un re, eppure marciano tutte insieme schierate; la lucertola, che si può prender con le mani, ma penetra anche nei palazzi dei re. Tre esseri hanno un portamento maestoso, anzi quattro sono eleganti nel camminare: il leone, il più forte degli animali, che non indietreggia davanti a nessuno; il gallo pettoruto e il caprone e un re alla testa del suo popolo. Se ti sei esaltato per stoltezza e se poi hai riflettuto, mettiti una mano sulla bocca, poiché, sbattendo il latte ne esce la panna, premendo il naso ne esce il sangue, spremendo la collera ne esce la lite.
Poi prese con sé i Dodici e disse loro: «Ecco, noi andiamo a Gerusalemme, e tutto ciò che fu scritto dai profeti riguardo al Figlio dell'uomo si compirà. Sarà consegnato ai pagani, schernito, oltraggiato, coperto di sputi e, dopo averlo flagellato, lo uccideranno e il terzo giorno risorgerà». Ma non compresero nulla di tutto questo; quel parlare restava oscuro per loro e non capivano ciò che egli aveva detto.
O Gerusalemme, città di Dio, ti acclamiamo « Visione di pace ». Nei cieli fosti costruita con pietre vive (1 Pt 2, 5) ; Coronata di angeli e di santi, sei la Prediletta del Re (cfr.
Sal 45). Scesa dal cielo, tutta nuova, adorna per il tuo sposo (Ap 21, 2), Vieni come la Sposa; vieni ad abbracciare il tuo Signore. E si vedrà brillare sulle tue mura l'oro della tua gioia (Ap 21, 18). Si aprano le ante delle tue porte; risplenda la tua bellezza. Ogni uomo, penetrando in te, sia salvato per la tua grazia. Sia accolto chiunque soffre nel nome di Cristo e si scoraggia. È Cristo il maestro e l'artigiano: egli intaglia e leviga. Aggiusta ogni pietra, scelta per il proprio posto, Da lui sistemata per edificare quel Tempio santo dove egli dimora (1 Cor 3, 16).
Io sentivo le insinuazioni di molti: "Terrore all'intorno! Denunciatelo e lo denunceremo".
Tutti i miei amici spiavano la mia caduta: "Forse si lascerà trarre in inganno, così noi prevarremo su di lui, ci prenderemo la nostra vendetta". Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori cadranno e non potranno prevalere; saranno molto confusi perché non riusciranno, la loro vergogna sarà eterna e incancellabile. Signore degli eserciti, che provi il giusto e scruti il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di essi; poiché a te ho affidato la mia causa! Cantate inni al Signore, lodate il Signore, perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori.
Ti amo, Signore, mia forza, Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore. Mio Dio, mia rupe, in cui trovo riparo; mio scudo e baluardo, mia potente salvezza. Invoco il Signore, degno di lode, e sarò salvato dai miei nemici. Mi circondavano flutti di morte, mi travolgevano torrenti impetuosi; già mi avvolgevano i lacci degli inferi, già mi stringevano agguati mortali. Nel mio affanno invocai il Signore, nell'angoscia gridai al mio Dio: dal suo tempio ascoltò la mia voce, al suo orecchio pervenne il mio grido.
In quel tempo, i Giudei portarono di nuovo delle pietre per lapidarlo. Gesù rispose loro: «Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre mio; per quale di esse mi volete lapidare?». Gli risposero i Giudei: «Non ti lapidiamo per un'opera buona, ma per la bestemmia e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio». Rispose loro Gesù: «Non è forse scritto nella vostra Legge: Io ho detto: voi siete dei? Ora, se essa ha chiamato dei coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio (e la Scrittura non può essere annullata), a colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo, voi dite: Tu bestemmi, perché ho detto: Sono Figlio di Dio? Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre». Cercavano allora di prenderlo di nuovo, ma egli sfuggì dalle loro mani. Ritornò quindi al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava, e qui si fermò. Molti andarono da lui e dicevano: «Giovanni non ha fatto nessun segno, ma tutto quello che Giovanni ha detto di costui era vero». E in quel luogo molti credettero in lui.
Credi nel Figlio di Dio, il solo e l'unico, nostro Signore Gesù Cristo, generato Dio da Dio, generato vita dalla vita, generato luce dalla luce, simile in tutto a colui che l'ha generato; colui che non ha preso l'essere nel tempo, ma che prima di tutti i secoli, eternamente e senza dubbio è stato generato dal Padre; la sapienza di Dio e la sua potenza e giustizia sussistenti; colui che siede alla destra del Padre, prima di tutti i secoli. Non è, come alcuni hanno creduto, dopo la Passione che, per così dire, coronato da Dio per la sua pazienza, ha ricevuto il trono posto alla destra del Padre, ma è da che esiste (è generato da tutta l'eternità) che possiede la dignità regale, e siede col Padre, poiché è, come si dice, Dio, sapienza e forza, ed esercita la regalità col Padre e per il Padre, autore di tutte le cose. Ma nulla manca alla sua dignità affinché sia divina, per così dire, lui conosce chi l'ha generato come è conosciuto da chi lo ha generato; insomma, ricordati di quanto è scritto nel Vangelo: "Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio" (Mt 11,27).
In quei giorni, Abram si prostrò con il viso a terra e Dio parlò con lui: "Eccomi: la mia alleanza è con te e sarai padre di una moltitudine di popoli. Non ti chiamerai più Abram ma ti chiamerai Abraham perché padre di una moltitudine di popoli ti renderò. E ti renderò molto, molto fecondo; ti farò diventare nazioni e da te nasceranno dei re. Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione, come alleanza perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te. Darò a te e alla tua discendenza dopo di te il paese dove sei straniero, tutto il paese di Cànaan in possesso perenne; sarò il vostro Dio". Disse Dio ad Abramo: "Da parte tua devi osservare la mia alleanza, tu e la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione.
Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto. Ricordate le meraviglie che ha compiute, i suoi prodigi e i giudizi della sua bocca; Voi stirpe di Abramo, suo servo, figli di Giacobbe, suo eletto. È lui il Signore, nostro Dio, su tutta la terra i suoi giudizi. Ricorda sempre la sua alleanza: parola data per mille generazioni, l'alleanza stretta con Abramo e il suo giuramento ad Isacco.
In quel tempo, Gesù disse ai Giudei: «In verità, in verità vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte». Gli dissero i Giudei: «Ora sappiamo che hai un demonio.
Abramo è morto, come anche i profeti, e tu dici: "Chi osserva la mia parola non conoscerà mai la morte". Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti; chi pretendi di essere?». Rispose Gesù: «Se io glorificassi me stesso, la mia gloria non sarebbe nulla; chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: "E' nostro Dio!", e non lo conoscete.
Io invece lo conosco.
E se dicessi che non lo conosco, sarei come voi, un mentitore; ma lo conosco e osservo la sua parola. Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò». Gli dissero allora i Giudei: «Non hai ancora cinquant'anni e hai visto Abramo?». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono». Allora raccolsero pietre per scagliarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio.
E quindi, dove si è svolto questo incontro (di Abramo ed i suoi tre visitatori) ? «Alle querce di Mamre», che significa «visione» o meglio «perspicacia».
Vedete in quale luogo il Signore può organizzare un incontro? E' vero che le qualità di chiaroveggenza e di perspicacia di Abramo piacevano al Signore; egli aveva il cuore puro, per cui poteva vedere Dio (cf Mt 5,8).
In tale luogo, in tale cuore, il Signore poteva riunire dei convitati. Nel Vangelo, il Signore parla ai giudei di questo incontro; dice loro: «Abramo, vostro padre, ha esultato al pensiero che avrebbe visto il mio giorno.
Egli l'ha visto e se ne rallegrò».
«Egli ha visto il mio giorno», dice, perché ha riconosciuto il mistero della Trinità.
Ha visto nel suo giorno il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, e le tre persone riunite in un solo giorno, proprio come Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo sono tutti e tre un solo Dio.
Infatti, ogni persona divina singolarmente è pienamente Dio, e simultaneamente tutte e tre insieme sono Dio.
E' giusto dunque scorgere il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo nelle tre misure di farina che Sara porta, poiché c'è unità di sostanza. Possiamo anche ipotizzare un'altra interpretazione e vedere in Sara l'immagine della Chiesa: le tre misure di farina possono essere interpretate come la fede, la speranza e la carità.
Queste tre virtù riuniscono infatti i frutti della Chiesa universale; ogni uomo che ha meritato di riunire in sé queste tre virtù può essere certo di ricevere nel suo cuore la Trinità intera.
In quei giorni, il re Nabucodònosor disse: "È vero, Sadràch, Mesàch e Abdènego, che voi non servite i miei dei e non adorate la statua d'oro che io ho fatto innalzare? Ora, se voi sarete pronti, quando udirete il suono del corno, del flauto, della cetra, dell'arpicordo, del salterio, della zampogna e d'ogni specie di strumenti musicali, a prostrarvi e adorare la statua che io ho fatta, bene; altrimenti in quel medesimo istante sarete gettati in mezzo ad una fornace dal fuoco ardente.
Qual Dio vi potrà liberare dalla mia mano?". Ma Sadràch, Mesàch e Abdènego risposero al re Nabucodònosor: "Re, noi non abbiamo bisogno di darti alcuna risposta in proposito; sappi però che il nostro Dio, che serviamo, può liberarci dalla fornace con il fuoco acceso e dalla tua mano, o re. Ma anche se non ci liberasse, sappi, o re, che noi non serviremo mai i tuoi dei e non adoreremo la statua d'oro che tu hai eretto". Allora Nabucodònosor, acceso d'ira e con aspetto minaccioso contro Sadràch, Mesàch e Abdènego, ordinò che si aumentasse il fuoco della fornace sette volte più del solito. Poi, ad alcuni uomini fra i più forti del suo esercito, comandò di legare Sadràch, Mesàch e Abdènego e gettarli nella fornace con il fuoco acceso. Allora il re Nabucodònosor rimase stupito e alzatosi in fretta si rivolse ai suoi ministri: "Non abbiamo noi gettato tre uomini legati in mezzo al fuoco?".
"Certo, o re", risposero. Egli soggiunse: "Ecco, io vedo quattro uomini sciolti, i quali camminano in mezzo al fuoco, senza subirne alcun danno; anzi il quarto è simile nell'aspetto a un figlio di dei". Nabucodònosor prese a dire: "Benedetto il Dio di Sadràch, Mesàch e Abdènego, il quale ha mandato il suo angelo e ha liberato i servi che hanno confidato in lui; hanno trasgredito il comando del re e hanno esposto i loro corpi per non servire e per non adorare alcun altro dio che il loro Dio.
Benedetto sei tu, Signore, Dio dei padri nostri, degno di lode e di gloria nei secoli.
Benedetto il tuo nome glorioso e santo, degno di lode e di gloria nei secoli. Benedetto sei tu nel tuo tempio santo glorioso, degno di lode e di gloria nei secoli. Benedetto sei tu nel trono del tuo regno, degno di lode e di gloria nei secoli. Benedetto sei tu che penetri con lo sguardo gli abissi e siedi sui cherubini, degno di lode e di gloria nei secoli. Benedetto sei tu nel firmamento del cielo, degno di lode e di gloria nei secoli.
In quel tempo, Gesù disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno.
Come puoi tu dire: Diventerete liberi?». Gesù rispose: «In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre; se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. So che siete discendenza di Abramo.
Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova posto in voi. Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro!». Gli risposero: «Il nostro padre è Abramo».
Rispose Gesù: «Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo! Ora invece cercate di uccidere me, che vi ho detto la verità udita da Dio; questo, Abramo non l'ha fatto. Voi fate le opere del padre vostro».
Gli risposero: «Noi non siamo nati da prostituzione, noi abbiamo un solo Padre, Dio!». Disse loro Gesù: «Se Dio fosse vostro Padre, certo mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato.
Chiunque tu sia, aggiungi alla conoscenza della nostra luminosa, gloriosa e santissima fede, la conoscenza di te stesso.
Uomo, sei duplice per natura, composto di anima e corpo; ed è lo stesso Dio che è il creatore del corpo e dell'anima.
Sappi anche che hai un'anima libera, capolavoro di Dio, a immagine del suo autore, immortale per grazia di Dio che l'ha fatta immortale.
E' un essere vivente, ragionevole e incorruttibile, per grazia di colui che gli ha conferito queste prerogative, dotato della facoltà di fare ciò che vuole.
(...) Sappi ancora: prima di nascere in questo mondo, l'anima non ha commesso alcun peccato, ma, dopo esser venuti senza peccato, ecco che deliberatamente pecchiamo.
(...) L'anima è immortale e, sia degli uomini che delle donne, sono uguali: infatti solo le membra del corpo sono diverse.
Non c'è una categoria di anime che peccano per natura ed una categoria di anime che fanno bene per natura; le une e le altre agiscono per libera scelta, in quanto abbiamo tutti la sostanza dell'anima della stessa struttura e simile. L'anima è libera e il demonio le può dare suggerimenti, ma non ha il potere di obbligarla nella scelta.
Mette in te un pensiero di fornicazione: se lo vuoi, lo accogli; se non lo vuoi, lo respingi.
Poiché se tu lo facessi per necessità, per quale ragione Dio avrebbe preparato la geenna? Se la natura e non il libero arbitrio ti facesse fare il bene, per quale ragione Dio avrebbe preparato corone ineffabili? (...) Caro amico, hai appena appreso, nella misura desiderabile per il momento, quanto riguarda l'anima.
Catechesi. La passione per l’evangelizzazione: lo zelo apostolico del credente.
9. Testimoni: San Paolo. 1
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Nel cammino di catechesi sullo zelo apostolico, cominciamo oggi a guardare ad alcune figure che, in modi e tempi diversi, hanno dato testimonianza esemplare di che cosa vuol dire passione per il Vangelo.
E il primo testimone è naturalmente l’Apostolo Paolo.
A lui vorrei dedicare due catechesi.
La storia di Paolo di Tarso è emblematica su questo argomento.
Nel primo capitolo della Lettera ai Galati, così come nella narrazione degli Atti degli Apostoli, possiamo rilevare che il suo zelo per il Vangelo appare dopo la sua conversione, e prende il posto del suo precedente zelo per il giudaismo.
Era un uomo zelante per la legge di Mosè per il giudaismo e dopo la conversione questo zelo continua ma per proclamare, per predicare Gesù Cristo.
Paolo era un innamorato di Gesù.
Saulo – il primo nome di Paolo – era già zelante, ma Cristo converte il suo zelo: dalla Legge al Vangelo.
Il suo slancio prima voleva distruggere la Chiesa, dopo invece la costruisce.
Ci possiamo domandare: che cosa è successo, che succede dalla distruzione alla costruzione? Che cosa è cambiato in Paolo? In che senso il suo zelo, il suo slancio per la gloria di Dio è stato trasformato?
San Tommaso d’Aquino insegna che la passione, dal punto di vista morale, non è né buona né cattiva: il suo uso virtuoso la rende moralmente buona, il peccato la rende cattiva.
[1] Nel caso di Paolo, ciò che lo ha cambiato non è una semplice idea o una convinzione: è stato l’incontro con il Signore risorto – non dimenticate questo, quello che cambia una vita è l’incontro con il Signore – è stato per Saulo l’incontro con il Signore risorto che ha trasformato tutto il suo essere.
L’umanità di Paolo, la sua passione per Dio e la sua gloria non viene annientata, ma trasformata, “convertita” dallo Spirito Santo.
L’unico che può cambiare i nostri cuori è lo Spirito Santo.
E così per ogni aspetto della sua vita.
Proprio come succede nell’Eucaristia: il pane e il vino non scompaiono, ma diventano il Corpo e il Sangue di Cristo.
Lo zelo di Paolo rimane, ma diventa lo zelo di Cristo.
Cambia il senso ma lo zelo è lo stesso.
Il Signore lo si serve con la nostra umanità, con le nostre prerogative e le nostre caratteristiche, ma ciò che cambia tutto non è un’idea bensì la vita vera e propria, come dice lo stesso Paolo: «Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove» ( 2 Cor 5,17).
L’incontro con Gesù Cristo ti cambia da dentro, ti fa un’altra persona.
Se uno è in Cristo è una nuova creatura, questo è il senso di essere una nuova creatura.
Diventare cristiano non è un maquillage che ti cambia la faccia, no! Se tu sei cristiano ti cambia il cuore ma se tu sei cristiano di apparenza, questo non va… cristiani di maquillage non vanno.
Il vero cambiamento è del cuore.
E questo è successo a Paolo.
La passione per il Vangelo non è una questione di comprensione o di studi, che pure servono ma non la generano; significa piuttosto ripercorrere quella stessa esperienza di “caduta e risurrezione” che Saulo/Paolo visse e che è all’origine della trasfigurazione del suo slancio apostolico.
Tu puoi studiare tutta la teologia che vuoi, tu puoi studiare la Bibbia e tutto quello e diventare ateo o mondano, non è una questione di studi; nella storia ci sono stati tanti teologi atei! Studiare serve ma non genera la nuova vita di grazia.
Infatti, come dice S.
Ignazio di Loyola: «Non il molto sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e il gustare le cose internamente».
[2] Si tratta delle cose che ti cambiano dentro, che ti fanno sapere un’altra cosa, gustare un’altra cosa.
Ognuno di noi pensi a questo: “Io sono un religioso?” – “Va bene” – “Io prego?” – “Sì” - “Io cerco di osservare i comandamenti?” – “Sì” – “Ma dov’è Gesù nella tua vita?” – “Ah, no io faccio le cose che comanda la Chiesa”.
Ma Gesù dov’è? Hai incontrato Gesù, hai parlato con Gesù? Tu prendi il Vangelo o parli con Gesù, ti ricordi chi è Gesù? E questa è una cosa che ci manca tante volte.
Quando entra Gesù nella tua vita, come è entrato nella vita di Paolo, Gesù entra cambia tutto.
Tante volte abbiamo sentito commenti sulla gente: “Ma guarda quell’altro, che era un disgraziato e adesso è un uomo buono, una donna buona… Chi lo ha cambiato? Gesù, ha trovato Gesù.
La tua vita che è cristiana è cambiata? “E no, più o meno, sì…”.
Se non è entrato Gesù nella tua vita non è cambiata.
Tu puoi essere cristiano di fuori soltanto.
No, deve entrare Gesù e questo ti cambia e questo è successo a Paolo.
Bisogna trovare Gesù e per questo Paolo diceva l’amore di Cristo ci spinge, quello che ti porta avanti.
Lo stesso cambiamento è capitato a tutti i Santi, che quando hanno trovato Gesù sono andati avanti.
Possiamo fare una ulteriore riflessione sul cambiamento che avviene in Paolo, il quale da persecutore diventò apostolo di Cristo.
Notiamo che in lui si verifica una specie di paradosso: infatti, finché lui si ritiene giusto davanti a Dio, allora si sente autorizzato a perseguitare, ad arrestare, anche ad uccidere, come nel caso di Stefano; ma quando, illuminato dal Signore Risorto, scopre di essere stato “un bestemmiatore e un violento” (cfr 1 Tm 1,13), - così dice di sé stesso: “io sono stato un bestemmiatore e un violento” - allora incomincia a essere davvero capace di amare.
E questa è la strada.
Se uno di noi dice: “Ah grazie Signore, perché io sono una persona buona, io faccio le cose buone, non faccio peccati grossi…”: Non è una buona strada questa, questa è una strada di autosufficienza, è una strada che non ti giustifica, ti fa un cattolico elegante, ma un cattolico elegante non è un cattolico santo, è elegante.
Il vero cattolico, il vero cristiano è quello che riceve Gesù dentro, che cambia il cuore.
Questa è la domanda che faccio a tutti voi oggi: cosa significa Gesù per me? L’ho lasciato entrare nel cuore o soltanto lo tengo a portata di mano ma che non venga tanto dentro? Mi sono lasciato cambiare da Lui? O soltanto Gesù è un’idea, una teologia che va avanti… E questo è lo zelo, quando uno trova Gesù sente il fuoco e come Paolo deve predicare Gesù, deve parlare di Gesù, deve aiutare la gente, deve fare cose buone.
Quando uno trova l’idea di Gesù rimane un ideologo del cristianesimo e questo non salva, soltanto Gesù ci salva, se tu lo hai incontrato e gli hai aperto la porta del tuo cuore.
L’idea di Gesù non ti salva! Il Signore ci aiuti a trovare Gesù, a incontrare Gesù, e che questo Gesù da dentro ci cambi la vita e ci aiuti ad aiutare gli altri.
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[1] Cfr Quaestio “De veritate” 24, 7.
[2] Esercizi spirituali, Annotazioni, 2, 4.
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Saluti
Je salue cordialement les personnes de langue française, en particulier les jeunes des établissements scolaires, La Croix Saint Marceau, Saint Joseph, Saint Dominique, Massillon et Beauséjour.
Puissions-nous porter avec zèle, délicatesse et charité, le témoignage de l’amour de Dieu auprès des nôtres et de tous ceux que le Seigneur mettra sur notre chemin.
Demandons au Seigneur la grâce de rayonner la joie de sa son Evangile par nos vies pour rendre nos sociétés plus humaines et fraternelle.
Que Dieu vous bénisse.
[Saluto cordialmente i fedeli di lingua francese, in particolare i giovani delle scuole: La Croce San Marcello, San Giuseppe, San Domenico, Massillon e Beauséjour.
Siamo chiamati a testimoniare l'amore di Dio con zelo, delicatezza e carità al nostro popolo e a tutti coloro che il Signore mette sul nostro cammino.
Chiediamo al Signore la grazia di irradiare la gioia del suo Vangelo attraverso la nostra vita per rendere le nostre società più umane e fraterne.
Dio vi benedica.]
I extend a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, especially the groups from England, Ireland, Denmark, Norway, Indonesia, the Philippines, Canada and the United States of America.
I greet in particular the delegation from the NATO Defense College and the many students and teachers present.
May our Lenten journey bring us to Easter with hearts purified and renewed by the grace of the Holy Spirit.
Upon you and your families I invoke joy and peace in Christ our Redeemer!
[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua inglese, specialmente ai gruppi provenienti da Inghilterra, Irlanda, Danimarca, Norvegia, Indonesia, Filippine, Canada e Stati Uniti d’America.
Rivolgo un saluto particolare alla delegazione del NATO Defense College e ai numerosi gruppi di studenti e docenti.
A tutti auguro che il cammino quaresimale ci porti alla gioia della Pasqua con cuori purificati e rinnovati dalla grazia dello Spirito Santo.
Su voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace in Cristo nostro Redentore!]
Liebe Pilger deutscher Sprache, das Vorbild und Zeugnis des heiligen Paulus erfülle uns mit neuem Eifer für das Evangelium, damit wir wie der Völkerapostel den unergründlichen Reichtum Christi allen Völkern weiterschenken können.
[Cari pellegrini di lingua tedesca, l’esempio e la testimonianza di San Paolo ci riempiano di un rinnovato zelo per il Vangelo, affinché anche noi, come l’Apostolo delle Genti, possiamo trasmettere le imperscrutabili ricchezze di Cristo a tutte le genti.]
Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española.
Recemos por los migrantes que fallecieron ayer en un trágico incendio en Ciudad Juárez, México, para que el Señor los reciba en su Reino y dé consuelo a sus familias.
Recemos por ellos.
Saludo también a los jóvenes de Teruel.
Pidamos también al Señor que en este camino cuaresmal aumente en nosotros el “celo” por el Evangelio de Cristo, que nace de reconocernos “pecadores perdonados” y de acoger en nuestra vida la gracia del amor de Dios.
Que Jesús los bendiga a todos y la Virge los cuide.
Muchas gracias.
Dirijo uma cordial saudação aos peregrinos lusófonos, nomeadamente aos Professores brasileiros de Direitos Humanos e aos grupos portugueses de Alcobaça e Anadia bem como aos Colégios Cedros e Horizonte de Vila Nova de Gaia.
Agradeço a vossa presença e encorajo-vos a continuar a dar, com fé, o vosso testemunho cristão na sociedade.
Deixai-vos guiar pelo Espírito Santo, para crescerdes repletos dos seus frutos.
De bom grado vos abençoo a vós e aos vossos entes queridos.
[Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini lusofoni, in particolare ai Professori brasiliani di Diritti Umani e ai gruppi portoghesi di Alcobaça, Anadia nonché ai Collegi Cedros e Horizonte de Vila Nova de Gaia.
Nel ringraziarvi per la presenza, vi incoraggio a proseguire, con fede, la vostra testimonianza cristiana nella società.
Lasciatevi guidare dallo Spirito Santo per crescere ricolmi dei suoi frutti.
Volentieri benedico voi e i vostri cari!]
أُحَيِّي المؤمِنينَ الناطِقينَ باللغَةِ العربِيَّة.
يجبُ ألَّا ننسَى أبدًا الوقتَ والطَّريقَةَ الَّتي يدخلُ بِها اللهُ حياتَنا: علينا أنْ نحفظَ في القلبِ وفي الذِهنِ لقاءَنا الأوَّلِ معَ النِّعمَة،الَّتي يُغَيِّرُ اللهُ بِها حياتَنا، ويَضرِمُ الإيمانَ في قلوبِنا، ويَبعَثُ فينا الغَيرَةَ للإنجيل.
باركَكُم الرّبُّ جَميعًا وحَماكُم دائِمًا مِن كُلِّ شَرّ!
[Saluto i fedeli di lingua araba.
Non dobbiamo mai dimenticare il tempo e il modo in cui Dio entra nella nostra vita: tenere fisso nel cuore e nella mente quell’incontro con la grazia, quel primo incontro con la quale Dio cambia la nostra esistenza, accende nei nostri cuori la fede e innesca in noi lo zelo per il Vangelo.
Il Signore vi benedica tutti e vi protegga sempre da ogni male!]
Pozdrawiam serdecznie Polaków.
Już za kilka dni będziemy wsłuchiwać się w przejmujący opis Męki Pańskiej.
Niech słowo Boże obudzi w waszych sercach skruchę i otwartość na miłość Chrystusa, który do końca nas umiłował.
Porzucając starego człowieka, możecie z odnowioną gorliwością nieść Pana tym, którzy żyją wśród was.
Szczególnie, wspierajcie nadal waszych cierpiących braci i siostry w Ukrainy, w umęczonej Ukrainie.
Z serca wam błogosławię.
[Saluto cordialmente i pellegrini polacchi.
Tra pochi giorni ascolteremo una commovente descrizione della Passione di Cristo.
Questo racconto risvegli nei vostri cuori il pentimento e l'apertura all'amore di Cristo, che ci ha amato fino alla fine.
Abbandonando l'uomo vecchio, potete portare il Signore con rinnovato zelo a coloro che vivono in mezzo a voi.
In particolare, continuate a sostenere i vostri fratelli e sorelle sofferenti nell'Ucraina, nella martoriata Ucraina.
Vi benedico di cuore.]
* * *
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana.
In particolare, saluto i Vescovi e i sacerdoti che ricordano il 50° anniversario di Ordinazione presbiterale, l’Unità pastorale di Gioia Sannitica, La Croce Gialla di Montegranaro, la Cooperativa Emmanuel di Cavarzere.
Un saluto speciale ai tanti studenti qui presenti, che rendono vivace questa Udienza.
Il mio pensiero va infine, come di consueto ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli.
In questo tempo di Quaresima, auguro a ciascuno di voi di riscoprire e di testimoniare con gioia il dono della fede cristiana.
Perseveriamo nella preghiera e nella vicinanza alla martoriata Ucraina.
A tutti la mia benedizione.
Cari fratelli Vescovi,
Cari Formatori e Seminaristi, buongiorno!
Ringrazio la Conferenza Episcopale Calabra per aver voluto questo pellegrinaggio a Roma con i seminaristi e sono contento di accogliervi.
Grazie a S.E.
Mons.
Fortunato Morrone per le parole che mi ha rivolto.
Saluto i Rettori, i Padri spirituali e i Formatori e i Vescovi, si capisce: a voi è stato affidato un compito importante, che richiede la fatica quotidiana dell’accompagnamento e del discernimento; grazie per tutto il lavoro, a volte nascosto e sofferto, che fate per i seminaristi.
Grazie!
Anche se la vostra terra a volte sale alla ribalta della cronaca portando alla luce vecchie e nuove ferite, mi piace ricordare che siete figli dell’antica civiltà greca e ancora oggi custodite tesori culturali e spirituali che uniscono l’Oriente e l’Occidente.
Omero, nell’Odissea, narra che Ulisse, verso la fine del suo viaggio, approdò ad un lembo di terra da cui poté ammirare la bellezza di due mari.
Questo fa pensare alla vostra terra, gemma incastonata tra il Tirreno e lo Ionio.
Ed essa brilla anche come luogo di spiritualità, che annovera importanti Santuari, figure di santi e di eremiti, nonché la presenza della Comunità greco-bizantina.
Tuttavia, questo patrimonio religioso rischierebbe di restare solo un bel passato da ammirare, se non ci fosse ancora oggi, da parte vostra, un rinnovato impegno comune per promuovere l’evangelizzazione e la formazione sacerdotale.
Vorrei partire da una parola tratta dal Vangelo di Giovanni: «Rimasero con Lui» (Gv 1,39).
Si riferisce ai primi discepoli che seguono Gesù e ci ricorda che questo è il fondamento di tutto: rimanere con il Signore e mettere Lui a fondamento del nostro ministero; altrimenti cercheremo soprattutto noi stessi e, pur impegnandoci in cose apparentemente buone, sarà per riempire il vuoto che abbiamo dentro.
Così pregava un’illustre figura della vostra terra, il Servo di Dio Cassiodoro: «Precipitano in rovina tutte le cose che si allontanano dall’amore della tua maestà.
Amarti è salvarsi [...] l’averti perduto è morire» (Cassiodoro, De anima, XVIII).
Questa è la vostra vocazione: fare strada con il Signore, l’amore del Signore.
Stando attenti a non cadere nel carrierismo, che è una peste, è una delle forme di mondanità più brutte che possiamo avere, noi chierici, il carrierismo.
Vorrei però soffermarmi sulla domanda iniziale, che Gesù rivolge ai due discepoli quando si accorge che lo stanno seguendo: «Che cosa cercate?» (v.
38).
Noi a volte cerchiamo una “ricetta” facile, Gesù invece inizia con una domanda che ci invita a guardarci dentro, per verificare le ragioni del nostro cammino.
E oggi vorrei rivolgere a voi questa domanda.
Anzitutto ai seminaristi: che cosa cercate? Qual è il desiderio che vi ha spinto a uscire incontro al Signore e a seguirlo sulla via del sacerdozio? Cosa stai cercando in Seminario? E cosa cerchi nel sacerdozio? Dobbiamo chiedercelo, perché a volte succede che «dietro apparenze di religiosità e persino di amore alla Chiesa», in realtà cerchiamo «la gloria umana e il benessere personale» (Esort.
ap.
Evangelii gaudium, 93).
È molto triste quando trovi sacerdoti che sono funzionari, che hanno dimenticato l’essere pastori di popolo e si sono trasformati in chierici di Stato, come quelli delle corti francesi, “monsieur l’Abbé”, erano chierici di Stato.
È brutto quando si perde il senso sacerdotale.
Magari cerchiamo il ministero sacerdotale come un rifugio dietro cui nasconderci o un ruolo per avere prestigio, invece che desiderare di essere pastori con lo stesso cuore compassionevole e misericordioso di Cristo.
Ve lo chiedo con le stesse parole di uno dei vostri Annuari: volete essere sacerdoti clericali che non si sanno impastare con la creta dell’umanità sofferente, oppure essere come Gesù, segno della tenerezza del Padre? Ecco, ricordiamoci questo: il Seminario è il tempo in cui fare verità con noi stessi, lasciando cadere le maschere, i trucchi, le apparenze.
E in questo processo di discernimento, lasciarvi lavorare dal Signore, che farà di voi pastori secondo il suo cuore.
Perché il contrario è il mascherarsi, il truccarsi, l’apparire, che è proprio dei funzionari, non dei pastori di popolo ma dei chierici di Stato.
La domanda di Gesù, però, vorrei rivolgerla anche ai fratelli Vescovi: che cosa cercate? Che cosa desiderate per il futuro della vostra terra, quale Chiesa sognate? E quale figura di prete immaginate per il vostro popolo? Perché voi siete i responsabili della formazione di questi ragazzi: con quale figura li state formando? Questo discernimento è oggi più che mai necessario, perché nel tempo in cui è tramontata una certa cristianità del passato, si è aperta davanti a noi una nuova stagione ecclesiale, che ha richiesto e richiede ancora una riflessione anche sulla figura e sul ministero del prete.
Non possiamo più pensarlo come un pastore solitario, chiuso nel recinto parrocchiale o in gruppi di pastori chiusi; occorre unire le forze e mettere in comune le idee, i cuori, per affrontare alcune sfide pastorali che sono ormai trasversali a tutte le Chiese diocesane di una Regione.
Penso, per esempio, all’evangelizzazione dei giovani; ai percorsi di iniziazione cristiana; alla pietà popolare - voi avete una ricca pietà popolare -, che ha bisogno di scelte unitarie ispirate al Vangelo; ma penso anche alle esigenze della carità e alla promozione della cultura della legalità.
Quest’ultimo lo sottolineo: la cultura della legalità.
Come vanno i vostri tribunali? Come va l’esercizio della giustizia nella vostra diocesi?
Tutto ciò chiama a formare preti che, pur provenendo dai propri contesti di appartenenza, sappiano coltivare una visione comune del territorio e abbiano una formazione umana, spirituale e teologica unitaria.
Perciò, vorrei chiedere a voi Vescovi di fare una scelta chiara sulla formazione sacerdotale: orientare tutte le energie umane, spirituali e teologiche in un unico Seminario.
Dico unico.
Possono essere due ma sommati: orientare verso l’unità, con tutte le variabili che ci possono essere ma arrivare lì.
Questo non vuol dire annientare i seminari; vedete come fare questa unità.
Non si tratta di una scelta logistica o meramente numerica, ma finalizzata a maturare insieme una visione ecclesiale e un orizzonte della vita sacerdotale, invece che disperdere le forze moltiplicando i luoghi di formazione e tenendo in piedi piccole realtà con pochi seminaristi.
Un seminario di 4, 5, 10 non è un seminario, non si formano seminaristi; un seminario di 100 è anonimo, non forma i seminaristi… Ci vogliono piccole comunità, anche dentro un grande seminario, o un seminario a misura umana; che sia il riflesso del collegio presbiteriale.
È un discernimento non facile da fare, non facile.
Ma si deve fare e si devono prendere decisioni su questo.
Non sarà Roma a dirvi cosa dovete fare, perché il carisma lo avete voi.
Noi diamo le idee, gli orientamenti, i consigli, ma il carisma lo avete voi, lo Spirito Santo lo avete voi per questo.
Se Roma incominciasse a prendere le decisioni sarebbe uno schiaffo allo Spirito Santo, che lavora nelle Chiese particolari.
Questo processo si sta avviando in molte parti del mondo ed è naturale che vi sia qualche resistenza e qualche fatica nel compiere questo passo.
Ma ricordiamoci che l’attaccamento alla nostra storia e ai luoghi significativi della nostra tradizione non deve impedire alla novità dello Spirito di tracciare sentieri da percorrere, specialmente quando il cammino della Chiesa lo richiede.
Il Signore ci domanda l’atteggiamento della vigilanza, perché non ci succeda “come ai giorni di Noè”, quando la gente, tutta intenta alle cose di sempre, non si accorse che arrivava il diluvio (cfr Lc 17,26-27).
Abbiamo bisogno di occhi aperti e cuore attento per cogliere i segni dei tempi e guardare avanti! Raccomando a tutti, non solo ai vescovi, raccomando di discernere cosa vuole lo Spirito Santo per le vostre Chiese.
E questo lo devono fare i Vescovi – la decisione –, ma lo dovete fare tutti voi per dire ai Vescovi cosa sentite e come, le idee… È tutto il corpo della diocesi che deve aiutare il Vescovo in questo discernimento.
Poi lui si assume la responsabilità della decisione.
Lo dico, questo, specialmente a voi Vescovi, che sognate il bene della vostra terra e avete a cuore la formazione dei futuri preti: per favore, non lasciatevi paralizzare dalla nostalgia e non restate prigionieri dei provincialismi che fanno tanto male! E voi, Vescovi emeriti, non fate mancare nel silenzio e nella preghiera il vostro sostegno a questo processo.
Dico nel silenzio e nella preghiera perché, quando un Pastore ha concluso il proprio mandato, emerge il suo profilo spirituale e il modo in cui ha servito la Chiesa: si vede se ha imparato a congedarsi «spogliandosi … della pretesa di essere indispensabile» (Lett.
ap.
Imparare a congedarsi), oppure se continua a cercare spazi e a condizionare il cammino della diocesi.
Chi è emerito è chiamato a servire con gratitudine la Chiesa nel modo che si addice a questo suo stato.
Non è facile congedarsi; a tutti è richiesto uno sforzo per congedarsi.
Ho scritto una lettera sull’argomento che incominciava con queste parole: “Imparare a congedarsi”, senza tornare a ficcare il naso, imparare a congedarsi e mantenere quella presenza assente, quella presenza lontana, per cui si sa che l’Emerito è lì ma prega per la Chiesa, è vicino ma non entra nel gioco.
Non è facile.
È una grazia dello Spirito imparare a congedarsi.
Carissimi, proprio come oggi, il 27 marzo 1416, nasceva il vostro Santo Patrono, Francesco di Paola: è bello che siate qui proprio in questa data! Sul letto di morte egli disse ai suoi confratelli che non aveva alcun tesoro da lasciare e li esortò: «Amatevi l’un altro e fate tutte le vostre cose in carità».
Questo si aspetta da voi la Calabria: che tutto si faccia in carità, in unità, in fraternità.
E una cosa vorrei dire: state attenti ai tribunali, perché lì tante volte nasce la corruzione.
State attenti, state attenti ai tribunali.
E che ci sia un cambiamento anche nei tribunali.
Vi ringrazio per la vostra visita.
Siete una bella Comunità e vi incoraggio ad essere, per la vostra terra, lievito di Vangelo e segno vivo di speranza.
Camminate insieme, e la formazione sia in un unico Seminario, o in due o in tre, ma insieme, non isolati in piccoli gruppetti.
Questa parola “insieme” è il messaggio, come fare l’insieme vedete voi che siete su questa strada; però insieme, non isolati, non come tribù diverse, insieme, con la modalità che voi scegliete.
Siate coraggiosi in questa decisione, siate coraggiosi! Una cosa che a me colpisce qui a Roma, soprattutto quando devo andare in aeroporto, è passare davanti a quelle case di formazione che in un certo periodo – parlo degli anni ’60, ’70 –, il periodo in cui fiorivano le vocazioni, erano le grandi case di formazione: oggi sono tutte vuote.
È difficile.
Fate uno stile di formazione che sia vivo sempre e che non dipenda dall’esteriorità ma dalla forza dello Spirito Santo; e su questo prendete decisioni con coraggio, con coraggio.
Il Signore vi accompagnerà sempre.
Insieme, nella fraternità.
E andate avanti con fiducia e con gioia! La Madonna vi accompagni e vi custodisca.
La Madonna è madre, e le mamme sanno come fare, sanno meglio di noi.
Vi benedico tutti di cuore.
E per favore, non dimenticatevi di pregare per me, a favore, non contro! Grazie.
Cari amici!
Benvenuti a tutti voi, che siete riuniti a Roma per il vostro incontro annuale.
Esso convoca esperti del mondo della tecnologia – scienziati, ingegneri, dirigenti d’azienda, giuristi e filosofi – insieme con rappresentanti della Chiesa – officiali di Curia, teologi e moralisti –, con l’obiettivo di favorire maggiore consapevolezza e considerare l’impatto sociale e culturale delle tecnologie digitali, in particolare dell’intelligenza artificiale.
Apprezzo molto questo cammino di dialogo, che, negli ultimi anni, ha permesso di condividere contributi e intuizioni e di fare tesoro della saggezza degli altri.
La vostra presenza testimonia l’impegno a garantire un confronto serio e inclusivo a livello globale sull’impiego responsabile di queste tecnologie, un confronto aperto ai valori religiosi.
Sono convinto che il dialogo tra credenti e non credenti sulle questioni fondamentali dell’etica, della scienza e dell’arte, e sulla ricerca del significato della vita, sia una strada per la costruzione della pace e per lo sviluppo umano integrale.
La tecnologia è di grande aiuto per l’umanità.
Pensiamo agli innumerevoli progressi nei campi della medicina, dell’ingegneria e delle comunicazioni (cfr Enc.
Laudato si’, 102).
E mentre riconosciamo i benefici della scienza e della tecnica, vediamo in essi una prova della creatività dell’essere umano e anche della nobiltà della sua vocazione a partecipare responsabilmente all’azione creativa di Dio (cfr ibid., 131).
In questa prospettiva, ritengo che lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e dell’apprendimento automatico abbia il potenziale per dare un contributo benefico al futuro dell’umanità, non possiamo scartarlo.
Sono certo, però, che questo potenziale si realizzerà solo se ci sarà una volontà coerente da parte di coloro che sviluppano le tecnologie per agire in modo etico e responsabile.
Conforta in tal senso l’impegno di tanti che lavorano in questi campi per garantire che la tecnologia sia centrata sull’uomo, fondata su basi etiche nella progettazione e finalizzata al bene.
Mi rallegra che sia emerso un consenso perché i processi di sviluppo rispettino valori quali l’inclusione, la trasparenza, la sicurezza, l’equità, la riservatezza e l’affidabilità.
Accolgo con favore anche gli sforzi delle organizzazioni internazionali per regolamentare queste tecnologie, affinché promuovano un progresso autentico, cioè contribuiscano a lasciare un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore (cfr ibid., 194).
Non sarà facile raggiungere un accordo in queste aree.
Infatti, «l’immensa crescita tecnologica non è stata accompagnata da uno sviluppo dell’essere umano per quanto riguarda la responsabilità, i valori e la coscienza» (ibid., 105).
Inoltre, il mondo attuale è caratterizzato da una grande pluralità di sistemi politici, culture, tradizioni, concezioni filosofiche ed etiche e credenze religiose.
Le discussioni sono sempre più polarizzate e, in assenza di fiducia e di una visione condivisa di ciò che rende la vita degna, i dibattiti pubblici rischiano di essere polemici e inconcludenti.
Solo un dialogo inclusivo, in cui le persone cercano insieme la verità, può far emergere un vero consenso; e ciò può avvenire se si condivide la convinzione che «nella realtà stessa dell’essere umano e della società […] vi è una serie di strutture di base che sostengono il loro sviluppo e la loro sopravvivenza» (Enc.
Fratelli tutti, 212).
Il valore fondamentale che dobbiamo riconoscere e promuovere è quello della dignità della persona umana (cfr ibid., 213).
Vi invito, pertanto, nelle vostre deliberazioni, a fare della dignità intrinseca di ogni uomo e di ogni donna il criterio-chiave nella valutazione delle tecnologie emergenti, le quali rivelano la loro positività etica nella misura in cui aiutano a manifestare tale dignità e ad incrementarne l’espressione, a tutti i livelli della vita umana.
Mi preoccupa il fatto che i dati finora raccolti sembrano suggerire che le tecnologie digitali siano servite ad aumentare le disuguaglianze nel mondo.
Non solo le differenze di ricchezza materiale, che pure sono importanti, ma anche quelle di accesso all’influenza politica e sociale.
Ci chiediamo: le nostre istituzioni nazionali e internazionali sono in grado di ritenere le aziende tecnologiche responsabili dell’impatto sociale e culturale dei loro prodotti? C’è il rischio che l’aumento della disuguaglianza possa compromettere il nostro senso di solidarietà umana e sociale? Potremmo perdere il nostro senso di destino condiviso? In realtà, la nostra meta è che la crescita dell’innovazione scientifica e tecnologica si accompagni a una maggiore uguaglianza e inclusione sociale (cfr Videomessaggio alla Conferenza TED a Vancouver, 26 Aprile 2017).
Questo problema della disuguaglianza può essere aggravato da una falsa concezione della meritocrazia che mina la nozione di dignità umana.
Il riconoscimento e la ricompensa del merito e dello sforzo umano hanno un fondamento, ma c’è il rischio di concepire il vantaggio economico di pochi come guadagnato o meritato, mentre la povertà di tanti è vista, in un certo senso, come colpa loro.
Questo approccio sottovaluta le disuguaglianze di partenza tra le persone in termini di ricchezza, opportunità educative e legami sociali e tratta il privilegio e il vantaggio come conquiste personali.
Di conseguenza – in termini schematici – se la povertà è colpa dei poveri, i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa (cfr Discorso al mondo del lavoro, Genova, 27 maggio 2017).
Il concetto di dignità umana – questo è il centro – ci impone di riconoscere e rispettare il fatto che il valore fondamentale di una persona non può essere misurato da un complesso di dati.
Nei processi decisionali sociali ed economici, dobbiamo essere cauti nell’affidare i giudizi ad algoritmi che elaborano dati raccolti, spesso in modo surrettizio, sugli individui e sulle loro caratteristiche e sui loro comportamenti passati. Tali dati possono essere contaminati da pregiudizi e preconcetti sociali.
Tanto più che il comportamento passato di un individuo non dovrebbe essere usato per negargli l’opportunità di cambiare, di crescere e di contribuire alla società.
Non possiamo permettere che gli algoritmi limitino o condizionino il rispetto della dignità umana, né che escludano la compassione, la misericordia, il perdono e, soprattutto, l’apertura alla speranza di un cambiamento della persona.
Cari amici, concludo ribadendo la convinzione che solo forme di dialogo veramente inclusive possono permettere di discernere con saggezza come mettere l’intelligenza artificiale e le tecnologie digitali al servizio della famiglia umana.
La storia biblica della Torre di Babele (cfr Gen 11) è stata spesso utilizzata per mettere in guardia dalle ambizioni eccessive della scienza e della tecnologia.
In realtà, la Scrittura ci mette in guardia dall’orgoglio di voler “toccare il cielo” (v.
4), cioè afferrare e impadronirci dell’orizzonte di valori che identifica e garantisce la nostra dignità umana.
E sempre, quando c’è questo si finisce in una grave ingiustizia nella stessa società.
Nel mito della Torre di Babele, fare un mattone è difficile: fare il fango, la paglia, ammassare, poi cuocere… Quando un mattone cadeva era una perdita grande, si lamentavano tanto: “Abbiamo perso un mattone”.
Se cadeva un operaio, nessuno diceva nulla.
Questo ci deve far pensare: cosa è più importante? Il mattone o l’uomo o la donna che lavora? Questa è una distinzione che ci deve far pensare.
E dopo la Torre di Babele, la conseguente creazione di lingue diverse diventa, come ogni intervento di Dio, una nuova possibilità.
Essa ci invita a considerare la differenza e la diversità come una ricchezza, perché l’uniformità non lascia crescere, l’uniformità imposta.
Soltanto una certa uniformità disciplinare va bene - può darsi - ma quella imposta non vale.
La mancanza di diversità è mancanza di ricchezza, perché la diversità ci impone di imparare insieme gli uni dagli altri e di riscoprire con umiltà il senso autentico e la portata della nostra dignità umana.
Non dimentichiamo che le differenze stimolano la creatività, «creano tensione e nella risoluzione di una tensione consiste il progresso dell’umanità» (Enc.
Fratelli tutti, 203), quando le tensioni si risolvono su un piano superiore, che non annienta i poli in tensione ma li fa maturare.
Auguro ogni bene per i vostri dialoghi e vi ringrazio per il vostro impegno ad ascoltare e a crescere nella comprensione del contributo di ciascuno.
Vi benedico e vi chiedo per favore di pregare per me.
Grazie.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi, quinta domenica di Quaresima, il Vangelo ci presenta la risurrezione di Lazzaro (cfr Gv 11,1-45).
È l’ultimo dei miracoli di Gesù narrati prima della Pasqua: la risurrezione del suo amico Lazzaro.
Lazzaro è un caro amico di Gesù, il quale sa che sta per morire; si mette in cammino, ma arriva a casa sua quattro giorni dopo la sepoltura, quando ogni speranza è ormai perduta.
La sua presenza però riaccende un po’ di fiducia nel cuore delle sorelle Marta e Maria (cfr vv.
22.27).
Esse, pur nel dolore, si aggrappano a questa luce, a questa piccola speranza.
E Gesù le invita ad avere fede e chiede di aprire il sepolcro.
Poi prega il Padre e grida a Lazzaro: «Vieni fuori!» (v.
43).
E questi torna a vivere ed esce.
Questo è il miracolo, così, semplice.
Il messaggio è chiaro: Gesù dà la vita anche quando sembra non esserci più speranza.
Capita, a volte, di sentirsi senza speranza – a tutti è capitato questo –, oppure di incontrare persone che hanno smesso di sperare, amareggiate perché hanno vissuto cose brutte, il cuore ferito non può sperare.
Per una perdita dolorosa, una malattia, una delusione cocente, per un torto o un tradimento subito, per un grave errore commesso… hanno smesso di sperare.
A volte sentiamo qualcuno che dice: “Non c’è più niente da fare!”, e chiude la porta ad ogni speranza.
Sono momenti in cui la vita sembra un sepolcro chiuso: tutto è buio, intorno si vedono solo dolore e disperazione.
Il miracolo di oggi ci dice che non è così, la fine non è questa, che in questi momenti non siamo soli, anzi che proprio in questi momenti Lui si fa più che mai vicino per ridarci vita.
Gesù piange: il Vangelo dice che Gesù, davanti al sepolcro di Lazzaro ha pianto, e oggi Gesù piange con noi, come ha potuto piangere per Lazzaro: il Vangelo ripete due volte che si commosse (cfr vv.
33.38) e sottolinea che scoppiò in pianto (cfr v.
35).
E al tempo stesso Gesù ci invita a non smettere di credere e di sperare, a non lasciarci schiacciare dai sentimenti negativi, che ti tolgono il pianto.
Si avvicina ai nostri sepolcri e dice a noi, come allora: «Togliete la pietra» (v.
39).
In questi momenti noi abbiamo come una pietra dentro e l’unico capace di toglierla è Gesù, con la sua parola: “Togliete la pietra”.
Questo dice Gesù, anche a noi.
Togliete la pietra: il dolore, gli errori, anche i fallimenti, non nascondeteli dentro di voi, in una stanza buia e solitaria, chiusa.
Togliete la pietra: tirate fuori tutto quello che c’è dentro.
“Ah, mi dà vergogna”.
Gettatelo in me con fiducia, dice il Signore, io non mi scandalizzo; gettatelo in me senza timore, perché io sono con voi, vi voglio bene e desidero che torniate a vivere.
E, come a Lazzaro, ripete a ognuno di noi: Vieni fuori! Rialzati, riprendi il cammino, ritrova fiducia! Quante volte, nella vita, ci siamo trovati così, in questa situazione di non avere forza per rialzarci.
E Gesù: “Vai, vai avanti! Io sono con te”.
Ti prendo io per mano, dice Gesù, come quando da piccolo imparavi a fare i primi passi.
Caro fratello, cara sorella, togliti le bende che ti legano (cfr v.
45); per favore, non cedere al pessimismo che deprime, non cedere al timore che isola, non cedere allo scoraggiamento per il ricordo di brutte esperienze, non cedere alla paura che paralizza.
Gesù ci dice: “Io ti voglio libero, ti voglio vivo, non ti abbandono e sono con te! È tutto buio, ma io sono con te! Non lasciarti imprigionare dal dolore, non lasciar morire la speranza.
Fratello, sorella, ritorna a vivere!” – “E come faccio?” – “Prendimi per mano”, e Lui ci prende per mano.
Lasciati tirare fuori: e Lui è capace di farlo.
In questi momenti brutti che succedono a tutti noi.
Cari fratelli e sorelle, questo brano del capitolo 11 del Vangelo di Giovanni, che fa tanto bene leggere, è un inno alla vita, e lo si proclama quando la Pasqua è vicina.
Forse anche noi in questo momento portiamo nel cuore qualche peso o qualche sofferenza, che sembrano schiacciarci; qualche cosa brutta, qualche peccato vecchio che non riusciamo a tirare fuori, qualche errore di gioventù, non si sa mai.
Queste cose brutte devono uscire.
E Gesù dice: “Vieni fuori!”.
Allora è il momento di togliere la pietra e di uscire incontro a Gesù, che è vicino.
Riusciamo ad aprirgli il cuore e ad affidargli le nostre preoccupazioni? Lo facciamo? Riusciamo ad aprire il sepolcro dei problemi, siamo capaci, e a guardare oltre la soglia, verso la sua luce, o abbiamo paura di questo? E a nostra volta, come piccoli specchi dell’amore di Dio, riusciamo a illuminare gli ambienti in cui viviamo con parole e gesti di vita? Testimoniamo la speranza e la gioia di Gesù? Noi, peccatori, tutti? E anche, vorrei dire una parola ai confessori: cari fratelli, non dimenticatevi che anche voi siete peccatori, e siete nel confessionale non per torturare, per perdonare, e perdonare tutto, come il Signore perdona tutto.
Maria, Madre della speranza, rinnovi in noi la gioia di non sentirci soli e la chiamata a portare luce nel buio che ci circonda.
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Dopo l'Angelus
Cari fratelli e sorelle!
Ieri, solennità dell’Annunciazione, abbiamo rinnovato la consacrazione al Cuore Immacolato di Maria, nella certezza che solo la conversione dei cuori può aprire la strada che conduce alla pace.
Continuiamo a pregare per il martoriato popolo ucraino.
E restiamo vicini anche ai terremotati della Turchia e della Siria.
A loro è destinata la speciale raccolta di offerte che si svolge oggi in tutte le parrocchie d’Italia.
Preghiamo anche per la popolazione dello Stato del Mississippi, colpite da un devastante tornado.
Saluto tutti voi, romani e pellegrini di tanti Paesi, in particolare quelli di Madrid e di Pamplona e i messicani; come pure i peruviani, rinnovando la preghiera per la riconciliazione e la pace nel Perù.
Dobbiamo pregare per il Perù, che sta soffrendo tanto.
Saluto i fedeli di Zollino, Rieti, Azzano Mella e Capriano del Colle, Bellizzi, Crotone e Castelnovo Monti con l’Unitalsi; e saluto i cresimandi di Pavia, Melendugno, Cavaion e Sega, Settignano e Prato; i ragazzi di Ganzanigo, Acilia e Longi; e l’Associazione Amici del Crocifisso delle Marche.
Rivolgo un saluto speciale alla delegazione dell’Aeronautica Militare Italiana, che celebra il centenario di fondazione.
Formulo i miei auguri per questa ricorrenza e vi incoraggio ad operare sempre per la costruzione della giustizia e della pace.
Prego per tutti voi e fatelo per me.
E a tutti auguro una buona domenica.
Buon pranzo e arrivederci.
«Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte» (Mt 5, 14).
Nostro Signore Gesù Cristo chiama ogni fedele ad essere esempio luminoso di virtù, integrità e santità.
Tutti noi, infatti, siamo chiamati a dare testimonianza concreta della fede in Cristo nella nostra vita e, in particolare, nel nostro rapporto con il prossimo.
I crimini di abuso sessuale offendono Nostro Signore, causano danni fisici, psicologici e spirituali alle vittime e ledono la comunità dei fedeli.
Affinché tali fenomeni, in tutte le loro forme, non avvengano più, serve una conversione continua e profonda dei cuori, attestata da azioni concrete ed efficaci che coinvolgano tutti nella Chiesa, così che la santità personale e l’impegno morale possano concorrere a promuovere la piena credibilità dell’annuncio evangelico e l’efficacia della missione della Chiesa.
Questo diventa possibile solo con la grazia dello Spirito Santo effuso nei cuori, perché sempre dobbiamo ricordare le parole di Gesù: «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15, 5).
Anche se tanto già è stato fatto, dobbiamo continuare ad imparare dalle amare lezioni del passato, per guardare con speranza verso il futuro.
Questa responsabilità ricade, anzitutto, sui successori degli Apostoli, preposti da Dio alla guida pastorale del Suo Popolo, ed esige da loro l’impegno nel seguire da vicino le tracce del Divino Maestro.
In ragione del loro ministero, infatti, essi reggono «le Chiese particolari a loro affidate come vicari e legati di Cristo, col consiglio, la persuasione, l’esempio, ma anche con l’autorità e la sacra potestà, della quale però non si servono se non per edificare il proprio gregge nella verità e nella santità, ricordandosi che chi è più grande si deve fare come il più piccolo, e chi è il capo, come chi serve» (Conc.
Ecum.
Vat.
II, Cost.
Lumen gentium, 27).
Quanto in maniera più stringente riguarda i successori degli Apostoli, concerne tutti coloro che in diversi modi assumono ministeri nella Chiesa, professano i consigli evangelici o sono chiamati a servire il Popolo cristiano.
Pertanto, è bene che siano adottate a livello universale procedure volte a prevenire e contrastare questi crimini che tradiscono la fiducia dei fedeli.
A tal fine il 7 maggio 2019 ho promulgato una lettera apostolica in forma di Motu Proprio contenente norme ad experimentum per un triennio.
Ora, trascorso il tempo stabilito,
considerate le osservazioni pervenute dalle Conferenze Episcopali e dai Dicasteri della Curia Romana, valutata l’esperienza di questi anni, per favorire una migliore applicazione di quanto stabilito,
fermo restando quanto previsto dal Codice di Diritto Canonico e dal Codice dei Canoni delle Chiese Orientali in materia penale e processuale,
dispongo:
TITOLO I
DISPOSIZIONI GENERALI
Art.
1 – Ambito di applicazione
§ 1. Le presenti norme si applicano in caso di segnalazioni relative a chierici, a membri di Istituti di vita consacrata o di Società di vita apostolica e ai moderatori delle associazioni internazionali di fedeli riconosciute o erette dalla Sede Apostolica concernenti:
a)
* un delitto contro il VI comandamento del decalogo commesso con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, o nel costringere qualcuno a realizzare o subire atti sessuali;
** un delitto contro il VI comandamento del decalogo commesso con un minore o con persona che abitualmente ha un uso imperfetto della ragione o con un adulto vulnerabile;
*** l’immorale acquisto, conservazione, esibizione o divulgazione, in qualsiasi modo e con qualunque strumento, di immagini pornografiche di minori o di persone che abitualmente hanno un uso imperfetto della ragione;
**** il reclutamento o l’induzione di un minore o di persona che abitualmente ha un uso imperfetto della ragione o di un adulto vulnerabile a mostrarsi pornograficamente o a partecipare ad esibizioni pornografiche reali o simulate;
b) condotte poste in essere dai soggetti di cui all’articolo 6, consistenti in azioni od omissioni dirette a interferire o ad eludere le indagini civili o le indagini canoniche, amministrative o penali, nei confronti di uno dei soggetti i cui nel precedente § 1 in merito ai delitti di cui alla lettera a) del presente paragrafo.
§ 2. Agli effetti delle presenti norme, si intende per:
a) «minore»: ogni persona avente un’età inferiore a diciott’anni; al minore è equiparata la persona abitualmente con uso imperfetto della ragione;
b) «adulto vulnerabile»: ogni persona in stato d’infermità, di deficienza fisica o psichica, o di privazione della libertà personale che di fatto, anche occasionalmente, ne limiti la capacità di intendere o di volere o comunque di resistere all’offesa;
c) «materiale di pornografia minorile»: qualsiasi rappresentazione di un minore, indipendentemente dal mezzo utilizzato, coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate, e qualsiasi rappresentazione di organi sessuali di minori a scopi di libidine o di lucro.
Art.
2 – Ricezione delle segnalazioni e protezione dei dati
§ 1. Tenendo conto delle indicazioni eventualmente adottate dalle rispettive Conferenze Episcopali, dai Sinodi dei Vescovi delle Chiese Patriarcali e delle Chiese Arcivescovili Maggiori, o dai Consigli dei Gerarchi delle Chiese Metropolitane sui iuris, le Diocesi o le Eparchie, singolarmente o insieme, devono essere fornite di organismi o uffici facilmente accessibili al pubblico per la recezione delle segnalazioni.
A tali organismi o uffici ecclesiastici vanno presentate le segnalazioni.
§ 2. Le informazioni di cui al presente articolo sono tutelate e trattate in modo da garantirne la sicurezza, l’integrità e la riservatezza ai sensi dei canoni 471, 2° CIC e 244 § 2, 2° CCEO.
§ 3. Salvo quanto stabilito dall’articolo 3 § 3, l’Ordinario che ha ricevuto la segnalazione la trasmette senza indugio all’Ordinario del luogo dove sarebbero avvenuti i fatti, nonché all’Ordinario proprio della persona segnalata.
Salvo diversa intesa tra i due Ordinari, è compito dell’Ordinario del luogo dove sarebbero avvenuti i fatti procedere a norma del diritto secondo quanto previsto per il caso specifico.
§ 4. Agli effetti del presente titolo, alle Diocesi sono equiparate le Eparchie e all’Ordinario è equiparato il Gerarca.
Art.
3 – Segnalazione
§ 1. Salvo nel caso di conoscenza della notizia da parte di un chierico nell’esercizio del ministero in foro interno, ogni qualvolta un chierico o un membro di un Istituto di vita consacrata o di una Società di vita apostolica abbia notizia o fondati motivi per ritenere che sia stato commesso uno dei fatti di cui all’articolo 1, ha l’obbligo di segnalarlo tempestivamente all’Ordinario del luogo dove sarebbero accaduti i fatti o ad un altro Ordinario tra quelli di cui ai canoni 134 CIC e 984 CCEO, salvo quanto stabilito dal § 3 del presente articolo.
§ 2. Chiunque, in particolare i fedeli laici che ricoprono uffici o esercitano ministeri nella Chiesa, può presentare una segnalazione concernente uno dei fatti di cui all’articolo 1, avvalendosi delle modalità di cui all’articolo precedente o in qualsiasi altro modo adeguato.
§ 3. Quando la segnalazione riguarda una delle persone indicate all’articolo 6, essa è indirizzata all’Autorità individuata in base agli articoli 8 e 9.
La segnalazione può sempre essere indirizzata al competente Dicastero, direttamente o tramite il Rappresentante Pontificio.
Nel primo caso il Dicastero informa il Rappresentante Pontificio.
§ 4. La segnalazione deve contenere gli elementi più circostanziati possibili, come indicazioni di tempo e di luogo dei fatti, delle persone coinvolte o informate, nonché ogni altra circostanza che possa essere utile al fine di assicurare un’accurata valutazione dei fatti.
§ 5. Le notizie possono essere acquisite anche ex officio.
Art.
4 – Tutela di chi presenta la segnalazione
§ 1. L’effettuare una segnalazione a norma dell’articolo 3 non costituisce una violazione del segreto d’ufficio.
§ 2. Salvo quanto previsto al canone 1390 CIC e ai canoni 1452 e 1454 CCEO, pregiudizi, ritorsioni o discriminazioni per aver presentato una segnalazione sono proibiti e possono integrare la condotta di cui all’articolo 1 § 1, lettera b).
§ 3. A chi effettua una segnalazione, alla persona che afferma di essere stata offesa e ai testimoni non può essere imposto alcun vincolo di silenzio riguardo al contenuto di essa, fermo restando quanto disposto dall’art.
5 § 2.
Art.
5 – Cura delle persone
§ 1. Le Autorità ecclesiastiche si impegnano affinché coloro che affermano di essere stati offesi, insieme con le loro famiglie, siano trattati con dignità e rispetto, e offrono loro, in particolare:
a) accoglienza, ascolto e accompagnamento, anche tramite specifici servizi;
b) assistenza spirituale;
c) assistenza medica, terapeutica e psicologica, a seconda del caso specifico.
§ 2. Devono comunque essere salvaguardate la legittima tutela della buona fama e la sfera privata di tutte le persone coinvolte, nonché la riservatezza dei dati personali.
Alle persone segnalate si applica la presunzione di cui all’art.
13 § 7, fermo restando quanto previsto dall’art.
20.
TITOLO II
DISPOSIZIONI CONCERNENTI I VESCOVI ED EQUIPARATI
Art.
6 – Ambito soggettivo di applicazione
Le norme procedurali di cui al presente titolo riguardano i delitti e le condotte di cui all’articolo 1, poste in essere da
a) Cardinali, Patriarchi, Vescovi e Legati del Romano Pontefice;
b) chierici che sono o che sono stati preposti alla guida pastorale di una Chiesa particolare o di un’entità ad essa assimilata, latina od orientale, ivi inclusi gli Ordinariati personali, per i fatti commessi durante munere;
c) chierici che sono o che sono stati preposti alla guida pastorale di una Prelatura personale, per i fatti commessi durante munere;
d) chierici che sono o sono stati alla guida di un’associazione pubblica clericale con facoltà di incardinare, per i fatti commessi durante munere;
e) coloro che sono o sono stati Moderatori supremi di Istituti di vita consacrata o di Società di vita apostolica di diritto pontificio, nonché di Monasteri sui iuris, per i fatti commessi durante munere;
f) fedeli laici che sono o sono stati Moderatori di associazioni internazionali di fedeli riconosciute o erette dalla Sede Apostolica, per i fatti commessi durante munere.
Art.
7 – Dicastero competente
§ 1. Ai fini del presente titolo, per «Dicastero competente» si intende il Dicastero per la Dottrina della Fede, circa i delitti ad esso riservati dalle norme vigenti, nonché, in tutti gli altri casi e per quanto di rispettiva competenza in base alla legge propria della Curia Romana:
– il Dicastero per le Chiese Orientali;
– il Dicastero per i Vescovi;
– il Dicastero per l’Evangelizzazione;
– il Dicastero per il Clero;
– il Dicastero per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica.
– il Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita.
§ 2. Al fine di assicurare il migliore coordinamento, il Dicastero competente informa della segnalazione e dell’esito dell’indagine la Segreteria di Stato e gli altri Dicasteri direttamente interessati.
§ 3. Le comunicazioni di cui al presente titolo tra il Metropolita e la Santa Sede avvengono tramite il Rappresentante Pontificio.
Art.
8 – Procedura applicabile in caso di segnalazione riguardante un Vescovo della Chiesa Latina e altri soggetti di cui all’art.
6
§ 1. L’Autorità che riceve una segnalazione la trasmette sia al Dicastero competente sia al Metropolita della Provincia ecclesiastica in cui ha il domicilio la persona segnalata.
§ 2. Qualora la segnalazione riguardi il Metropolita, o la Sede Metropolitana sia vacante, essa è inoltrata alla Santa Sede, nonché al Vescovo suffraganeo più anziano per promozione al quale, in questo caso, si applicano le disposizioni seguenti relative al Metropolita.
Ugualmente alla Santa Sede è inoltrata la segnalazione riguardante coloro che sono alla guida pastorale di circoscrizioni ecclesiastiche immediatamente soggette alla stessa Santa Sede.
§ 3. Nel caso in cui la segnalazione riguardi un Legato Pontificio, essa è trasmessa direttamente alla Segreteria di Stato.
Art.
9 – Procedura applicabile nei confronti di Vescovi delle Chiese Orientali e altri soggetti di cui all’art.
6
§ 1. Nel caso di segnalazione nei confronti di un Vescovo, o di un soggetto equiparato, di una Chiesa Patriarcale, Arcivescovile Maggiore o Metropolitana sui iuris, essa è inoltrata al rispettivo Patriarca, Arcivescovo Maggiore o Metropolita della Chiesa sui iuris.
§ 2. Qualora la segnalazione riguardi un Metropolita di una Chiesa Patriarcale o Arcivescovile Maggiore, che esercita il suo ufficio entro il territorio di queste Chiese, essa è inoltrata al rispettivo Patriarca o Arcivescovo Maggiore.
§ 3. Nei casi che precedono, l’Autorità che ha ricevuto la segnalazione la inoltra anche al Dicastero per le Chiese Orientali.
§ 4. Qualora la persona segnalata sia un Vescovo o un Metropolita fuori dal territorio della Chiesa Patriarcale, Arcivescovile Maggiore o Metropolitana sui iuris, la segnalazione è inoltrata al Dicastero per le Chiese Orientali che, se lo ritiene opportuno, informa il Patriarca, l’Arcivescovo Maggiore o il Metropolita sui iuris competente.
§ 5. Nel caso in cui la segnalazione riguardi un Patriarca, un Arcivescovo Maggiore, un Metropolita di una Chiesa sui iuris o un Vescovo delle altre Chiese Orientali sui iuris, essa è inoltrata al Dicastero per le Chiese Orientali.
§ 6. Le disposizioni seguenti relative al Metropolita si applicano all’Autorità ecclesiastica cui è inoltrata la segnalazione in base al presente articolo.
Art.
10 – Procedura applicabile nei confronti dei Moderatori Supremi di Istituti di vita consacrata o di Società di vita apostolica
Nel caso la segnalazione riguardi coloro che sono o sono stati Moderatori Supremi di Istituti di vita consacrata o di Società di vita apostolica di diritto pontificio, nonché di monasteri sui iuris presenti in Urbe e nelle Diocesi suburbicarie, essa è inoltrata al Dicastero competente.
Art.
11 – Doveri iniziali del Metropolita
§ 1. Il Metropolita che riceve la segnalazione chiede senza indugio al Dicastero competente l’incarico per avviare l’indagine.
§ 2. Il Dicastero provvede prontamente e comunque entro trenta giorni dal ricevimento della prima segnalazione da parte del Rappresentante Pontificio o della richiesta dell’incarico da parte del Metropolita, a fornire le opportune istruzioni riguardo a come procedere nel caso concreto.
§ 3. Qualora il Metropolita ritenga la segnalazione manifestamente infondata, tramite il Rappresentante Pontificio, ne informa il competente Dicastero e salvo diversa disposizione di quest’ultimo, ne dispone l’archiviazione.
Art.
12 – Affidamento dell’indagine a persona diversa dal Metropolita
§ 1. Qualora il Dicastero competente, sentito il Rappresentante Pontificio, ritenga opportuno affidare l’indagine ad una persona diversa dal Metropolita, questi viene informato.
Il Metropolita consegna tutte le informazioni e i documenti rilevanti alla persona incaricata dal Dicastero.
§ 2. Nel caso di cui al paragrafo precedente, le disposizioni seguenti relative al Metropolita si applicano alla persona incaricata di condurre l’indagine.
Art.
13 – Svolgimento dell’indagine
§ 1. Il Metropolita, una volta ottenuto l’incarico dal Dicastero competente e nel rispetto delle istruzioni ricevute sul modo di procedere, personalmente o tramite una o più persone idonee:
a) raccoglie le informazioni rilevanti in merito ai fatti;
b) accede alle informazioni e ai documenti necessari ai fini dell’indagine custoditi negli archivi degli uffici ecclesiastici;
c) ottiene la collaborazione di altri Ordinari o Gerarchi, laddove necessario;
d) chiede informazioni, se lo ritiene opportuno e nel rispetto di quanto stabilito nel successivo § 7, alle persone e alle istituzioni, anche civili, che siano in grado di fornire elementi utili per l’indagine.
§ 2. Qualora si renda necessario sentire un minore o un adulto vulnerabile, il Metropolita adotta modalità adeguate, che tengano conto della loro condizione e delle leggi dello Stato.
§ 3. Nel caso in cui esistano fondati motivi per ritenere che informazioni o documenti concernenti l’indagine possano essere sottratti o distrutti, il Metropolita adotta le misure necessarie per la loro conservazione.
§ 4. Anche quando si avvale di altre persone, il Metropolita resta comunque responsabile della direzione e dello svolgimento delle indagini, nonché della puntuale esecuzione delle istruzioni di cui all’articolo 11 § 2.
§ 5. Il Metropolita è assistito da un notaio scelto liberamente a norma dei canoni 483 § 2 CIC e 253 § 2 CCEO.
§ 6. Il Metropolita è tenuto ad agire con imparzialità e privo di conflitti di interessi.
Qualora egli ritenga di trovarsi in conflitto di interessi o di non essere in grado di mantenere la necessaria imparzialità per garantire l’integrità dell’indagine, è obbligato ad astenersi e a segnalare la circostanza al Dicastero competente.
Ugualmente è tenuto a rivolgersi al Dicastero competente chiunque ritenga esserci nel caso detto conflitto d’interesse.
§ 7. Alla persona indagata è sempre riconosciuta la presunzione di innocenza e la legittima tutela della sua buona fama.
§ 8. Il Metropolita, qualora richiesto dal Dicastero competente, informa la persona dell’indagine a suo carico, la sente sui fatti e la invita a presentare una memoria difensiva.
In tali casi, la persona indagata può avvalersi di un procuratore.
§ 9. Periodicamente, secondo le indicazioni ricevute, il Metropolita trasmette al Dicastero competente un’informativa sullo stato delle indagini.
Art.
14 – Coinvolgimento di persone qualificate
§ 1. In conformità con le eventuali direttive della Conferenza Episcopale, del Sinodo dei Vescovi o del Consiglio dei Gerarchi sul modo di coadiuvare nelle indagini il Metropolita, è molto conveniente che i Vescovi della rispettiva Provincia, singolarmente o insieme, stabiliscano elenchi di persone qualificate tra le quali il Metropolita può scegliere quelle più idonee ad assisterlo nell’indagine, secondo le necessità del caso e, in particolare, tenendo conto della cooperazione che può essere offerta dai laici ai sensi dei canoni 228 CIC e 408 CCEO.
§ 2. Il Metropolita è comunque libero di scegliere altre persone ugualmente qualificate.
§ 3. Chiunque assista il Metropolita nell’indagine è tenuto ad agire con imparzialità e privo di conflitti di interessi.
Qualora egli ritenga di trovarsi in conflitto di interessi o di non essere in grado di mantenere la necessaria imparzialità per garantire l’integrità dell’indagine, è obbligato ad astenersi e a segnalare la circostanza al Metropolita.
§ 4. Le persone che assistono il Metropolita prestano giuramento di adempiere convenientemente e fedelmente l’incarico, nel rispetto di quanto previsto dall’art.
13 § 7.
Art.
15 – Durata dell’indagine
§ 1. Le indagini devono essere concluse entro breve tempo e comunque entro quello indicato nelle istruzioni di cui all’articolo 11 § 2.
§ 2. In presenza di giusti motivi e dopo aver trasmesso un’informativa sullo stato delle indagini, il Metropolita può chiedere la proroga del termine al Dicastero competente.
Art.
16 – Misure cautelari
Qualora i fatti o le circostanze lo richiedano, il Metropolita propone al Dicastero competente l’adozione di provvedimenti o di misure cautelari appropriate nei confronti dell’indagato.
Il Dicastero adotta i provvedimenti, sentito il Rappresentante pontificio.
Art.
17 – Istituzione di un fondo
§ 1. Le Province ecclesiastiche, le Conferenze Episcopali, i Sinodi dei Vescovi e i Consigli dei Gerarchi possono stabilire un fondo destinato a sostenere i costi delle indagini, istituito a norma dei canoni 116 e 1303 § 1, 1° CIC e 1047 CCEO, e amministrato secondo le norme del diritto canonico.
§ 2. Su richiesta del Metropolita incaricato, i fondi necessari ai fini dell’indagine sono messi a sua disposizione dall’amministratore del fondo, salvo il dovere di presentare a quest’ultimo un rendiconto al termine dell’indagine.
Art.
18 – Trasmissione degli atti e del votum
§ 1. Completata l’indagine, il Metropolita trasmette l’originale degli atti al Dicastero competente insieme al proprio votum sui risultati dell’indagine e in risposta agli eventuali quesiti posti nelle istruzioni cui all’articolo 11 § 2.
Copia degli atti viene conservata presso l’Archivio del Rappresentante Pontificio competente.
§ 2. Salvo istruzioni successive del Dicastero competente, le facoltà del Metropolita cessano una volta completata l’indagine.
§ 3. Nel rispetto delle istruzioni del Dicastero competente, il Metropolita, su richiesta, informa dell’esito dell’indagine la persona che afferma di essere stata offesa e, nel caso, la persona che ha fatto la segnalazione o i loro rappresentanti legali.
Art.
19 – Successivi provvedimenti
Il Dicastero competente, salvo che decida di disporre un’indagine suppletiva, procede a norma del diritto secondo quanto previsto per il caso specifico.
Art.
20 – Osservanza delle leggi statali
Le presenti norme si applicano senza pregiudizio dei diritti e degli obblighi stabiliti in ogni luogo dalle leggi statali, particolarmente quelli riguardanti eventuali obblighi di segnalazione alle autorità civili competenti.
Stabilisco che la presente Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio venga promulgata mediante la pubblicazione su L’Osservatore Romano, entrando in vigore il 30 aprile 2023, e che venga poi pubblicata negli Acta Apostolicae Sedis.
Con la sua entrata in vigore viene abrogata la precedente Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio promulgata il 7 maggio 2019.
Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 25 marzo dell’anno 2023, Solennità dell’Annunciazione del Signore, undicesimo del Pontificato.
FRANCESCO
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Saluto tutti voi e in particolare Mons.
Michele Di Tolve, il vostro Parroco, che conosco da tanti anni e che ringrazio per le sue parole.
L’ho conosciuto appena nominato cardinale: ero andato a visitare una mia cugina e lei mi ha parlato di un vice-parroco eccezionale che avevano lì, “guarda, lavora quel prete!” – “Ah sì? Fammelo conoscere, ma non dirgli che sono un cardinale” – “No, non lo dirò”.
Mi sono tolto l’anello, siamo arrivati in oratorio e lui andava da una parte all’altra, si muoveva come un ballerino con tutti… Così l’ho conosciuto.
E così è rimasto per tutta la vita: uno che sa muoversi, non aspetta che le pecore vengano a cercarlo.
E come rettore del seminario ha fatto tanto bene, ai ragazzi che si preparano al sacerdozio, tanto bene.
Adesso, come parroco, fa tanto bene e per questo vorrei davanti a tutti voi dare testimonianza e ringraziare per quello che sta facendo: grazie, grazie!
Tempo fa dissi a don Michele che desideravo conoscervi, e oggi voi mi avete accontentato: grazie di essere venuti! La scorsa estate, chiamando Monsignor Michele al telefono durante le vostre vacanze comunitarie, ho potuto salutare anche alcuni del gruppo e ho sentito la gioia e l’entusiasmo del vostro stare insieme.
Oggi siete venuti numerosi, e so che avete fatto anche qualche sacrificio per poterci essere tutti e per non escludere nessuno.
Rappresentate tante realtà diverse delle vostre Parrocchie e portate con voi, nel cuore, i fratelli e le sorelle che per vari motivi non sono potuti venire, grazie! Raggruppate generazioni, provenienze, servizi e doni differenti e complementari, e questo è bellissimo.
La Chiesa è questo! La Chiesa infatti è un corpo composto di tante membra, tutte al servizio le une delle altre e tutte animate dallo stesso amore: quello di Cristo (cfr 1 Cor 12,12).
E quando la Chiesa non è così, cade nella mondanità, cade nel clericalismo che è una cosa bruttissima.
Ricordatevi sempre che è con la bellezza e la ricchezza di questa varietà e di questa comunione che voi portate Gesù al mondo: è questo il mezzo più potente con cui annunciate il Vangelo, prima ancora delle parole!
Alcuni dei gruppi presenti quest’anno festeggiano un anniversario speciale.
Ringraziamo insieme il Signore, di cui siamo tutti umili servitori, per il bene che ha compiuto e che continua a compiere attraverso di noi, e rinnoviamo il nostro impegno ad essere generosi nel dono di noi stessi e docili alla sua volontà.
Mons.
Michele, nel suo saluto, ha ricordato tra l’altro proprio le parole che ho pronunciato dieci anni fa, il 13 marzo 2013.
Appena eletto Vescovo di Roma, affacciandomi per la prima volta alla loggia della Basilica di San Pietro, dicevo: «Incominciamo questo cammino insieme: Vescovo e popolo […].
Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi».
È il desiderio che mi ha accompagnato per tutti questi anni, ed è l’augurio che faccio anche a voi, con il vostro vescovo.
Io sono il vescovo di Roma, ma voi ne avete un altro.
Avanti!
Vi esorto a camminare insieme come fratelli e sorelle, perché la fratellanza rende le persone più libere e felici.
Il mondo non finisce con noi stessi, per favore! La comunità non si fa davanti allo specchio, io e lo specchio, no! Scopriamo veramente il mondo solo quando camminiamo insieme con gli altri, giorno per giorno.
Per questo è importante la Parrocchia: perché è il luogo in cui, alla sequela di Gesù, ci si incontra, ci si conosce, ci si arricchisce gli uni gli altri, persone di diverse generazioni e diverse condizioni culturali e sociali, tutti con qualcosa di unico da dare e da ricevere.
Vediamo nelle nostre città cosa succede quando ci si dimentica di questo: l’orizzonte si restringe e si diventa tutti più soli.
Camminare insieme, camminare con amore.
L’amore tra voi sia sempre al primo posto (cfr 1 Cor 13,1-13; Enc.
Attraverso le attività formative, la Scuola dell’Infanzia, i gruppi, le attività dell’Oratorio, l’attenzione ai poveri e agli ultimi, alle persone anziane e sole, ai fidanzati e alle giovani famiglie, attraverso la banda musicale e le attività sportive, voi preparate il terreno, a volte un po’ arido e duro, per seminare amore e trasformare il territorio in cui vivete in una campagna rigogliosa, ricca dei frutti buoni del Vangelo.
In particolare, amare significa “allargare la cerchia”, costruendo unità nella fiducia e nell’accoglienza, lavorando insieme e cercando sempre i punti in comune e le occasioni per fare comunità, piuttosto che i motivi di divisione (cfr Fratelli tutti, 97).
Rispettare le differenze.
Sapete, io sono stato parroco per sei anni, e quella esperienza la porto nel cuore.
A me piaceva la Messa con i bambini… Pensate che in quel quartiere ce n’erano tanti, e alla Messa domenicale dei bambini ce n’erano 200, 280 – in quei quartieri, le famiglie hanno quattro-cinque bambini –, e sempre incominciavo a interloquire con loro.
Una volta – era Pentecoste – dicevo: “Oggi è Pentecoste!”.
I bambini rispondevano: “Sì, padre, sì”.
“Insomma, è lo Spirito Santo… Chi di voi sa chi è lo Spirito Santo?”.
E alcuni alzavano le mani.
“Va bene, tu!” – “Il paralitico!”.
“Cosa hai detto?” – “Il paralitico” – “Quello che va sulla sedia a rotelle?” – “Sì!”- “No, caro, è il Paraclito, è un’altra cosa!”.
Ma era bello.
Un’altra volta, ho parlato di non chiacchierare perché le chiacchiere fanno male, e le persone che chiacchierano fanno male.
“Ah! – dice subito un bambino – come la signora Tale e Tale!”.
I bambini sono spontanei, la Messa con i bambini è una cosa bellissima: portatela avanti sempre.
La Parrocchia è un luogo benedetto, dove si va per sentirsi amati.
Chi bussa alla porta delle nostre chiese e dei nostri ambienti cerca spesso prima di tutto un sorriso accogliente, cerca braccia e mani aperte, occhi desiderosi di incontro e carichi di affetto.
In una Parrocchia, tu bussi alla porta e, se non è l’ora, ti dicono: “Vattene, è finito l’orario”.
Una volta, un parroco mi diceva: “Ho voglia di chiudere con mattoni le finestre” – “Ma sei pazzo?” – “No, perché la gente viene e se non ricevo alla porta, bussano alle finestre”.
La gente non si stanca di chiedere e di chiamare, e noi non dobbiamo stancarci di aprire le porte e le finestre.
Se tu sei prete, è per questo; se tu sei nel circolo della Parrocchia, è per questo: per aprire porte, per aprire finestre, per ricevere sempre con un sorriso.
E non dire “non è ora”.
Apertura totale: braccia e mani aperte, occhi desiderosi di incontro e carichi di affetto.
Questa è la pastorale di una parrocchia.In Parrocchia ciascuno porta anche il proprio fardello, per poterlo condividere con qualcun altro e alleggerirne il peso, ma anche per condividere le cose buone che contiene!
Sì, c’è un nemico grande, nelle Parrocchie, come dappertutto: il chiacchiericcio.
State attenti, non lasciate entrare il chiacchiericcio.
Il chiacchiericcio uccide.
E non sparlare gli uni degli altri.
Se a te non piace questo, non ti piace questa, mangiati il tuo giudizio, ma non condividerlo per rovinare l’altro.
“Eh, Padre, è così facile chiacchierare…”.
Sì, è facile, è vero.
Ma c’è una medicina molto buona contro il chiacchiericcio, non so se voi la conoscete, ma è buona, è una medicina buona.
Se a te viene voglia di chiacchierare, morditi la lingua! Si gonfierà la lingua e non potrai parlare.
Morditi la lingua prima di chiacchierare.
Niente chiacchiericcio, per favore, quello è una peste che rovina le parrocchie, rovina le famiglie e tante cose…
Cari fratelli e sorelle, le vostre Parrocchie si trovano in un luogo ricco di spiritualità, caratterizzato da una storia di Chiesa generosa e feconda.
Partecipate della grande e vivace eredità pastorale ambrosiana e vivete all’ombra dell’antico Santuario dell’Addolorata di Rho, voluto da San Carlo Borromeo poco prima della sua morte, luogo di devozione e meta di pellegrinaggi ieri come oggi.
Vi ringrazio perché, con la vostra fede e il vostro amore fraterno, mantenete viva questa eredità, così che non smetta di crescere.
Ci saranno tante difficoltà, ci saranno tante lotte interne, tante invidie, ma insieme bisogna reggere, perché questo non distrugga la bella storia parrocchiale che voi avete.
Andate avanti! Voi anziani, voi adulti trasmettete ai giovani il testimone che a vostra volta avete ricevuto dalle generazioni che vi hanno preceduto; e lo date arricchito del vostro impegno e della vostra testimonianza.
E voi giovani, non abbiate paura a parlare con i vecchi! Vai a parlare, a discutere, vai ad ascoltare i vecchi, perché ti daranno forza, prendendo dalla loro storia, perché tu possa andare avanti, tu che sei giovane adesso.
Questo non significa guardare sempre indietro, no.
Tu vai dai vecchi, parla, ma guarda avanti, all’orizzonte.
È importante che i giovani incontrino i vecchi e parlino con i vecchi.
E grazie ancora di questa visita, che si doveva fare due anni fa, credo, ed è stata rimandata.
Che i Santi Pietro e Paolo vi rafforzino nella fede, nella speranza e nella carità.
E che la Madonna vi custodisca e vi accompagni sempre.
Vi benedico tutti di cuore.
E vi raccomando, non dimenticatevi di pregare per me.
Grazie!
Grazie per la visita! Davanti a voi, non so cosa dire.
Il silenzio è compassionevole.
Perdere il marito, il papà in un incidente come questo, è brutto.
E anche il fatto che alcuni sono sepolti lì, nelle miniere… Non vorrei dire parole, soltanto dirvi che vi sono vicino, tanto vicino, con la vicinanza del cuore, e prego con voi in questa situazione così difficile e brutta.
La preghiera a volte, in questi momenti… sembra che Dio non ci ascolti.
C’è il silenzio dei morti e il silenzio di Dio.
E questo silenzio alle volte ci dà rabbia.
Non abbiate paura: quella rabbia è una preghiera.
È uno dei “perché?”, che continuamente in queste situazioni ripetiamo.
E la risposta è: “Nell’oscurità il Signore ci è vicino.
Non sappiamo come, ma ci è vicino”.
Anch’io faccio la preghiera in silenzio e vi do la mia benedizione.
Poi vi saluterò personalmente.
[silenzio per la preghiera personale]
[Benedizione]
Cari fratelli, buongiorno, benvenuti!
Grazie che siete venuti in occasione dell’annuale Corso sul foro interno, organizzato dalla Penitenzieria Apostolica, giunto alla XXXIII edizione.
Ringrazio il Cardinale Mauro Piacenza, Penitenziere Maggiore, lo ringrazio per le sue cortesi parole e per quello che fa; lo stesso dico al Reggente Mons.
Nykiel, che lavora tanto, ai Prelati, agli Officiali e al Personale della Penitenzieria – grazie a tutti! –, ai Collegi dei penitenzieri delle Basiliche Papali e a tutti voi partecipanti al corso.
Da ormai oltre tre decadi la Penitenzieria Apostolica offre questo importante e valido momento di formazione, per contribuire alla preparazione di buoni confessori, pienamente consapevoli dell’importanza del ministero a servizio dei penitenti.
Rinnovo alla Penitenzieria la mia gratitudine e il mio incoraggiamento a proseguire in questo impegno formativo, che fa tanto bene alla Chiesa perché aiuta a far circolare nelle sue vene la linfa della misericordia.
È bene sottolinearlo.
Il Cardinale lo ha ripetuto tanto: la linfa della misericordia.
Se qualcuno non se la sente di essere un datore di misericordia che si riceve da Gesù, non vada al confessionale.
In una delle Basiliche papali, per esempio, ho detto al Cardinale: “C’è uno che sente e rimprovera, rimprovera e poi ti dà una penitenza che non si può fare…”.
Per favore, questo non va: no.
Misericordia: tu stai lì per perdonare e per donare una parola affinché la persona possa andare avanti rinnovata dal perdono.
Tu stai lì per perdonare: questo mettitelo nel cuore.
L’Esortazione apostolica Evangelii gaudium dice che la Chiesa in uscita «vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva» (n.
24).
Esiste dunque un legame inscindibile tra la vocazione missionaria della Chiesa e l’offerta della misericordia a tutti gli uomini.
Vivendo di misericordia e offrendola a tutti, la Chiesa realizza sé stessa e compie la propria azione apostolica e missionaria.
Potremmo quasi affermare che la misericordia è inclusa nelle “note” caratteristiche della Chiesa, in particolare fa risplendere la santità e l’apostolicità.
Da sempre la Chiesa, con stili differenti nelle varie epoche, ha espresso questa sua “identità di misericordia”, rivolta sia al corpo sia all’anima, desiderando, con il suo Signore, la salvezza integrale della persona.
E l’opera della misericordia divina viene così a coincidere con la stessa azione missionaria della Chiesa, con l’evangelizzazione, perché in essa traspare il volto di Dio così come Gesù ce lo ha mostrato.
Per questa ragione non è possibile, specialmente in questo tempo di Quaresima, lasciare che venga meno l’attenzione all’esercizio della carità pastorale, che si esprime in modo concreto ed eminente proprio nella piena disponibilità dei sacerdoti, senza alcuna riserva, all’esercizio del ministero della riconciliazione.
La disponibilità del confessore si manifesta in alcuni atteggiamenti evangelici.
Anzitutto nell’accogliere tutti senza pregiudizi, perché solo Dio sa che cosa può operare la grazia nei cuori, in qualunque momento; poi nell’ascoltare i fratelli con l’orecchio del cuore, ferito come il cuore di Cristo; nell’assolvere i penitenti, dispensando con generosità il perdono di Dio; nell’accompagnare il percorso penitenziale, senza forzature, mantenendo il passo dei fedeli, con pazienza e preghiera costanti.
Pensiamo a Gesù, che davanti alla donna adultera sceglie di rimanere in silenzio, per salvarla dalla condanna a morte (cfr Gv 8,6); così anche il sacerdote nel confessionale ami il silenzio, sia magnanimo di cuore, sapendo che ogni penitente lo richiama alla sua stessa condizione personale: essere peccatore e ministro di misericordia.
Questa è la vostra verità; se qualcuno non si sente peccatore, per favore, che non vada al confessionale: peccatore e ministro di misericordia stanno insieme.
Questa consapevolezza farà sì che i confessionali non restino abbandonati e che i sacerdoti non manchino di disponibilità.
La missione evangelizzatrice della Chiesa passa in buona parte dalla riscoperta del dono della Confessione, anche in vista dell’ormai prossimo Giubileo del 2025.
Penso ai piani pastorali delle Chiese particolari, nei quali non dovrebbe mai mancare un giusto spazio per il servizio della Riconciliazione sacramentale.
In particolare, penso al penitenziere in ogni cattedrale, ai penitenzieri dei santuari; penso soprattutto alla presenza regolare di un confessore, con ampio orario, in ogni zona pastorale, così come nelle chiese servite da comunità di religiosi, che ci sia sempre il penitenziere di turno.
Sempre, mai confessionali vuoti! “Ma – potresti dire – la gente non viene!”: leggi qualcosa, prega; ma aspetta, arriverà.
Se la misericordia è la missione della Chiesa, ed è la missione della Chiesa, dobbiamo facilitare il più possibile l’accesso dei fedeli a questo “incontro d’amore”, curandolo fin dalla prima Confessione dei bambini ed estendendo tale attenzione ai luoghi di cura e di sofferenza.
Quando non si può più fare molto per risanare il corpo, sempre molto si può e si deve fare per la salute dell’anima! In tal senso, la Confessione individuale rappresenta la strada privilegiata da percorrere, perché favorisce l’incontro personale con la Divina Misericordia, che ogni cuore pentito attende.
Ogni cuore pentito attende la misericordia.
Nella Confessione individuale, Dio vuole accarezzare personalmente, con la sua misericordia, ogni singolo peccatore: il Pastore, solo Lui, conosce e ama le pecore ad una ad una, specialmente le più deboli e ferite.
E le celebrazioni comunitarie siano valorizzate in alcune occasioni, senza rinunciare alle Confessioni individuali come forma ordinaria della celebrazione del sacramento.
Nel mondo, lo vediamo purtroppo ogni giorno, non mancano i focolai di odio e di vendetta.
Noi confessori dobbiamo moltiplicare allora i “focolai di misericordia”.
Non dimentichiamo che siamo in una lotta soprannaturale, una lotta che appare particolarmente virulenta nel nostro tempo, anche se conosciamo già l’esito finale della vittoria di Cristo sulle potenze del male.
La lotta, però, c’è ancora e la vittoria si attua realmente ogni volta che un penitente viene assolto.
Nulla allontana e sconfigge di più il male della divina misericordia.
E su questo io vorrei dirvi una cosa: Gesù ci ha insegnato che mai si dialoga con il diavolo, mai! Alla tentazione nel deserto Lui ha risposto con la Parola di Dio, ma non è entrato in dialogo.
Nel confessionale state attenti: mai dialogare con il “male”, mai; si offre ciò che è giusto per il perdono e si apre qualche porta per aiutare ad andare avanti, ma mai fare lo psichiatra o lo psicanalista; per favore, non si entri in queste cose! Se qualcuno di voi ha questa vocazione, la eserciti altrove, ma non nel tribunale della penitenza.
Questo è un dialogo che non è conveniente fare nel momento della misericordia.
Lì tu devi soltanto pensare a perdonare e a come “arrangiarti” per far entrare nel perdono: “Tu sei pentito?” – “No” – “Ma non ti pesa questo?” – “No” – “Ma almeno tu avresti voglia di essere pentito?” – “Magari”.
C’è una porta, sempre va cercata la porta per entrare con il perdono.
E quando non si può entrare per la porta, si entra per la finestra: però sempre bisogna cercare di entrare con il perdono.
Con un perdono magnanimo; “che sia l’ultima volta, la prossima non ti perdono”: no, questo non va.
Oggi tocca a me, alle tre viene il confessore da me! E un’altra cosa: pensare che Dio perdona in abbondanza.
Ho detto questa cosa l’anno scorso, ma voglio ripeterla: c’è stato uno spettacolo di alcuni anni fa sul figliol prodigo, ambientato nella cultura attuale, dove il giovane racconta le sue avventure e come si è allontano dalla casa.
E alla fine parla con un amico, al quale dice che sente nostalgia del papà e vuole tornare a casa.
E l’amico gli consiglia di scrivere al papà, domandandogli se vuole riceverlo di nuovo e chiedendo, in caso affermativo, di mettere un fazzoletto bianco a una finestra della casa: sarà il segnale che sarà ricevuto.
Lo spettacolo continua e, quando il giovane si avvicina alla casa, la vede piena di fazzoletti bianchi.
Il messaggio è questo: l’abbondanza.
Dio non dice: “Soltanto questo…”; dice: “Tutto!”.
È ingenuo Dio? Non so se è ingenuo, ma è abbondante: perdona sempre di più, sempre! Ho conosciuto bravi confessori e sempre il bravo confessore sa arrivare lì.
Cari fratelli, so che domani, al termine del Corso, avrete una celebrazione penitenziale.
Questo è buono e significativo: accogliere e celebrare in prima persona il dono che siamo chiamati a portare ai fratelli e alle sorelle; sperimentare la tenerezza dell’amore misericordioso di Dio.
Lui non si stanca mai di dimostrarci il suo cuore misericordioso.
Lui non si stanca mai di perdonare.
Siamo noi a stancarci di chiedere perdono, ma Lui non si stanca mai.
Vi accompagno con la preghiera e ringrazio la Penitenzieria per il lavoro che indefessamente svolge a favore del Sacramento del Perdono.
E vi invito a riscoprire, approfondire teologicamente e diffondere pastoralmente – anche in vista del Giubileo – quel naturale ampliamento della misericordia che sono le indulgenze, secondo la volontà del Padre celeste di averci sempre e solo con sé, sia in questa vita sia nella vita eterna.
Grazie per il vostro quotidiano impegno e per i fiumi di misericordia che, come umili canali, riversate e riverserete nel mondo, per spegnere gli incendi del male e accendere il fuoco dello Spirito Santo.
Vi benedico tutti di cuore.
E vi chiedo, per favore, di pregare per me.
Grazie!
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Sono lieto di accogliervi al termine del vostro Convegno sull’attualità della proposta morale alfonsiana e alla vigilia del 75° anniversario di fondazione del vostro Istituto Pontificio, che celebrerete il 9 febbraio del prossimo anno.
Ringrazio il Preside per le sue parole e saluto il Moderatore Generale, il Rettore dell’Università Lateranense, i docenti, gli ufficiali e gli studenti, grato per il servizio formativo che offrite alla Chiesa nell’ambito della teologia morale.
Vorrei salutare anche i numerosi Professori Emeriti, che con il loro lavoro hanno lasciato un’impronta nell’Alfonsiana e nella Chiesa, e i tanti ex studenti che si sono formati con voi e continuano a dare il loro contributo nel Popolo di Dio.
Grazie per questo prezioso servizio di formazione!
Il Concilio Vaticano II afferma che la teologia morale, nutrita della Sacra Scrittura, deve aiutare i fedeli a comprendere la grandezza della loro vocazione di portare nel mondo la carità di Cristo (cfr Decr.
Optatam totius, 16).
Ogni proposta teologico-morale ha in ultima analisi questo fondamento: è l’amore di Dio la nostra guida, la guida delle nostre scelte personali e del nostro cammino esistenziale.
Di conseguenza, teologi moralisti, missionari e confessori sono chiamati ad entrare in un rapporto vivo con il Popolo di Dio, facendosi carico specialmente del grido degli ultimi, per comprenderne le difficoltà reali, per guardare all’esistenza dalla loro angolazione e per offrire loro risposte che riflettano la luce dell’amore eterno del Padre [1].
Fedeli alla tradizione alfonsiana, voi cercate di offrire una proposta di vita cristiana che, nel rispetto delle esigenze della riflessione teologica, non sia però una morale fredda, una morale da scrivania, direi una morale “casistica”.
Lo dico per esperienza, perché purtroppo io ho studiato una morale “casistica” in quel tempo.
Pensate che a noi era vietato leggere il primo libro di Häring, La legge di Cristo: “E’ eretico, non si può leggere!”.
E ho studiato con quella morale: “Peccato mortale se mancano due candele sull’altare, veniale se ne manca una sola”.
E tutta la casistica così, lo dico umilmente.
Grazie a Dio questo è passato, era una morale fredda da scrivania.
A voi si chiede una proposta che risponda ad un discernimento pastorale carico di amore misericordioso, rivolto a comprendere, perdonare, accompagnare e soprattutto integrare (cfr Esort.
ap.
postsin.
Amoris laetitia, 312).
Essere ecclesiale suppone questo: integrare.
In coerenza con l’opera di Sant’Alfonso [2], avete iniziato il vostro Convegno riflettendo sulla coscienza e sul dinamismo della sua formazione.
Questo è un tema importante.
Infatti, nel complesso e rapido cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, solo persone dotate di una coscienza matura saranno in grado di esercitare, nella società, un sano protagonismo evangelico a servizio dei fratelli.
La coscienza, del resto, è anzitutto il luogo in cui ogni uomo «è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità» (Cost.
past.
Gaudium et spes, 16).
La parola che essa dice non è sua, ma viene dalla Parola stessa del Creatore, che si è fatta carne per stare con gli uomini [3].
Ed è alla sua scuola, alla scuola del Verbo Incarnato, che ciascuno impara a dialogare con gli altri, coltivando l’aspirazione a una fraternità universale, radicata nel riconoscimento della dignità inviolabile di ogni persona (cfr Enc.
Fratelli tutti, 8; Gaudium et spes, 16).
Vi siete soffermati anche su alcune questioni di bioetica.
In questo campo complesso vi invito a coltivare la pazienza dell’ascolto e del confronto, come raccomanda Sant’Alfonso per le situazioni conflittuali.
Non avere paura di ascoltare.
Essa sarà fondamentale per la ricerca di soluzioni comuni, che riconoscano e garantiscano il rispetto della sacralità di ogni vita, in ogni condizione.
Un arricchimento decisivo verrà poi a questo ascolto dall’adozione di metodi di ricerca transdisciplinari (cfr Cost.
ap.
Veritatis gaudium, 4c), che permettano di accostarsi a sfide nuove con maggiore competenza e capacità critica, alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana (cfr Gaudium et spes, 46).
Solo così si potranno elaborare, in campo bioetico, argomenti ragionevoli e solidi, radicati nella fede, adatti a coscienze adulte e responsabili e capaci di ispirare il dibattito socio-politico.
Occorre rifuggire da dinamiche estremistiche di polarizzazione, tipiche più del dibattito mediatico che di una sana e fertile ricerca scientifica e teologica: applicate piuttosto il principio, sempre indicato da S.
Alfonso, della “via media”, che non è un equilibrio diplomatico, no, la via media è creativa, nasce da una creatività e crea.
Soltanto chi ha studiato e chi si è esercitato in questa può capirlo.
Non si tratta di equilibrio? No, non è questa la via media.
La proposta bioetica dev’essere attenta ai drammi reali delle persone, che spesso si trovano confuse di fronte ai dilemmi morali della vita [4].
Per questo vi raccomando di rendere accessibili i frutti del vostro lavoro usando il “linguaggio del popolo” ed elaborando proposte di vita morale praticabili e umanizzanti.
“Il linguaggio del popolo”.
Mi raccomando, non dimenticatevi del santo popolo fedele di Dio! Ma non a livello di pensiero, ma a partire dalle tue radici che stanno nel santo popolo di Dio; non dimenticare che tu sei stato preso dal gregge, tu sei di loro, non dimenticare l’aria del popolo, il pensiero del popolo, il sentire del popolo.
E questo non è comunismo, socialismo, no! Questo è il santo popolo fedele di Dio che è infallibile “in credendo”: non dimenticare questo, lo dice il Vaticano I e poi il Vaticano II.
Per stare sempre dalla parte dell’essere umano concreto, usate gli strumenti della riflessione etica per costruire argini solidi, che lo difendano dalla mentalità dilagante dell’efficientismo e dello scarto (cfr Enc.
Laudato si’, 130-136).
Il terzo ambito del vostro convegno ha trattato questioni di morale sociale.
Anche in questo ambito c’è bisogno oggi di una solida riflessione.
La crisi ambientale, la transizione ecologica, la guerra, un sistema finanziario capace di condizionare la vita delle persone fino a creare nuovi schiavi, la sfida di costruire fratellanza tra le persone e tra i popoli: questi temi devono stimolarci alla ricerca e al dialogo.
«Il Signore è il fine della storia» (Gaudium et spes, 45) e il genere umano, rinnovato in Cristo, è destinato a crescere come famiglia di Dio (cfr ibid., 40).
Questa è la meta del nostro lavoro! Cerchiamo allora di entrare con umiltà e sapienza nel tessuto complesso della società in cui viviamo, per conoscerne bene le dinamiche e proporre agli uomini e alle donne del nostro tempo cammini adeguati di maturazione in questa direzione (cfr Gaudium et spes, 26).
E parlo di cammino, cammini adeguati, non soluzioni matematiche, cammini adeguati.
I problemi si risolvono camminando ecclesialmente come popolo di Dio.
E camminare con le persone nello stato morale in cui stanno.
Camminare con loro e cercare una via per risolvere i loro problemi, ma camminare, non seduti come dottori che con il dito alzato condannano senza preoccuparsi.
Negli ultimi anni abbiamo affrontato questioni morali gravi come le migrazioni e la pedofilia; oggi vediamo l’urgenza di aggiungerne altre, come i profitti concentrati nelle mani di pochi e la divisione dei poteri globali.
Accogliamo anche queste sfide con fiducia, pronti a «rendere ragione della speranza che è in noi» (cfr 1 Pt 3,14).
In conclusione, dalla Pontificia Accademia Alfonsiana la Chiesa si attende che sappia conciliare rigore scientifico e vicinanza al santo Popolo fedele di Dio, che dia risposte concrete a problemi reali, che accompagni e che formuli proposte morali umane, attente alla Verità salvifica e al bene delle persone.
Sant’Alfonso è stato un creatore della vita morale e ha fatto delle proposte… “Ma è un grande teologo”.
Sì ma era capace – in questi giorni ho ascoltato i canti che voi mi avete regalato a Natale – era capace anche di scrivere quelle cose! Come si spiega? Questa è la strada, questa è la bellezza dell’anima, la delicatezza, questa è l’appartenenza al popolo di Dio che mai va negoziata, mai.
Lo Spirito Santo vi aiuti ad essere formatori di coscienze, maestri di quella speranza che apre il cuore e conduce a Dio.
Vi benedico di cuore, vi ringrazio tanto per il vostro lavoro, e vi chiedo, per favore, di pregare per me.
Grazie.
[1] Cfr Messaggio di per il 150° anniversario della proclamazione di Sant’Alfonso a Dottore della Chiesa, 23 marzo 2021
[2] Cfr specialmente Alfondo Maria de’ Liguori, Trattato sulla coscienza.
[3] Cfr B.
Häring, Liberi e fedeli in Cristo, I, 1994, 268.
[4] Cfr Discorso ai docenti e studenti dell’Alfonsianum, 9 febbraio 2019.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno, benvenuti!
Ringrazio il neo-Presidente e gli auguro ogni bene per il suo servizio.
Al Cardinale Hollerich va la mia sentita riconoscenza.
Lui mai si ferma, mai si ferma! E saluto tutti voi e vi ringrazio per il vostro lavoro, impegnativo anche appassionante, se non ci si arena nella burocrazia e si tiene lo sguardo alto sull’orizzonte, sui valori ispiratori del progetto-Europa.
Per questo oggi vorrei brevemente soffermarmi con voi su due punti focali, che corrispondono ai due grandi “sogni” dei padri fondatori dell’Europa: il sogno dell’unità e il sogno della pace.
L’unità.
Su questo primo punto è decisivo precisare che quella europea non può essere un’unità uniforme, che omologa, ma al contrario dev’essere un’unità che rispetta e valorizza le singolarità, le peculiarità dei popoli e delle culture che la compongono.
Pensiamo ai padri fondatori: appartenevano a Paesi diversi e a culture differenti: De Gasperi e Spinelli italiani, Monnet e Schuman francesi, Adenauer tedesco, Spaak belga, Beck lussemburghese, per ricordare i principali.
La ricchezza dell’Europa sta nella convergenza delle diverse fonti di pensiero e di esperienze storiche.
Come un fiume vive dei suoi affluenti.
Se gli affluenti vengono indeboliti o bloccati, tutto il fiume ne risente e perde forza.
L’originalità degli affluenti.
Bisogna rispettare questo: l’originalità di ogni Paese.
Questa è la prima idea su cui richiamo la vostra attenzione: l’Europa ha futuro se è veramente unione e non riduzione dei Paesi con le rispettive caratteristiche.
La sfida è proprio questa: l’unità nella diversità.
Ed è possibile se c’è una forte ispirazione; altrimenti prevale l’apparato, prevale il paradigma tecnocratico, che però non è fecondo perché non appassiona la gente, non attira le nuove generazioni, non coinvolge le forze vive della società nella costruzione di un progetto comune.
Ci domandiamo: qual è il ruolo dell’ispirazione cristiana in questa sfida? Non c’è dubbio che nella fase originaria essa ha giocato una parte fondamentale, perché era nei cuori e nelle menti degli uomini e delle donne che hanno iniziato l’impresa.
Oggi molto è cambiato, certo, ma rimane sempre vero che sono gli uomini e le donne a fare la differenza.
Perciò il primo compito della Chiesa in questo campo è quello di formare persone che, leggendo i segni dei tempi, sappiano interpretare il progetto Europa nella storia di oggi.
E qui veniamo al secondo punto: la pace.
La storia di oggi ha bisogno di uomini e donne animati dal sogno di un’Europa unita al servizio della pace.
Dopo la seconda guerra mondiale, l’Europa ha vissuto il più lungo periodo di pace della sua storia.
Nel mondo però si sono susseguite diverse guerre.
Nei decenni scorsi alcune guerre si sono trascinate per anni, fino ad oggi, tanto che si può parlare ormai di una terza guerra mondiale.
La guerra in Ucraina è vicina, e ha scosso la pace europea.
Le nazioni confinanti si sono prodigate nell’accoglienza dei profughi; tutti i popoli europei partecipano all’impegno di solidarietà con il popolo ucraino.
A questa corale risposta sul piano della carità dovrebbe corrispondere – ma è chiaro che non è facile né scontato – un impegno coeso per la pace.
Questa sfida è molto complessa, perché i Paesi dell’Unione Europea sono coinvolti in molteplici alleanze, interessi, strategie, una serie di forze che è difficile far convergere in un unico progetto.
Tuttavia, un principio dovrebbe essere condiviso da tutti con chiarezza e determinazione: la guerra non può e non deve più essere considerata come una soluzione dei conflitti (cfr Enc.
Fratelli tutti, 258).
Se i Paesi dell’Europa di oggi non condividono questo principio etico-politico, allora vuol dire che si sono allontanati dal sogno originario.
Se invece lo condividono, devono impegnarsi ad attuarlo, con tutta la fatica e la complessità che la situazione storica richiede.
Perché «la guerra è un fallimento della politica e dell’umanità» (ibid., 261).
Questo dobbiamo ripeterlo ai politici.
Anche su questa sfida della pace la COMECE può e deve dare il suo contributo valoriale e professionale.
Voi siete per natura un “ponte” tra le Chiese in Europa e le istituzioni dell’Unione.
Siete per missione costruttori di relazioni, di incontro, di dialogo.
E questo è già lavorare per la pace.
Ma non basta.
Ci vuole anche profezia, ci vuole lungimiranza, ci vuole creatività per far avanzare la causa della pace.
In questo cantiere ci vogliono sia architetti sia artigiani; ma direi che il vero costruttore di pace dev’essere sia architetto sia artigiano: così è il vero costruttore di pace.
Lo auguro anche ad ognuno di voi, ben sapendo che ciascuno ha i propri carismi personali che concorrono con quelli degli altri al lavoro comune.
Carissimi, vi esprimo di nuovo la mia gratitudine e vi assicuro che prego per voi e prego per il vostro servizio.
Oggi mi sono soffermato su questi due punti focali, particolarmente urgenti, ma vi incoraggio a portare avanti come sempre anche il vostro lavoro sul versante ecclesiale.
La Madonna vi custodisca e vi sostenga.
Di cuore benedico tutti voi, e vi chiedo per favore di pregare per me.
Grazie.
Catechesi.
La passione per l’evangelizzazione: lo zelo apostolico del credente.
8. La prima via di evangelizzazione: la testimonianza (cfr Evangelii nuntiandi)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi ci mettiamo in ascolto della “magna carta” dell’evangelizzazione nel mondo contemporaneo: l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di San Paolo VI (EN, 8 dicembre 1975).
È attuale, è stata scritta nel 1975, ma è come se fosse scritta ieri.
L’evangelizzazione è più che una semplice trasmissione dottrinale e morale.
È prima di tutto testimonianza: non si può evangelizzare senza testimonianza; testimonianza dell’incontro personale con Gesù Cristo, Verbo Incarnato nel quale la salvezza si è compiuta.
Una testimonianza indispensabile perché, anzitutto, il mondo ha bisogno di «evangelizzatori che gli parlino di un Dio che essi conoscano e che sia loro familiare» (EN, 76).
Non è trasmettere un’ideologia o una “dottrina” su Dio, no.
È trasmettere Dio che si fa vita in me: questo è testimonianza; e inoltre perché «l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, […] o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (ibid., 41).
La testimonianza di Cristo, dunque, è al tempo stesso il primo mezzo dell’evangelizzazione (cfr ibid.) e condizione essenziale per la sua efficacia (cfr ibid., 76), perché sia fruttuoso l’annuncio del Vangelo.
Essere testimoni.
Occorre ricordare che la testimonianza comprende anche la fede professata, cioè l’adesione convinta e manifesta a Dio Padre e Figlio e Spirito Santo, che per amore ci ha creati, ci ha redenti.
Una fede che ci trasforma, che trasforma le nostre relazioni, i criteri e i valori che determinano le nostre scelte.
La testimonianza, pertanto, non può prescindere dalla coerenza tra ciò che si crede e ciò che si annuncia e ciò che si vive.
Non si è credibili soltanto dicendo una dottrina o un’ideologia, no.
Una persona è credibile se ha armonia tra quello che crede e quello che vive.
Tanti cristiani soltanto dicono di credere, ma vivono di un’altra cosa, come se non lo fossero.
E questa è ipocrisia.
Il contrario della testimonianza è l’ipocrisia.
Quante volte abbiamo sentito “ah, questo che va a Messa tutte le domeniche, e poi vive così, così, così, così”: è vero, è la contro-testimonianza.
Ognuno di noi è chiamato a rispondere a tre domande fondamentali, così formulate da Paolo VI: “Credi a quello che annunci? Vivi quello che credi? Annunci quello che vivi?” (cfr ibid.).
C’è un’armonia: credi a quello che annunci? Tu vivi quello che credi? Tu annunci quello che vivi? Non ci possiamo accontentare di risposte facili, preconfezionate.
Siamo chiamati ad accettare il rischio anche destabilizzante della ricerca, confidando pienamente nell’azione dello Spirito Santo che opera in ciascuno di noi, spingendoci ad andare sempre oltre: oltre i nostri confini, oltre le nostre barriere, oltre i nostri limiti, di qualsiasi genere.
In questo senso, la testimonianza di una vita cristiana comporta un cammino di santità, basato sul Battesimo, che ci rende «partecipi della natura divina, e perciò realmente santi» (Cost.
dogm.
Lumen gentium, 40).
Una santità che non è riservata a pochi; che è dono di Dio e richiede di essere accolto e fatto fruttificare per noi e per gli altri.
Noi scelti e amati da Dio, dobbiamo portare questo amore agli altri.
Paolo VI insegna che lo zelo per l’evangelizzazione scaturisce dalla santità, scaturisce dal cuore che è pieno di Dio.
Alimentata dalla preghiera e soprattutto dall’amore per l’Eucaristia, l’evangelizzazione a sua volta fa crescere in santità la gente che la compie (cfr EN, 76).
Al contempo, senza la santità la parola dell’evangelizzatore «difficilmente si aprirà la strada nel cuore dell’uomo del nostro tempo», ma «rischia di essere vana e infeconda» (ibid.).
Allora, dobbiamo essere consapevoli che destinatari dell’evangelizzazione non sono soltanto gli altri, coloro che professano altre fedi o che non ne professano, ma anche noi stessi, credenti in Cristo e membra attive del Popolo di Dio.
E dobbiamo convertirci ogni giorno, accogliere la parola di Dio e cambiare vita: ogni giorno.
E così si fa l’evangelizzazione del cuore.
Per dare questa testimonianza, anche la Chiesa in quanto tale deve cominciare con l’evangelizzare sé stessa.
Se la Chiesa non evangelizza sé stessa rimane un pezzo da museo.
Invece, quello che la aggiorna continuamente è l’evangelizzazione di sé stessa.
Ha bisogno di ascoltare di continuo ciò che deve credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell’amore.
La Chiesa, che è un Popolo di Dio immerso nel mondo, e spesso tentato dagli idoli – tanti –, ha sempre bisogno di sentir proclamare le opere di Dio.
Ciò vuol dire, in una parola, che essa ha sempre bisogno d’essere evangelizzata, ha bisogno di prendere il Vangelo, pregare e sentire la forza dello Spirito che va cambiando il cuore (Cfr EN, 15).
Una Chiesa che si evangelizza per evangelizzare è una Chiesa che, guidata dallo Spirito Santo, è chiamata a percorrere un cammino esigente, un cammino di conversione, di rinnovamento.
Ciò comporta anche la capacità di cambiare i modi di comprendere e vivere la sua presenza evangelizzatrice nella storia, evitando di rifugiarsi nelle zone protette dalla logica del “si è sempre fatto così”.
Sono dei rifugi che ammalano la Chiesa.
La Chiesa deve andare avanti, deve crescere continuamente, così rimarrà giovane.
Questa Chiesa è interamente rivolta a Dio, quindi partecipe del suo progetto di salvezza per l’umanità, e, nello stesso tempo, interamente rivolta verso l’umanità.
La Chiesa dev’essere una Chiesa che incontra dialogicamente il mondo contemporaneo, che tesse relazioni fraterne, che genera spazi di incontro, mettendo in atto buone pratiche di ospitalità, di accoglienza, di riconoscimento e integrazione dell’altro e dell’alterità, e che si prende cura della casa comune che è il creato.
Cioè, una Chiesa che incontra dialogicamente il mondo contemporaneo, dialoga con il mondo contemporaneo, ma che incontra ogni giorno il Signore e dialoga con il Signore, e lascia entrare lo Spirito Santo che è il protagonista dell’evangelizzazione.
Senza lo Spirito Santo noi potremmo soltanto fare pubblicità della Chiesa, non evangelizzare.
È lo Spirito Santo in noi, quello che ci spinge verso l’evangelizzazione e questa è la vera libertà dei figli di Dio.
Cari fratelli e sorelle, vi rinnovo l’invito a leggere e rileggere l’Evangelii nuntiandi: io vi dico la verità, io la leggo spesso, perché quello è il capolavoro di San Paolo VI, è l’eredità che ha lasciato a noi per evangelizzare.
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Saluti
Je salue cordialement les pèlerins de langue française présents à cette audience, notamment ceux qui sont venus de Suisse et de France : le groupe du Club de France accompagné par l'évêque de Digne, les jeunes filles de Sainte Marie de Neuilly, le groupe des confirmands de l'école Albert de Mun et tous les jeunes des écoles.
Chers frères et sœurs, je renouvelle l'invitation à lire ou à relire Evangelii Nuntiandi, chez vous et dans vos communautés.
Prions Dieu de faire de nous des évangélisateurs, en témoignant vraiment ce que nous croyons.
Je vous souhaite un bon parcours de Carême et demande à Dieu de vous bénir tous ! Et à Sr Geneviève : heureux anniversaire ! Quatre-vingts ans ! Merci.
[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese in particolare quelli venuti della Svizzera e della Francia: il gruppo del Club de France accompagnato dal Vescovo di Digne; le ragazze di Sainte Marie de Neuilly, il gruppo dei cresimandi della scuola Albert de Mun e tutti i giovani delle scuole.
Cari fratelli e sorelle, vi rinnovo l’invito a leggere o rileggere l’Evangelii nuntiandi, a casa e nelle vostre comunità.
Preghiamo Dio affinché ci renda evangelizzatori, testimoniando davvero quello che crediamo.
Vi auguro un buon cammino quaresimale e chiedo a Dio di benedirvi tutti! E a suor Geneviève: heureux annivesaire! Quatre-vingt ans! Merci.]
I extend a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, especially the groups from England, Indonesia, the Phillipines and the United States of America.
May our Lenten journey bring us to Easter with hearts purified and renewed by the grace of the Holy Spirit.
Upon you and your families I invoke joy and peace in Christ our risen Lord.
[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua inglese, specialmente ai gruppi provenienti da Inghilterra, Indonesia, Filippine e Stati Uniti d’America.
A tutti auguro che il nostro cammino quaresimale ci porti alla gioia della Pasqua con cuori purificati e rinnovati dalla grazia dello Spirito Santo.
Su voi e sulle vostre famiglie invoco la gioia e la pace in Cristo nostro Risorto!]
Liebe Brüder und Schwestern deutscher Sprache, in dieser Fastenzeit wollen wir unseren Eifer für die Evangelisierung erneuern.
Bemühen wir uns also, in der Heiligkeit zu wachsen, und empfangen wir vertrauensvoll die Sakramente der Buße und der Eucharistie.
[Cari fratelli e sorelle di lingua tedesca, in questa Quaresima vogliamo rinnovare il nostro zelo per l’evangelizzazione.
Impegniamoci allora a crescere nella santità, accostandoci con fede ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia.]
Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española.
Los invito a leer y a reflexionar, de una manera personal y comunitaria, la Exhortación apostólica Evangelii nuntiandi, y llevar a la oración estas preguntas: ¿Crees lo que anuncias? ¿Vives lo que crees? ¿Anuncias lo que vives? Que Jesús los bendiga y la Virgen Santa los cuide.
Muchas gracias.
Saúdo cordialmente os peregrinos de língua portuguesa, especialmente os fiéis das arquidioceses de Belo Horizonte e Natal no Brasil, e os advogados brasileiros aqui presentes.
Queridos irmãos e irmãs, o mundo precisa de ouvir proclamar as grandes obras de Deus, espelhadas na nossa vida santa.
São José e a Virgem Mãe nos ajudem a levar a todos a água pura do Evangelho.
Deus vos abençoe!
[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua portoghese, in particolare i fedeli delle arcidiocesi di Belo Horizonte e di Natal in Brasile, e gli avvocati brasiliani qui presenti.
Care sorelle e cari fratelli, il mondo ha bisogno di sentir proclamare le grandi opere di Dio riflesse nella nostra vita santa.
San Giuseppe e la Vergine Madre ci aiutino a portare a tutti l’acqua pura del Vangelo.
Dio vi benedica!]
أُحَيِّي المؤمِنينَ الناطِقينَ باللغَةِ العربِيَّة.
الكنيسةُ الَّتي يتمُّ تبشيرُها بالإنجيلِ لكي تُبشِّرَ بِهِ، هي كنيسةٌ، يقودُها الرُّوحُ القدس، ومدعوَّةٌ إلى أنْ تَسلُكَ مسيرةً صعبَة، فيها توبةٌ وتَجَدُّدٌ مُستمرّ.
باركَكُم الرّبُّ جَميعًا وحَماكُم دائِمًا مِن كُلِّ شَرّ!
[Saluto i fedeli di lingua araba.
Una Chiesa che si evangelizza per evangelizzare è una Chiesa che, guidata dallo Spirito Santo, è chiamata a percorrere un cammino esigente, di continua conversione e rinnovamento.
Il Signore vi benedica tutti e vi protegga sempre da ogni male!]
Pozdrawiam serdecznie wszystkich Polaków, a szczególnie pracowników, wolontariuszy i przyjaciół Radia Maryja z Torunia.
W najbliższą sobotę będziemy obchodzili uroczystość Zwiastowania Pańskiego.
W waszej ojczyźnie jest to również Dzień Świętości Życia.
Jako znak konieczności ochrony życia ludzkiego od poczęcia do naturalnej śmierci, Fundacja „Życiu tak” przekazuje do Zambii poświęcony przeze mnie tego poranka dzwon „Głos Nienarodzonych”.
Niech jego dźwięk niesie przesłanie o tym, że każde życie jest święte, każde życie jest nienaruszalne.
Z serca wam błogosławię.
[Saluto cordialmente tutti i polacchi, in particolare i dipendenti, i volontari e gli amici di Radio Maria di Toruń.
Questo sabato celebreremo la solennità dell’Annunciazione del Signore.
Nella vostra patria è anche la Giornata della Santità della Vita.
Come segno della necessità di proteggere la vita umana dal concepimento alla morte naturale, la Fondazione “Sì alla vita” destina allo Zambia la campana “La voce dei non nati” che ho benedetto questa mattina.
Il suo suono porti il messaggio che ogni vita è sacra, ogni vita è inviolabile.
Vi benedico di cuore.]
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APPELLI
Oggi si celebra la Giornata Mondiale dell’Acqua.
Tornano alla mente le parole di San Francesco d’Assisi: «Laudato si’ mi’ Signore per sora acqua, la quale è molto utile et umile et pretiosa et casta».
In queste parole semplici sentiamo la bellezza del creato e la consapevolezza delle sfide che implica il prendersene cura.
In questi giorni si svolge a New York la seconda Conferenza dell’Acqua dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Prego per il buon esito dei lavori ed auspico che l’importante evento possa accelerare le iniziative in favore di quanti soffrono la scarsità di acqua, questo bene primario.
L’acqua non può essere oggetto di sprechi e di abusi o motivo di guerre, ma va preservata a beneficio nostro e delle generazioni future.
Sabato si celebrerà la Solennità dell’Annunciazione del Signore e il pensiero va al 25 marzo dello scorso anno, quando, in unione con tutti i Vescovi del mondo, si sono consacrate la Chiesa e l’umanità, in particolare la Russia e l’Ucraina, al Cuore Immacolato di Maria.
Non stanchiamoci di affidare la causa della pace alla Regina della pace.
Desidero perciò invitare ciascun credente e comunità, specialmente i gruppi di preghiera, a rinnovare ogni 25 marzo l’atto di consacrazione alla Madonna, perché lei, che è Madre, possa custodirci tutti nell’unità e nella pace.
E non dimentichiamo, in questi giorni, la martoriata Ucraina, che soffre tanto.
* * *
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana.
In particolare, saluto gli aderenti al Movimento dei Focolari, l’Associazione Francescani nel mondo e l’Associazione Internazionale delle Carità.
Saluto il personale sanitario dell’Ospedale di Asiago, gli alunni dell’Istituto Pentasuglia di Matera, quelli dell’Istituto Deledda-San Giovanni Bosco di Ginosa e gli Sbandieratori dei Borghi e Sestrieri Fiorentini: grazie!
Il mio pensiero va infine, come di consueto ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli.
Il tempo di Quaresima che stiamo vivendo vi aiuti a riscoprire il grande dono di essere discepoli di Gesù: seguitelo senza riserve, imitate la sua dedizione alla volontà del Padre ed il suo amore per i fratelli.
A tutti voi la mia benedizione.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno, benvenuti, e grazie!
Saluto di cuore tutti voi e vi ringrazio per la vostra presenza.
Ringrazio il Presidente della vostra Associazione per le sue parole.
Voi sapete cantare? Per fare gli auguri, cosa cantate? Fate gli auguri, cantando, perché questa ragazzina, suor Geneviève, fa 80 anni! Le cantiamo “compleanno felice”? [cantano] Ecco, guarda! La tenerezza!
La pandemia vi ha impedito di svolgere le consuete attività, viaggiando di piazza in piazza con le vostre attrazioni.
So che la Fondazione Migrantes vi è stata vicina incoraggiandovi ad andare avanti con spirito di fede e di speranza.
Ora, grazie a Dio, avete potuto riprendere.
La Chiesa continua ad accompagnarvi annunciandovi Cristo Salvatore, il quale percorreva città e villaggi portando a tutti l’annuncio gioioso del Regno di Dio.
«Il Signore – ci dice la Scrittura – cammina davanti a te; egli sarà con te, non ti lascerà e non ti abbandonerà; non temere e non ti perdere d’animo!» (Dt 31,8).
Queste parole le rivolgo oggi a voi, cari fratelli e sorelle operatori dello spettacolo viaggiante.
L’Esortazione apostolica Evangelii gaudium inizia così: «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù» (n.
1).
E anche voi cooperate in senso largo all’annuncio del Vangelo per la gioia che portate alla gente con le vostre attrazioni.
Voi siete seminatori di gioia, non dimenticate questo! E a volte seminate gioia in momenti in cui il cuore non è gioioso, è triste per i problemi… Ma voi seminate, la vostra vocazione è seminare gioia.
Per questo vi incoraggio a tenere sempre il vostro cuore e la vostra vita aperti a una prospettiva di fede, che nasce dall’incontro con Gesù, presente e operante nella sua Chiesa, presente e operante in voi, in ognuna delle persone che voi trovate, in ognuna delle persone che voi fate ridere.
Che è una delle cose belle: seminatori di sorrisi, è bello!
Sostando con le giostre nei paesi e nelle città, voi offrite ai bambini e agli adulti momenti di spensieratezza, distraendoli un po’ dalle preoccupazioni che assillano la vita quotidiana.
La felicità di un bambino sulla giostra è un’immagine di gioia pulita che appartiene alla memoria di ogni famiglia.
Il senso di gioia e di festa che voi diffondete scaturisce dalla creatività e dalla fantasia, non ricalca i modelli artificiali e conformisti che circolano nei media; si alimenta non dalla ricerca di sensazioni sempre nuove, ma dalla semplicità e genuinità che si può respirare in un luna park.
Cari fratelli e sorelle, andate avanti nel vostro lavoro itinerante! In un mondo dove si respira spesso un clima grigio e pesante, voi ci ricordate che la strada per essere contenti è la semplicità; e anche una forma di divertimento all’aria aperta e in compagnia: l’opposto di quello che sempre più spesso si vede oggi, ognuno da solo con il suo telefonino o con il computer, che ti isola dalla comunicazione sociale.
Voi invitate a uscire, a incontrarsi sulla piazza, a divertirsi insieme.
Vi apprezzo per questo.
E vi ringrazio perché, in fondo, ci ricordate che non siamo fatti solo per il lavoro ma anche per la festa, e Dio è contento quando noi festeggiamo insieme da fratelli in semplicità.
E la vostra vocazione è: ridere e far sorridere.
A volte il cuore è triste, ma la vocazione ti porta avanti per dare dei sorrisi agli altri, dei sorrisi che li facciano ridere.
E questo è bello: seminare sorrisi, seminare gioia, seminare pace, seminare un orizzonte più positivo di quello che forse sta vivendo la gente in quel momento.
Avanti, con la gioia…
Vi affido all’intercessione della Vergine Maria “Madre dei Viaggianti”, guida sicura che ci conduce a Gesù.
E vi sostengano anche il vostro patrono San Giovanni Bosco e il Servo di Dio Don Dino Torregiani, l’apostolo delle carovane.
Vi benedico di cuore, e vi chiedo per favore di pregare per me.
Grazie!
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi il Vangelo ci mostra Gesù che ridona la vista a un uomo cieco dalla nascita (cfr Gv 9,1-41).
Ma questo prodigio è accolto in malo modo da varie persone e gruppi.
Vediamo nei particolari.
Ma prima vorrei dirvi: oggi, prendete il Vangelo di Giovanni e leggete voi questo miracolo di Gesù, è bellissimo il modo in cui Giovanni lo racconta.
Capitolo 9, in due minuti si legge.
Fa vedere come procede Gesù e come procede il cuore umano: il cuore umano buono, il cuore umano tiepido, il cuore umano timoroso, il cuore umano coraggioso.
Capitolo 9 del Vangelo di Giovanni.
Fatelo oggi, vi aiuterà tanto.
E in che modo le persone accolgono questo segno?
Anzitutto ci sono i discepoli di Gesù, che di fronte al cieco nato finiscono nel chiacchiericcio: si chiedono se la colpa sia dei genitori o sua (cfr v.
2).
Cercano un colpevole; e noi tante volte cadiamo in questo che è tanto comodo: cercare un colpevole, anziché porsi domande impegnative nella vita.
E oggi possiamo dire: cosa significa per noi la presenza di questa persona, cosa chiede a noi? Poi, avvenuta la guarigione, le reazioni aumentano.
La prima è quella dei vicini, che sono scettici: “Quest’uomo è stato sempre cieco: non è possibile che ora veda, non può essere lui!, è un altro”: scetticismo (cfr vv.
8-9).
Per loro è inaccettabile, meglio lasciare tutto come era prima (cfr v.
16) e non mettersi in questo problema.
Hanno paura, temono le autorità religiose e non si pronunciano (cfr vv.
18-21).
In tutte queste reazioni, emergono cuori chiusi di fronte al segno di Gesù, per motivi diversi: perché cercano un colpevole, perché non sanno stupirsi, perché non vogliono cambiare, perché sono bloccati dalla paura.
E tante situazioni assomigliano oggi a questa.
Davanti a una cosa che è proprio un messaggio di testimonianza di una persona, è un messaggio di Gesù, noi cadiamo in questo: cerchiamo un’altra spiegazione, non vogliamo cambiare, cerchiamo una via di uscita più elegante che accettare la verità.
L’unico che reagisce bene è il cieco: lui, felice di vedere, testimonia quanto gli è accaduto nel modo più semplice: «Ero cieco e ora ci vedo» (v.
25).
Dice la verità.
Prima era costretto a chiedere l’elemosina per vivere e subiva i pregiudizi della gente: “è povero e cieco dalla nascita, deve soffrire, deve pagare per i suoi peccati o per quelli dei suoi antenati”.
Adesso, libero nel corpo e nello spirito, rende testimonianza a Gesù: non inventa nulla e non nasconde nulla.
“Ero cieco e adesso ci vedo”.
Non ha paura di quello che diranno gli altri: il sapore amaro dell’emarginazione lo ha già conosciuto, per tutta la vita, ha già sentito su di sé l’indifferenza il disprezzo dei passanti, di chi lo considerava come uno scarto della società, utile al massimo per il pietismo di qualche elemosina.
Ora, guarito, quegli atteggiamenti sprezzanti non li teme più, perché Gesù gli ha dato piena dignità.
E questo è chiaro, succede sempre: quando Gesù ci guarisce, ci ridona dignità, la dignità della guarigione di Gesù, piena, una dignità che esce dal fondo del cuore, che prende tutta la vita; e Lui di sabato, davanti a tutti, lo ha liberato e gli ha donato la vista senza chiedergli nulla, nemmeno un grazie, e lui ne rende testimonianza.
Questa è la dignità di una persona nobile, di una persona che si sa guarita e riprende, rinasce; quel rinascere nella vita, di cui si parlava oggi in “A Sua Immagine”: rinascere.
Fratelli, sorelle, con tutti questi personaggi il Vangelo odierno mette anche noi nel mezzo della scena, così che ci chiediamo: che posizione prendiamo, che cosa avremmo detto allora? E soprattutto, che cosa facciamo oggi? Come il cieco, sappiamo vedere il bene ed esser grati per i doni che riceviamo? Mi domando: com’è la mia dignità? Com’è la tua dignità? Testimoniamo Gesù oppure spargiamo critiche e sospetti? Siamo liberi di fronte ai pregiudizi o ci associamo a quelli che diffondono negatività e pettegolezzi? Siamo felici di dire che Gesù ci ama, che ci salva oppure, come i genitori del cieco nato, ci lasciamo ingabbiare dal timore di quello che penserà la gente? I tiepidi di cuore che non accettano la verità e non hanno il coraggio di dire: “No, questo è così”.
E ancora, come accogliamo le difficoltà e l’indifferenza degli altri? Come accogliamo le persone che hanno tante limitazioni nella vita? Siano fisiche, come questo cieco; siano sociali, come i mendicanti che troviamo per la strada? E questo lo accogliamo come una maledizione o come occasione per farci vicini a loro con amore?
Fratelli e sorelle, chiediamo oggi la grazia di stupirci ogni giorno dei doni di Dio e di vedere le varie circostanze della vita, anche le più difficili da accettare, come occasioni per operare il bene, come ha fatto Gesù col cieco.
La Madonna ci aiuti in questo, insieme a San Giuseppe, uomo giusto e fedele.
Dopo l'Angelus
Cari fratelli e sorelle!
Ieri in Ecuador un terremoto ha causato morti, feriti e ingenti danni.
Sono vicino al popolo ecuadoriano e assicuro la mia preghiera per i defunti e per tutti i sofferenti.
Saluto tutti voi, romani e pellegrini di tanti Paesi – vedo bandiere: colombiane, argentine, polacche… tanti tanti Paesi… –.
Saluto gli spagnoli venuti da Murcia, Alicante e Albacete.
Saluto le parrocchie di San Raimondo Nonnato e dei Martiri Canadesi in Roma, e quella di Cristo Re in Civitanova Marche; l’Associazione dei Salesiani Cooperatori; i ragazzi di Arcore, i cresimandi di Empoli e quelli della parrocchia S.
Maria del Rosario in Roma.
Saluto i ragazzi dell’Immacolata, così bravi.
Con piacere saluto anche i partecipanti alla Maratona di Roma! Mi congratulo perché, su impulso di “Athletica Vaticana”, fate di questo importante evento sportivo un’occasione di solidarietà in favore dei più poveri.
E oggi facciamo gli auguri a tutti i papà! Che in San Giuseppe trovino il modello, il sostegno, il conforto per vivere bene la loro paternità.
E tutti insieme, per i Papà, preghiamo il Padre [Padre Nostro…].
Fratelli e sorelle, Non dimentichiamo di pregare per il martoriato popolo ucraino, che continua a soffrire per i crimini della guerra.
Auguro a tutti una buona domenica.
per favore non dimenticatevi di pregare per me.
Buon pranzo e arrivederci.
Cari amici e amiche, buongiorno e benvenuti!
Ringrazio quanti sono intervenuti per spiegare l’iniziativa e per dare le loro testimonianze.
Sono contento di incontrare tante persone rifugiate e le loro famiglie che sono giunte in Italia, Francia, Belgio e Andorra attraverso i corridoi umanitari.
La loro realizzazione è dovuta sia alla creatività generosa della Comunità di Sant’Egidio, della Federazione delle Chiese Evangeliche e della Tavola Valdese, sia alla rete accogliente della Chiesa italiana, in particolare della Caritas, sia all’impegno del Governo italiano e dei Governi che vi hanno ricevuto.
I corridoi umanitari sono stati avviati nel 2016 come risposta alla situazione sempre più drammatica nella rotta Mediterranea.
Oggi dobbiamo dire che quell’iniziativa è tragicamente attuale, anzi, più che mai necessaria; lo attesta purtroppo anche il recente naufragio di Cutro.
Quel naufragio non doveva avvenire, e bisogna fare tutto il possibile perché non si ripeta.
I corridoi gettano dei ponti che tanti bambini, donne, uomini, anziani, provenienti da situazioni molto precarie e da gravi pericoli, hanno infine percorso in sicurezza, legalità e dignità fino ai Paesi di accoglienza.
Essi attraversano i confini e, ancor più, i muri di indifferenza su cui spesso si infrange la speranza di tantissime persone, che attendono per anni in situazioni dolorose e insostenibili.
Ognuno di voi merita attenzione per la storia dura che ha vissuto.
In particolare, vorrei ricordare quanti sono passati attraverso i campi di detenzione in Libia; più volte ho avuto modo di ascoltare la loro esperienza di dolore, umiliazioni e violenze.
I corridoi umanitari sono una via praticabile per evitare le tragedie e i pericoli legati al traffico di essere umani.
Tuttavia, occorrono ancora molti sforzi per estendere questo modello e per aprire più percorsi legali per la migrazione.
Dove manca la volontà politica, i modelli efficaci come il vostro offrono nuove strade percorribili.
Del resto, una migrazione sicura, ordinata, regolare e sostenibile è nell’interesse di tutti i Paesi.
Se non si aiuta a riconoscere questo, il rischio è che la paura spenga il futuro e giustifichi le barriere su cui si infrangono vite umane.
Il lavoro che voi fate, individuando e accogliendo persone vulnerabili, cerca di rispondere nella maniera più adeguata a un segno dei tempi.
Indica una strada all’Europa, perché non resti bloccata, spaventata, senza visione del futuro.
In effetti, «la chiusura in sé stessi o nella propria cultura non è mai la via per ridare speranza» (Discorso all’Università Roma Tre, 17 febbraio 2017).
In realtà, la storia europea si è sviluppata nei secoli attraverso l’integrazione di popolazioni e culture differenti.
Non abbiamo allora paura del futuro!
I corridoi umanitari non solo mirano a far giungere in Italia e in altri Paesi europei persone profughe, strappandole da situazioni di incertezza, pericolo e attese infinite; essi operano anche per l’integrazione, perché non c’è accoglienza senza integrazione.
Allo stesso tempo, nel vostro lavoro avete imparato che l’integrazione non è priva di difficoltà.
Non tutti coloro che arrivano sono preparati al lungo cammino che li attende.
Per questo è importante mettere in atto ancora più attenzione e creatività per informare meglio coloro che hanno l’opportunità di venire in Europa sulla realtà che incontreranno.
E non dimentichiamo che le persone vanno accompagnate dall’inizio alla fine.
Il vostro ruolo finisce quando una persona è veramente integrata nella nostra società.
Insegna la Sacra Scrittura: «Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi» (Lv 19,34).
Saluto qui le centinaia di persone, famiglie, comunità, che si sono messe a disposizione generosamente per realizzare questo processo virtuoso.
Avete aperto i vostri cuori e le vostre case.
Avete sostenuto con le vostre risorse l’integrazione e avete coinvolto altre persone.
Vi ringrazio di cuore: voi rappresentate un volto bello dell’Europa, che si apre al futuro e paga di persona.
A voi, promotori dei “corridoi”, ai religiosi e alle religiose, ai singoli e alle organizzazioni che vi hanno partecipato vorrei dire: siete dei mediatori di una storia di integrazione, non intermediari che guadagnano approfittando del bisogno e delle sofferenze.
Non siete intermediari ma mediatori, e mostrate che, se si lavora seriamente a porre le basi, è possibile accogliere e integrare efficacemente.
Questa storia di accoglienza è un impegno concreto per la pace.
Sono presenti tra voi parecchi profughi ucraini; a loro voglio dire che il Papa non rinuncia a cercare la pace, a sperare nella pace e a pregare per essa.
Lo faccio per il vostro Paese martoriato e per gli altri che sono colpiti dalla guerra; qui infatti ci sono tante persone che sono fuggite da altre guerre.
E questo servizio ai poveri, ai profughi e ai rifugiati è anche un’esperienza forte di unità tra i cristiani.
In effetti, questa iniziativa dei corridoi umanitari è ecumenica.
È un bel segno che unisce fratelli e sorelle che condividono la fede in Cristo.
Saluto quindi con affetto quanti tra voi sono passati attraverso i corridoi umanitari e che ora vivono una nuova vita.
Avete mostrato una ferma volontà di vivere liberi dalla paura e dall’insicurezza.
Avete trovato amici e sostenitori che sono oggi per voi una seconda famiglia.
Avete studiato una nuova lingua e conosciuto una nuova società.
Tutto questo è stato difficile, ma è fecondo.
Lo dico anche come figlio di una famiglia di emigrati che ha fatto questo percorso.
Il vostro buon esempio e la vostra laboriosità aiutano a smentire le paure e gli allarmi verso gli stranieri.
Anzi, la vostra presenza può essere una benedizione per il Paese in cui vi trovate e del quale avete imparato a rispettare le leggi e la cultura.
L’ospitalità che vi è stata offerta è diventata per voi motivo per restituire: infatti alcuni di voi si impegnano nel servizio agli altri che sono nel bisogno.
Così, fratelli e sorelle, in questa nostra assemblea, dove sono insieme e quasi si confondono quelli che accolgono e quelli che sono accolti, possiamo gustare la parola del Signore Gesù: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35).
Questa parola indica a noi tutti la strada.
Una strada da percorrere insieme, con perseveranza.
Grazie di averla aperta e di averla tracciata! Andate avanti! Il Signore vi benedica e la Madonna, Madre del cammino, vi custodisca.
Anch’io vi benedico di cuore, e vi chiedo per favore di pregare per me.
Caro Monsignor Baturi, cari giovani, benvenuti!
Grazie per i saluti che mi avete rivolto.
Questo incontro mi dà l’occasione di incoraggiare il percorso di formazione sociopolitica che dà continuità al “Progetto Policoro” della Chiesa italiana.
Mi piace sottolineare che l’esigenza di questo percorso è nata dal basso, dal vostro bisogno di formarvi ad un servizio nella società e nella politica; e anche per potere, a vostra volta, collaborare alla formazione di altri giovani.
Quest’anno avete come tema la pace.
È un tema che non può mancare nella formazione sociopolitica, e purtroppo è anche urgente a causa della situazione attuale.
La guerra, è il fallimento della politica.
Questo va sottolineato: la guerra è il fallimento della politica.
Si alimenta del veleno che considera l’altro come nemico.
La guerra ci fa toccare con mano l’assurdità della corsa agli armamenti e del loro uso per la risoluzione dei conflitti.
Mi diceva un tecnico che se per un anno non si facessero armamenti si potrebbe eliminare la fame nel mondo.
Dunque, ci vuole una “migliore politica” (cfr Enc.
Fratelli tutti, cap.
5), che presuppone proprio ciò che state facendo voi, cioè educarsi alla pace.
Questo è responsabilità di tutti.
Fare la guerra ma un’altra guerra, una guerra interiore, una guerra su sé stessi per lavorare per la pace.
Oggi la politica non gode di ottima fama, soprattutto fra i giovani, perché vedono gli scandali, tante cose che tutti conosciamo.
Le cause sono molteplici, ma come non pensare alla corruzione, all’inefficienza, alla distanza dalla vita della gente? Proprio per questo c’è ancora più bisogno di buona politica.
E la differenza la fanno le persone.
Lo vediamo nelle amministrazioni locali: un conto è un sindaco o un assessore disponibile, e un altro è chi è inaccessibile; un conto è la politica che ascolta la realtà, che ascolta i poveri, e un altro è quella che sta chiusa nei palazzi, la politica “distillata”.
Mi viene in mente l’episodio biblico del re Acab e della vigna di Nabot.
Il re vuole appropriarsi della vigna di Nabot, per allargare il suo giardino; ma Nabot non vuole e non può venderla, perché quella vigna è l’eredità dei suoi padri.
Il re è arrabbiato e “mette il muso”, come un bambino viziato.
Allora sua moglie, la regina Gezabele – che è un diavoletto! – risolve il problema facendo eliminare Nabot con una falsa accusa.
Così Nabot viene ucciso e il re prende la sua vigna.
Acab rappresenta la peggiore politica, quella di andare avanti e farsi spazio facendo fuori gli altri, quella che persegue non il bene comune ma interessi particolari e usa ogni mezzo per soddisfarli.
Acab non è padre, è padrone, e il suo governo è il dominio.
Sant’Ambrogio scrisse un libretto su questa storia biblica, intitolato La vigna di Nabot.
A un certo punto, rivolgendosi ai potenti, Ambrogio scrive: «Perché scacciate chi è compartecipe ai beni della natura e rivendicate per voi soli il possesso dei beni naturali? La terra è stata creata in comunione per tutti, per ricchi e per poveri.
[…] La natura non sa cosa siano i ricchi, lei che genera tutti ugualmente poveri.
Quando nasciamo non abbiamo vestiti, non veniamo al mondo carichi d’oro e d’argento.
Questa terra ci mette al mondo nudi, bisognosi di cibo, di vesti e di bevande.
La natura […] ci crea tutti uguali e tutti ugualmente ci racchiude nel grembo di un sepolcro» (1, 2).
Questa piccola ma preziosa opera di Sant’Ambrogio sarà utile per la vostra formazione.
La politica che esercita il potere come dominio e non come servizio non è capace di prendersi cura, calpesta i poveri, sfrutta la terra e affronta i conflitti con la guerra, non sa dialogare.
Come esempio biblico positivo possiamo prendere la figura di Giuseppe figlio di Giacobbe.
Ricordate che lui viene venduto come schiavo dai suoi fratelli, che erano invidiosi di lui, e viene portato in Egitto.
Lì, dopo alcune peripezie, viene liberato, entra al servizio del Faraone e diventa una specie di Viceré.
Giuseppe non si comporta da padrone, ma da padre: si prende cura del Paese; quando arriva la carestia organizza le riserve di grano per il bene comune, tanto che il Faraone dice al popolo: «Fate quello che [Giuseppe] vi dirà» ( Gen 41,55) – la stessa frase che Maria dirà ai servi alle nozze di Cana riferendosi a Gesù –.
Giuseppe, che ha sofferto l’ingiustizia personalmente, non cerca il proprio interesse ma quello del popolo, paga di persona per il bene comune, si fa artigiano di pace, tesse rapporti capaci di innovare la società.
Scriveva Don Lorenzo Milani: «Il problema degli altri è uguale al mio.
Sortirne tutti insieme è la politica.
Sortirne da soli è l’avarizia».
[1] È così, è semplice.
Questi due esempi biblici, uno negativo, l’altro positivo, ci aiutano a capire quale spiritualità può alimentare la politica.
Ne colgo solo due aspetti: la tenerezza e la fecondità.
La tenerezza «è l’amore che si fa vicino e concreto.
[…] È la strada che hanno percorso gli uomini e le donne più coraggiosi e forti.
In mezzo all’attività politica, i più piccoli, i più deboli, i più poveri debbono intenerirci: hanno “diritto” di prenderci l’anima e il cuore» (Enc.
Fratelli tutti, 194).
La fecondità è fatta di condivisione, di sguardo a lungo termine, di dialoghi, di fiducia, di comprensione, di ascolto, di tempo speso, di risposte pronte e non rimandate.
Significa guardare all’avvenire e investire sulle generazioni future; avviare processi piuttosto che occupare spazi.
Questa è la regola d’oro: la tua attività è per occupare uno spazio per te? Non va.
Per il tuo gruppo? Non va.
Occupare spazi non va, avviare processi va.
Il tempo è superiore allo spazio.
Cari amici, vorrei concludere proponendovi le domande che ogni buon politico dovrebbe farsi: «Quanto amore ho messo nel mio lavoro? In che cosa ho fatto progredire il popolo? Che impronta ho lasciato nella vita della società? Quali legami reali ho costruito? Quali forze positive ho liberato? Quanta pace sociale ho seminato? Che cosa ho prodotto nel posto che mi è stato affidato?» (ibid., 197).
La vostra preoccupazione non sia il consenso elettorale né il successo personale, ma coinvolgere le persone, generare imprenditorialità, far fiorire sogni, far sentire la bellezza di appartenere a una comunità.
La partecipazione è il balsamo sulle ferite della democrazia.
Vi invito a dare il vostro contributo, a partecipare e a invitare i vostri coetanei a farlo, sempre con il fine e lo stile del servizio.
Il politico è un servitore; quando il politico non è un servitore è un cattivo politico, non è un politico.
Grazie del vostro impegno.
Andate avanti e che la Madonna vi accompagni.
Di cuore vi benedico, e vi chiedo per favore di pregare per me.
Grazie!
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[1] Lettera a una professoressa, Firenze 1994, 14.
«Queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo» (Fil 3,7).
Così dichiara San Paolo nella prima Lettura che abbiamo ascoltato.
E se ci chiediamo quali sono le cose che non ha più considerato fondamentali nella sua vita, contento perfino di perderle per poter trovare Cristo, ci accorgiamo che non si tratta di realtà materiali, ma di “ricchezze religiose”.
Proprio così: era un uomo pio, un uomo zelante, un fariseo ligio e osservante (cfr vv.
5-6).
Eppure, questo abito religioso, che poteva costituire un merito, un vanto, una ricchezza sacrale, era in realtà per lui un impedimento.
E allora Paolo afferma: «Ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo» (v.
8).
Tutto quello che gli aveva dato un certo prestigio, una certa fama...; “lascia perdere: per me, Cristo è più importante”.
Chi è troppo ricco di sé e della propria “bravura” religiosa presume di essere giusto e migliore degli altri – quante volte in parrocchia succede questo: “Io sono dell’Azione Cattolica, io vado ad aiutare il prete, io faccio la raccolta…, io, io, io”, quante volte succede di credersi migliori degli altri; ognuno, nel proprio cuore, pensi se qualche volta è successo – chi fa così si lascia appagare dal fatto che ha salvato le apparenze; si sente a posto, ma così non può fare posto a Dio perché non sente bisogno di Lui.
E tante volte i “cattolici puliti”, quelli che si sentono giusti perché vanno in parrocchia, perché vanno la domenica a Messa e si vantano di essere giusti: “No, io non ho bisogno di nulla, il Signore mi ha salvato”.
Che cosa è successo? Che il posto di Dio l’ha occupato con il proprio “io” e allora, anche se recita preghiere e compie azioni sacre, non dialoga veramente con il Signore.
Sono monologhi che fa, non dialogo, non preghiera.
Perciò la Scrittura ricorda che solo «la preghiera del povero attraversa le nubi» (Sir 35,21), perché solo chi è povero in spirito, chi si sente bisognoso di salvezza e mendicante di grazia, si presenta davanti a Dio senza esibire meriti, senza pretese, senza presunzione: non ha nulla e perciò trova tutto, perché trova il Signore.
Questo insegnamento Gesù ce lo offre nella parabola che abbiamo ascoltato (cfr Lc 18,9-14).
È il racconto di due uomini, un fariseo e un pubblicano, che vanno entrambi al tempio a pregare, ma uno solo arriva al cuore di Dio.
Prima di quello che fanno, è il loro atteggiamento fisico a parlare: il Vangelo dice che il fariseo pregava «stando in piedi» (v.
11), a fronte alta, mentre il pubblicano, «fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo» (v.
13), per vergogna.
Riflettiamo un momento su queste due posture.
Il fariseo sta in piedi.
È sicuro di sé, ritto e trionfante come uno che debba essere ammirato per la sua bravura, come un modello.
In questo atteggiamento egli prega Dio, ma in realtà celebra sé stesso: io frequento il tempio, io osservo i precetti, io offro l’elemosina...
Formalmente la sua preghiera è ineccepibile, esteriormente si vede un uomo pio e devoto, ma, invece di aprirsi a Dio portandogli la verità del cuore, maschera nell’ipocrisia le sue fragilità.
E tante volte noi facciamo un maquillage sulla nostra vita.
Questo fariseo non attende la salvezza del Signore come un dono, ma quasi la pretende come un premio per i suoi meriti.
“Ho fatto i compiti, adesso dammi il premio”.
Quest’uomo avanza senza esitazione verso l’altare di Dio – a fronte alta – per occupare il suo posto, in prima fila, ma finisce per andare troppo in là e mettersi davanti a Dio!
Invece l’altro, il pubblicano, sta a distanza.
Non cerca di farsi largo, rimane in fondo.
Ma proprio quella distanza, che manifesta il suo essere peccatore rispetto alla santità di Dio, è ciò che gli permette di fare l’esperienza dell’abbraccio benedicente e misericordioso del Padre.
Dio può raggiungerlo proprio perché, restando a distanza, quell’uomo gli ha fatto spazio.
Non parla di sé stesso, parla chiedendo perdono, parla guardando a Dio.
Quanto è vero questo anche per le nostre relazioni familiari, sociali ed ecclesiali.
C’è vero dialogo quando sappiamo custodire uno spazio tra noi e gli altri, uno spazio salutare che permette a ciascuno di respirare senza essere risucchiato o annullato.
Allora quel dialogo, quell’incontro può accorciare la distanza e creare vicinanza.
Succede così anche nella vita di quel pubblicano: fermandosi in fondo al tempio, si riconosce in verità così com’è, peccatore, di fronte a Dio: distante, e in questo modo permette che Dio si avvicini a lui.
Fratelli, sorelle, ricordiamoci questo: il Signore viene a noi quando prendiamo le distanze dal nostro io presuntuoso.
Pensiamo: “Io sono presuntuoso? Mi credo migliore degli altri? Guardo qualcuno un po’ con disprezzo? “Ti ringrazio, Signore, perché tu mi hai salvato e non sono come questa gente che non capisce nulla, io vado in chiesa, io vado a Messa; io sono sposato, sposata in chiesa, questi sono dei divorziati peccatori…”: il tuo cuore è così? Andrai all’inferno.
Per avvicinarsi a Dio, bisogna dire al Signore: “Io sono il primo dei peccatori, e se non sono caduto nella sporcizia più grande è perché la tua misericordia mi ha preso per mano.
Grazie a Te, Signore, io sono vivo, grazie a Te, Signore, io non mi sono distrutto con il peccato”.
Dio può accorciare le distanze con noi quando con onestà, senza infingimenti, gli portiamo la nostra fragilità.
Ci tende la mano per rialzarci quando sappiamo “toccare il fondo” e ci rimettiamo a Lui nella sincerità del cuore.
Così è Dio: ci aspetta in fondo, perché in Gesù Lui ha voluto “andare in fondo”, perché non ha paura di scendere fin dentro gli abissi che ci abitano, di toccare le ferite della nostra carne, di accogliere la nostra povertà, di accogliere i fallimenti della vita, gli errori che per debolezza o negligenza commettiamo, e tutti ne abbiamo fatti.
Dio ci aspetta lì, nel fondo, ci aspetta specialmente quando, con tanta umiltà, andiamo a chiedere perdono nel sacramento della Confessione, come faremo oggi.
Ci aspetta lì.
Fratelli e sorelle, facciamo oggi un esame di coscienza, ognuno di noi, perché il fariseo e il pubblicano abitano entrambi dentro di noi.
Non nascondiamoci dietro l’ipocrisia delle apparenze, ma affidiamo con fiducia alla misericordia del Signore le nostre opacità, i nostri errori.
Pensiamo ai nostri errori, alle nostre miserie, anche a quelle che per vergogna non siamo capaci di condividere, e sta bene, ma con Dio si devono mostrare.
Quando ci confessiamo, ci mettiamo in fondo, come il pubblicano, per riconoscere anche noi la distanza che ci separa tra ciò che Dio ha sognato per la nostra vita e ciò che realmente siamo ogni giorno: dei poveracci.
E, in quel momento, il Signore si fa vicino, accorcia le distanze e ci rimette in piedi; in quel momento, mentre ci riconosciamo spogli, Lui ci riveste con l’abito della festa.
E questo è, e dev’essere, il sacramento della Riconciliazione: un incontro di festa, che guarisce il cuore e lascia la pace dentro; non un tribunale umano di cui aver paura, ma un abbraccio divino da cui essere consolati.
Una delle cose più belle di come ci accoglie Dio è la tenerezza dell’abbraccio che ci dà.
Se noi leggiamo di quando il figlio prodigo torna a casa (cfr Lc 15,20-22) e incomincia il discorso, il padre non lo lascia parlare, lo abbraccia e lui non riesce a parlare.
L’abbraccio misericordioso.
E io qui mi rivolgo ai miei fratelli confessori: per favore, fratelli, perdonate tutto, perdonate sempre, senza mettere il dito troppo nelle coscienze; lasciate che la gente dica le sue cose e voi ricevete questo come Gesù, con la carezza del vostro sguardo, con il silenzio della vostra comprensione.
Per favore, il sacramento della Confessione non è per torturare, ma è per dare pace.
Perdonate tutto, come Dio perdonerà tutto a voi.
Tutto, tutto, tutto.
In questo tempo quaresimale, con la contrizione del cuore, sussurriamo anche noi come il pubblicano: «O Dio, abbi pietà di me, peccatore» (v.
13).
Facciamolo insieme: O Dio, abbi pietà di me, peccatore.
Dio, quando mi dimentico di Te o ti trascuro, quando alla tua Parola antepongo le mie parole e quelle del mondo, quando presumo di essere giusto e disprezzo gli altri, quando chiacchiero degli altri, o Dio, abbi pietà di me, peccatore. Quando non mi prendo cura di chi mi sta accanto, quando sono indifferente a chi è povero e sofferente, debole o emarginato, o Dio, abbi pietà di me, peccatore.
Per i peccati contro la vita, per la cattiva testimonianza che sporca il bel volto della Madre Chiesa, per i peccati contro il creato, o Dio, abbi pietà di me, peccatore.
Per le mie falsità, le mie disonestà, la mia mancanza di trasparenza e legalità, o Dio, abbi pietà di me, peccatore. Per i miei peccati nascosti, quelli che nessuno conosce, per il male che anche senza accorgermi ho procurato ad altri, per il bene che avrei potuto fare e non ho fatto, o Dio, abbi pietà di me, peccatore.
In silenzio, ripetiamo per qualche istante, col cuore pentito e fiducioso: o Dio, abbi pietà di me, peccatore.
In silenzio.
Ognuno lo ripeta nel suo cuore.
O Dio, abbi pietà di me, peccatore.
In questo atto di pentimento e di fiducia ci apriremo alla gioia del dono più grande: la misericordia di Dio.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!
Ringrazio di cuore Padre Tullio Locatelli per le parole che mi ha rivolto, saluto i Vescovi presenti e la Madre Generale, e do il benvenuto a tutti voi.
Ci incontriamo nel 150° anniversario di fondazione della vostra Congregazione.
Infatti, il diciannove marzo 1873 San Leonardo Murialdo fondava la Pia Società Torinese di San Giuseppe per la cura e la formazione soprattutto dei giovani operai.
A me fa pensare tanto questo tempo, lì, nel “fuoco” – diciamo così –, nel centro della massoneria, a Torino, nel Piemonte, tanti santi, tanti! E dobbiamo studiare perché, perché in quel momento.
E proprio nel centro della massoneria e dei “mangiapreti”, i santi, e tanti, non uno, tanti.
Dunque ha fondato a Torino, in questo contesto duro, segnato da tanta povertà morale, culturale ed economica, di fronte alla quale non è rimasto indifferente: ha raccolto la sfida e si è messo al lavoro, in mezzo alla massoneria.
Così è nata una realtà che nel corso di un secolo e mezzo si è arricchita di persone, di opere, di esperienze culturali diverse, e soprattutto di tanto amore.
Una realtà composta oggi da circa cinquecento religiosi – sono pochi, dovete crescere un po’! – e, inoltre, dalle suore Murialdine di San Giuseppe – alle quali pure facciamo gli auguri, nel settantesimo anniversario della loro fondazione –, dall’Istituto secolare e da parecchi laici, tutti uniti in un’unica Famiglia.
Tanto è cresciuto il seme posto da Dio nella Chiesa per mezzo delle mani generose di San Leonardo Murialdo!
Lo scorso anno, in occasione dell’apertura di questa celebrazione giubilare, ho scritto al vostro Superiore Generale e vi auguravo di continuare a crescere nell’«arte di cogliere le esigenze dei tempi, e di provvedervi con la creatività dello Spirito Santo».
Non si può controllare lo Spirito, è Lui che ci porta avanti.
Ci vogliono solo discernimento e fedeltà.
Vi esortavo a prendervi cura specialmente dei «più giovani, i quali, oggi più che mai, hanno bisogno di testimoni credibili».
E vi incoraggiavo a non smettere mai di sognare, sull’esempio di San Giuseppe, vostro Patrono, e di San Leonardo, in spirito di autentica paternità [1].
Oggi, mentre vi rinnovo questo invito, vorrei sottolinearne tre aspetti, che mi sembrano importanti per la vostra vita e per il vostro apostolato.
Essi sono: il primato dell’amore di Dio, l’attenzione al mondo che cambia e la dolcezza paterna della carità.
L’esperienza dell’amore di Dio ha segnato profondamente la vita di San Leonardo.
Lo sentiva in sé forte, concreto, irresistibile, come lui stesso testimonia, scrivendo: «Dio mi ama.
Che gioia! […] Non si dimentica mai di me, mi segue e mi guida sempre!».
E invitava i fratelli a lasciarsi prima di tutto amare da Dio.
Lasciarsi amare da Dio: questo è stato il segreto della sua vita e del suo apostolato.
Non solo amare, no, lasciarsi amare.
Quella passività – sottolineo – quella passività della vita consacrata, che cresce nel silenzio, nella preghiera, nella carità e nel servizio.
E l’invito vale anche per noi: lasciamoci amare da Dio per essere testimoni credibili del suo amore; lasciamo che sia sempre più il suo amore a guidare i nostri affetti, pensieri e azioni.
Non le regole, non le disposizioni.
Un aneddoto: quando un Generale della Compagnia di Gesù, padre Ledochowski, ha voluto mettere insieme tutta la spiritualità della Compagnia in un libro, per “regolare” tutto – si regolava tutto, c’era la regola del cuoco, tutto regolato, perché la Compagnia di Gesù avesse davanti l’ideale –, inviò il primo esemplare all’abate benedettino, e lui gli rispose: “Caro Padre Generale, con questo documento ha ucciso la Compagnia di Gesù!”.
Quando si vuole regolare tutto, si “ingabbia” lo Spirito Santo.
E ce ne sono tanti – religiosi, consacrati, preti e vescovi – che hanno ingabbiato lo Spirito Santo.
Per favore, lasciare libertà, lasciare creatività.
Sempre camminare con la guida dello Spirito.
San Leonardo Murialdo era certamente un uomo profondamente mistico.
Proprio questo, però, lo ha reso anche molto attento e sensibile ai bisogni degli uomini e delle donne del suo tempo (cfr 2 Cor 5,14), di cui è stato un osservatore acuto e un profeta coraggioso.
Ha saputo accorgersi dell’esistenza, attorno a sé, di disagi nuovi, gravi e spesso nascosti, e non ha esitato a prendersene cura.
Ha insegnato in particolare ai giovani lavoratori a progettare il loro futuro, a far sentire la loro voce e ad aiutarsi a vicenda.
Si è fatto portavoce della parola profetica della Chiesa in un mondo dominato da interessi economici e di potere, dando voce ai più emarginati.
Ha saputo poi cogliere il valore del laicato nella vita e nell’apostolato del Popolo di Dio.
Nella seconda metà dell’ottocento, un secolo prima del Vaticano II, diceva: «Il laico, di qualsiasi ceto sociale, può essere […] un apostolo non meno del prete e, per alcuni ambienti, più del prete» [2].
Per quell’epoca questo suona protestantesimo.
Era coraggioso! Era un uomo di Dio intelligente, aperto! Vi invito a coltivare la sua stessa passione e il suo stesso coraggio: insieme, laici, religiosi e religiose, su strade condivise di preghiera, di discernimento e di lavoro, per essere artigiani di giustizia e di comunione.
A questo proposito, vorrei fare riferimento a un ultimo valore importante del vostro carisma: la dolcezza paterna della carità.
Possiate ricercarla e viverla tra voi, con spirito di fraternità, ed esercitarla nei confronti di tutti.
Essere come Maria nostra Madre: allo stesso tempo forti nella testimonianza e dolci nell’amore.
San Leonardo diceva: «La carità è guardare e dire il bello di ognuno, perdonare di cuore, avere serenità di volto, affabilità, dolcezza».
E per fare questo bisogna saper portare la croce.
Ci vuole preghiera, ci vuole sacrificio.
E ancora: «Come senza fede non si piace a Dio, così senza dolcezza non si piace al prossimo».
Sono parole sue: un semplice e potente programma di vita e di apostolato.
Vorrei anche dare testimonianza dei vostri studenti.
Quando ero professore a San Miguel, loro studiavano lì, e avevano un Superiore molto pratico e molto bravo.
Noi dicevamo che quel Giuseppino, il Superiore, era il “premio Nobel” della furbizia! Perché era un uomo di Dio, ma un furbone! Si muoveva bene! Ricordo bene, un bel gruppo di studenti.
Vorrei concludere ricordando proprio l’invito del Murialdo alla santità: «Fatevi santi – diceva – e fate presto...
Perché il santo ha uno sguardo lungimirante, rende la vita più umana, comunica speranza e fiducia e sa condividere la sua esperienza che Dio è Amore».
Cari fratelli, care sorelle, vi ringrazio di ciò che siete e di ciò che fate nella Chiesa, sulle orme di San Leonardo e ispirati da San Giuseppe.
Vi benedico tutti di cuore.
E, mi raccomando, non dimenticatevi di pregare per me.
Grazie!
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[1] Cfr Lettera al Padre Generale della Congregazione di San Giuseppe nel 150° anniversario di fondazione, 2 marzo 2022.
[2] S.
Leonardo Murialdo, Discorso ad una conferenza di San Vincenzo, Parigi, 1865.
Illustre Abate, cari fratelli e sorelle!
Sono lieto di dare il benvenuto a voi, che rappresentate il Buddismo Umanistico a Taiwan, e al delegato della Chiesa Cattolica.
La vostra presenza oggi testimonia lo spirito di amicizia e collaborazione che coltivate come credenti, saldamente radicati nei vostri rispettivi percorsi religiosi.
Il nostro incontro avviene poco dopo la morte del Venerabile Maestro Hsing Yun, Patriarca fondatore del Monastero di Fo Guang Shan.
Noto in tutto il mondo per il suo contributo al Buddismo Umanistico, egli è stato anche un maestro dell’ospitalità interreligiosa.
La vostra visita, che avete definito un pellegrinaggio educativo, rappresenta un’occasione privilegiata per far progredire la cultura dell’incontro, in cui ci assumiamo il rischio di aprirci agli altri, confidando di scoprire in loro degli amici, dei fratelli e delle sorelle, e in questo modo impariamo e scopriamo di più su noi stessi.
Infatti, sperimentando gli altri nella loro diversità, siamo incoraggiati a uscire da noi stessi e ad accettare e abbracciare le nostre differenze.
Un pellegrinaggio educativo interreligioso può essere fonte di grande arricchimento, offrendo molteplici opportunità di incontro, di apprendimento reciproco e di valorizzazione delle nostre diverse esperienze.
La cultura dell’incontro costruisce ponti e apre finestre sui sacri valori e principi che ispirano gli altri.
Abbatte i muri che dividono le persone e le tengono prigioniere di preconcetti, pregiudizi o indifferenza.
Un pellegrinaggio educativo nei luoghi sacri di una religione – come quello che voi state svolgendo – può anche arricchire il nostro apprezzamento circa la peculiarità del suo approccio al divino.
I capolavori dell’arte religiosa che ci circondano in Vaticano e in tutta Roma riflettono la convinzione che, in Gesù Cristo, Dio stesso si è fatto “pellegrino” in questo mondo per amore della nostra famiglia umana.
Per i cristiani, Dio che si è fatto uno di noi nell’umanità di Gesù continua a condurci in un pellegrinaggio di santità, grazie al quale recuperiamo e cresciamo nella nostra somiglianza a Lui e diventiamo così, secondo le parole di San Pietro, «partecipi della natura divina» (2 Pt 1,4).
Nel corso della storia, i credenti hanno creato tempi e spazi sacri come oasi di incontro, dove uomini e donne possono trarre l’ispirazione necessaria per vivere saggiamente e bene.
In questo modo, essi contribuiscono a un’educazione integrale della persona umana, coinvolgendo “testa, mani, cuore e anima” e portandola così a sperimentare «l’armonia dell’integrità umana, cioè tutta la bellezza di questa armonia» (Incontro sul Patto Educativo Globale “Religioni ed Educazione”, 5 ottobre 2021).
Tali oasi di incontro sono ancora più necessarie nel nostro tempo, in cui «la continua accelerazione dei cambiamenti dell’umanità e del pianeta si unisce oggi all’intensificazione dei ritmi di vita e di lavoro» (Enc.
Laudato si’, 18).
Questa realtà si ripercuote anche sulla vita e sulla cultura religiosa e richiede un’adeguata formazione ed educazione dei giovani a verità senza tempo e a metodi collaudati di preghiera e di costruzione della pace.
Qui è importante notare ancora una volta che «da sempre le religioni hanno avuto uno stretto rapporto con l’educazione, accompagnando le attività religiose con quelle educative, scolastiche e accademiche.
Come nel passato così anche oggi, con la saggezza e l’umanità delle nostre tradizioni religiose, vogliamo essere di stimolo per una rinnovata azione educativa che possa far crescere nel mondo la fratellanza universale» (Incontro “Religioni ed Educazione”, 5 ottobre 2021).
Cari amici, il mio augurio è che questo pellegrinaggio educativo vi conduca, guidati dal pensiero del vostro Maestro spirituale Buddha, a un incontro più profondo con voi stessi e con gli altri, con la tradizione cristiana e con la bellezza della terra, che è la nostra casa comune.
Che la vostra visita a Roma sia ricca di momenti di incontro autentico, che possano diventare a loro volta preziose occasioni di crescita in conoscenza, sapienza, dialogo e comprensione.
Vi ringrazio per la vostra visita e invoco su di voi celesti benedizioni.
Grazie.
Catechesi.
La passione per l’evangelizzazione: lo zelo apostolico del credente.
7.
Il Concilio Vaticano II.
2.
Essere apostoli in una Chiesa apostolica
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Proseguiamo le catechesi sulla passione di evangelizzare: non solo su “evangelizzare” ma la passione di evangelizzare e, alla scuola del Concilio Vaticano II, cerchiamo di capire meglio che cosa significa essere “apostoli” oggi.
La parola “apostolo” ci riporta alla mente il gruppo dei Dodici discepoli scelti da Gesù.
A volte chiamiamo “apostolo” qualche santo, o più generalmente i Vescovi: sono apostoli, perché vanno in nome di Gesù.
Ma siamo consapevoli che l’essere apostoli riguarda ogni cristiano? Siamo consapevoli che riguarda ognuno di noi? In effetti, siamo chiamati ad essere apostoli – cioè inviati – in una Chiesa che nel Credo professiamo come apostolica.
Dunque, cosa significa essere apostoli? Significa essere inviato per una missione.
Esemplare e fondativo è l’avvenimento in cui Cristo Risorto manda i suoi apostoli nel mondo, trasmettendo loro il potere che Egli stesso ha ricevuto dal Padre e donando loro il suo Spirito.
Leggiamo nel Vangelo di Giovanni: «Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”.
Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo”» (20,21-22).
Un altro aspetto fondamentale dell’essere apostolo è la vocazione, cioè la chiamata.
È stato così fin dall’inizio, quando il Signore Gesù «chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui» (Mc 3,13).
Li costituì come gruppo, attribuendo loro il titolo di “apostoli”, perché stessero con Lui e per inviarli in missione (cfr Mc 3,14; Mt 10,1-42). San Paolo nelle sue lettere si presenta così: «Paolo, chiamato a essere apostolo», cioè inviato, (1 Cor 1,1) e ancora: «Paolo, servo di Gesù Cristo, apostolo inviato per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio» (Rm 1,1).
E insiste sul fatto di essere «apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti» (Gal 1,1); Dio lo ha chiamato fin dal seno di sua madre per annunciare il vangelo in mezzo alle genti (cfr Gal 1,15-16).
L’esperienza dei Dodici apostoli e la testimonianza di Paolo interpellano anche noi oggi.
Ci invitano a verificare i nostri atteggiamenti, a verificare le nostre scelte, le nostre decisioni, sulla base di questi punti fermi: tutto dipende da una chiamata gratuita di Dio; Dio ci sceglie anche per servizi che a volte sembrano sovrastare le nostre capacità o non corrispondere alle nostre aspettative; alla chiamata ricevuta come dono gratuito bisogna rispondere gratuitamente.
Dice il Concilio: «La vocazione cristiana […] è per sua natura anche vocazione all’apostolato» (Decr.
Apostolicam actuositatem [AA], 2).
Si tratta di una chiamata che è comune, «come comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c’è che una sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni» (LG, 32).
È una chiamata che riguarda sia coloro che hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine, sia le persone consacrate, sia ciascun fedele laico, uomo o donna, è una chiamata a tutti.
Tu, il tesoro che hai ricevuto con la tua vocazione cristiana, sei costretto a darlo: è la dinamicità della vocazione, è la dinamicità della vita.
È una chiamata che abilita a svolgere in modo attivo e creativo il proprio compito apostolico, in seno a una Chiesa in cui «c’è diversità di ministero ma unità di missione.
Gli apostoli e i loro successori hanno avuto da Cristo l’ufficio di insegnare, reggere e santificare in suo nome e con la sua autorità.
Ma anche i laici: tutti voi; la maggioranza di voi siete laici.
Anche i laici, essendo partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, all’interno della missione di tutto il popolo di Dio hanno il proprio compito nella Chiesa e nel mondo» (AA, 2).
In questo quadro, come il Concilio intende la collaborazione del laicato con la gerarchia? Come lo intende? Si tratta di un mero adattamento strategico alle nuove situazioni che vengono? Niente affatto, niente: c’è qualcosa di più, che supera le contingenze del momento e che mantiene un suo proprio valore anche per noi.
La Chiesa è così, è apostolica.
Nel quadro dell’unità della missione, la diversità di carismi e di ministeri non deve dar luogo, all’interno del corpo ecclesiale, a categorie privilegiate: qui non c’è una promozione, e quando tu concepisci la vita cristiana come una promozione, che quello che è di sopra comanda gli altri perché è riuscito ad arrampicarsi, questo non è cristianesimo.
Questo è paganesimo puro.
La vocazione cristiana non è una promozione per andare in su, no! È un’altra cosa.
E c’è una cosa grande perché, sebbene «alcuni per volontà di Cristo stesso siano costituiti in un posto forse più importante, dottori, dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo» (LG, 32).
Chi ha più dignità, nella Chiesa: il vescovo, il sacerdote? No … tutti siamo cristiani al servizio degli altri.
Chi è più importante, nella Chiesa: la suora o la persona comune, battezzata, il bambino, il vescovo …? Tutti sono uguali, siamo uguali e quando una delle parti si crede più importante degli altri e un po’ alza il naso, sbaglia.
Quella non è la vocazione di Gesù.
La vocazione che Gesù dà, a tutti - ma anche a coloro che sembrano essere in posti più alti - è il servizio, servire gli altri, umiliarti.
Se tu trovi una persona che nella Chiesa ha una vocazione più alta e tu la vedi vanitosa, tu dirai: “Poveretto”; prega per lui perché non ha capito cosa è la vocazione di Dio.
La vocazione di Dio è adorazione al Padre, amore alla comunità e servizio.
Questo è essere apostoli, questa è la testimonianza degli apostoli.
La questione dell’uguaglianza in dignità ci chiede di ripensare tanti aspetti delle nostre relazioni, che sono decisive per l’evangelizzazione.
Ad esempio, siamo consapevoli del fatto che con le nostre parole possiamo ledere la dignità delle persone, rovinando così le relazioni dentro la Chiesa? Mentre cerchiamo di dialogare con il mondo, sappiamo anche dialogare tra noi credenti? O nella parrocchia uno va contro l’altro, uno sparla dell’altro per arrampicarsi di più? Sappiamo ascoltare per comprendere le ragioni dell’altro, oppure ci imponiamo, magari anche con parole felpate? Ascoltare, umiliarsi, essere al servizio degli altri: questo è servire, questo è essere cristiano, questo è essere apostolo.
Cari fratelli e sorelle, non temiamo di porci queste domande.
Fuggiamo dalla vanità, dalla vanità dei posti.
Queste parole ci possono aiutare a verificare il modo in cui viviamo la nostra vocazione battesimale, come viviamo il nostro modo di essere apostoli in una Chiesa apostolica, che è al servizio degli altri.
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Saluti
Je salue cordialement les personnes de langue française en particulier les jeunes venus du lycée et des collèges de France, ainsi que les pèlerins du Centre Madeleine Daniélou.
Frères et sœurs, en ce temps de Carême, prions pour tous les chrétiens afin que, dans un esprit de collaboration fondé sur le dialogue et le respect de la dignité de chacun, ils puissent porter l’espérance à notre monde aujourd’hui.
Que Dieu vous bénisse !
[Saluto cordialmente le persone di lingua francese in particolare i giovani venuti dal Liceo e dai Collegi di Francia, nonché i pellegrini del Centro Madeleine Daniélou.
Fratelli e sorelle, in questo tempo di Quaresima preghiamo per tutti i cristiani affinché, in uno spirito di collaborazione fondato sul dialogo e sul rispetto della dignità di ciascuno, possano portare la speranza al nostro mondo odierno.
Dio vi benedica!]
I extend a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, especially the groups from Sweden and the United States of America.
With prayerful good wishes that this Lent will be a time of grace and spiritual renewal for you and your families, I invoke upon all of you joy and peace in our Lord Jesus Christ.
[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua inglese, specialmente ai gruppi provenienti dalla Svezia e dagli Stati Uniti d’America.
Auguro che questa Quaresima sia per voi e per le vostre famiglie un tempo di grazia e di rinnovamento spirituale; invoco su tutti la gioia e la pace del Signore Gesù.]
Herzlich grüße ich die Pilger deutscher Sprache.
Bitten wir hier an den Gräbern der Apostel um die Gnade, das Evangelium Jesu Christi nach ihrem Beispiel kraftvoll und treu zu bezeugen – zum Heil der Menschen und zur größeren Ehre Gottes.
[Saluto di cuore i pellegrini di lingua tedesca.
Chiediamo qui, presso le tombe degli Apostoli, la grazia di testimoniare con passione e fedeltà il Vangelo di Gesù Cristo secondo il loro esempio, per la salvezza degli uomini e per la maggior gloria di Dio.]
Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española.
Dentro de unos días celebraremos la solemnidad de san José, patrono de la Iglesia universal.
Pidamos a Dios, por intercesión de este querido santo, que nos ayude a ser apóstoles fieles y valientes, abiertos al diálogo y dispuestos a afrontar los desafíos de la evangelización.
Quiero agradecer de una manera especial a todas las personas pertenecientes a los partidos políticos y referentes sociales de mi país, que se han unido para firmar una carta de saludo con motivo del décimo año del pontificado.
Gracias por este gesto.
Se me ocurre decirles —así como se han unido para firmar esta carta— qué lindo que se unan para hablar, para discutir y llevar la patria adelante.
Que Jesús los bendiga y la Virgen Santa los cuide.
Muchas gracias.
Saúdo os peregrinos de língua portuguesa, especialmente ao grupo do Colégio Senhora da Boa Nova de Estoril, e também aos que vieran do Brasil! Cada um de nós é chamado a ser Apóstolo de Jesus Cristo.
É a nossa vocação batismal.
Peçamos a Rainha dos Apóstolos que nos ajude a responder generosamente a este chamado.
Que Deus vos abençoe!
[Saluto i pellegrini di lingua portoghese, in modo speciale il gruppo del Collegio Senhora da Boa Nova di Estoril, come pure quelli provenienti dal Brasile! Ognuno di noi è chiamato a essere Apostolo di Gesù Cristo.
È la nostra vocazione battesimale.
Chiediamo alla Regina degli Apostoli che ci aiuti a rispondere generosamente a questa chiamata.
Dio vi benedica!]
أُحَيِّي المؤمِنينَ الناطِقينَ باللغَةِ العربِيَّة.
الدَّعوةُ المسيحيَّةُ هي دعوةٌ مشتركَةٌ، دعوةُ الَّذينَ قَبِلُوا سرَّ الكهنوت، ودعوةُ الأشخاصِ المكرَّسين، وكلِّ مؤمنٍ علمانيّ، رجلًا كانَ أمْ امرأة، مِن أجلِ أداءِ المُهِمَّةِ الرَّسوليَّةِ داخلِ الكنيسةِ الَّتي فيها خدَماتٌ متنوعةٌ ولكنَّ الرِّسالَةَ واحدةٌ.
باركَكُم الرّبُّ جَميعًا وحَماكُم دائِمًا مِن كُلِّ شَرّ!
[Saluto i fedeli di lingua araba.
La vocazione cristiana è una chiamata comune, chiamata di coloro che hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine, chiamata delle persone consacrate e di ogni fedele laico, uomo o donna, per svolgere il compito apostolico, in seno a una Chiesa in cui c’è diversità di ministero ma unità di missione.
Il Signore vi benedica tutti e vi protegga sempre da ogni male!]
Pozdrawiam serdecznie wszystkich Polaków.
Sobór Watykański II przypomina nam, że wszyscy ochrzczeni są powołani do bycia apostołami.
Wymaga to rzeczywistej współpracy między hierarchią i wiernymi świeckimi, bo w Kościele istnieje różnorodność posług, ale jedność misji.
Zachęcam was do przemyślenia na nowo tych relacji oraz wspólnego zaangażowania w nową ewangelizację waszej Ojczyzny.
Z serca wam błogosławię.
[Saluto cordialmente tutti i polacchi.
Il Concilio Vaticano II ci ricorda che tutti i battezzati sono chiamati ad essere apostoli.
Questo richiede una reale collaborazione tra la gerarchia e i fedeli laici, perché nella Chiesa c'è diversità di ministeri ma unità di missione.
Vi invito a ripensare questi rapporti e a impegnarvi insieme per la nuova evangelizzazione della vostra Patria.
Vi benedico di cuore.]
* * *
Sono vicino alle popolazioni del Malawi, colpite nei giorni scorsi da un fortissimo ciclone.
Prego per i defunti, i feriti, gli sfollati.
Il Signore sostenga le famiglie e le comunità più provate da questa calamità.
E penso alle suore ortodosse della Lavra di Kiev: chiedo alle parti in guerra di rispettare i luoghi religiosi.
Le suore consacrate, le persone consacrate alla preghiera – siano di qualsiasi confessione – sono a sostegno del popolo di Dio.
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana.
In particolare, saluto il Gruppo Unitalsi di Prato, con il Vescovo Mons.
Nerbini, le comunità parrocchiali di San Giovanni Incarico, Casal di Principe e Magenta, gli Scout di Latina, l’Istituto Paola Di Rosa di Lonato del Garda, l’Istituto Corrado Melone di Ladispoli, la Guardia di Finanza di L’Aquila.
Il mio pensiero va infine, come di consueto ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli.
Tutti esorto a proseguire con impegno nell’itinerario quaresimale, affidandovi alla costante protezione di Maria.
A Lei, Consolatrice degli afflitti e Regina della pace, affidiamo anche il martoriato popolo ucraino.
A tutti la mia benedizione.
Al caro Fratello
Cardinale José Tolentino de Mendonça
Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione
Presidente del Consiglio di Coordinamento tra Accademie Pontificie
In occasione della XXVI solenne Seduta Pubblica delle Accademie Pontificie, sono lieto di rivolgere a Lei, Signor Cardinale, i migliori auguri per il servizio di Presidente del Consiglio di Coordinamento tra Accademie Pontificie.
Infatti, con la nomina a Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, Ella ha assunto anche tale compito, da svolgere nello spirito e secondo l’impostazione della Costituzione Apostolica Praedicate Evangelium (cfr Art.
162).
Desidero al tempo stesso esprimere la mia gratitudine al Cardinale Gianfranco Ravasi, che per quindici anni ha presieduto il Consiglio di Coordinamento, dando notevole impulso alla vita delle Pontificie Accademie e valorizzando le Sedute Pubbliche.
Saluto, quindi, con viva riconoscenza gli illustri Presidenti e Membri presenti, come pure le distinte Autorità e quanti partecipano al tradizionale incontro, in cui, a turno, ogni Accademia presenta una tematica attinente al proprio ambito di attività.
La presente Seduta Pubblica ha visto protagonista la Pontificia Insigne Accademia di Belle Lettere e Arti dei Virtuosi al Pantheon, la più antica delle istituzioni rappresentate nel Consiglio.
Il Presidente, Prof.
Pio Baldi, e gli Accademici hanno sollecitato, per questa edizione del Premio, le proposte di quanti, a vario titolo, si occupano di architettura sacra, e dunque di progettazione, allestimento, adeguamento liturgico, ristrutturazione e riuso degli spazi destinati al culto, tenendo conto delle nuove esigenze e del linguaggio architettonico contemporaneo.
Il tema è quanto mai significativo e attuale, poiché è sempre vivo, e talvolta anche vivace, il dibattito sulle proposte di rinnovamento dell’architettura sacra, che ha l’arduo compito di creare, soprattutto nei nuovi quartieri, sia nelle periferie delle città sia nei piccoli centri urbani, spazi adeguati in cui la comunità cristiana possa celebrare degnamente la santa liturgia secondo gli insegnamenti del Concilio Vaticano II.
Sappiamo bene quanto l’ambiente celebrativo sia importante per favorire la preghiera e il senso di comunione: lo spazio, la luce, l’acustica, i colori, le immagini, i simboli, le suppellettili liturgiche costituiscono elementi fondamentali di quella realtà, di quell’evento, umano e divino allo stesso tempo, che è appunto la liturgia.
Vorrei, per questo, riferirmi alla recente Lettera Apostolica Desiderio desideravi, dedicata proprio alla formazione liturgica del Popolo di Dio, per sottolineare due aspetti che possono certamente valere anche per la problematica architettonica e artistica.
In primo luogo è essenziale ritrovare il linguaggio simbolico ed essere capaci di comprenderlo: «L’aver perso la capacità di comprendere il valore simbolico del corpo e di ogni creatura rende il linguaggio simbolico della Liturgia quasi inaccessibile all’uomo moderno.
Non si tratta, tuttavia, di rinunciare a tale linguaggio: non è possibile rinunciarvi perché è ciò che la Santissima Trinità ha scelto per raggiungerci nella carne del Verbo.
Si tratta, piuttosto, di recuperare la capacità di porre e di comprendere i simboli della Liturgia» (n.
44).
Altro aspetto essenziale è quello dell’ispirazione della creatività artistica e architettonica, che nella visione cristiana scaturisce proprio dalla vita liturgica, dall’azione dello Spirito e non dalla sola soggettività umana: «Occorre – continua la Lettera Apostolica – conoscere come lo Spirito Santo agisce in ogni celebrazione: l’arte del celebrare deve essere in sintonia con l’azione dello Spirito.
Solo così sarà libera da soggettivismi […] e da culturalismi […].
Ad un artigiano basta la tecnica; ad un artista, oltre alle conoscenze tecniche, non può mancare l’ispirazione, che è una forma positiva di possessione: l’artista, quello vero, non possiede un’arte, ne è posseduto» (nn.
49-50).
Accogliendo ora le proposte che le Pontificie Accademie hanno formulato per il Premio della presente edizione, sono lieto di assegnare, con la Medaglia d’oro del Pontificato, il Premio delle Pontificie Accademie allo Studio OPPS, per un intervento di risistemazione e adeguamento liturgico della cappella della Fondazione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena in Roma.
Con piacere assegno poi la Medaglia d’argento del Pontificato all’architetto Federica Frino, per il progetto della nuova chiesa di San Tommaso a Pontedera.
Caro Fratello, auguro a Lei e a ciascuno degli Accademici un impegno fruttuoso nei rispettivi ambiti di ricerca e di servizio e, affidandovi alla materna protezione della Vergine Maria, Tempio e Arca della Nuova Alleanza, mi raccomando alle vostre preghiere e di cuore imparto a voi e a tutti i presenti la Benedizione Apostolica.
Dal Vaticano, 14 marzo 2023
Francesco
Cari fratelli e sorelle, buongiorno, buona domenica!
Questa domenica il Vangelo ci presenta uno degli incontri più belli e affascinanti di Gesù, quello con la samaritana (cfr Gv 4,5-42).
Gesù e i discepoli fanno sosta vicino a un pozzo in Samaria.
Arriva una donna e Gesù le dice: «Dammi da bere» (v.
8).
Vorrei soffermarmi proprio su questa espressione: Dammi da bere.
La scena ci mostra Gesù assetato e stanco, che si fa trovare al pozzo dalla samaritana nell’ora più calda, a mezzogiorno, e come un mendicante chiede ristoro.
È un’immagine dell’abbassamento di Dio: Dio si abbassa in Gesù Cristo per la redenzione, viene da noi.
In Gesù, Dio si è fatto uno di noi, si è abbassato; assetato come noi, soffre la nostra stessa arsura.
Contemplando questa scena, ciascuno di noi può dire: il Signore, il Maestro «mi chiede da bere.
Ha quindi sete come me.
Ha la mia sete.
Mi sei vicino davvero, Signore! Sei legato alla mia povertà – non posso crederlo! – mi hai preso dal basso, dal più basso di me stesso, ove nessuno mi raggiunge» (P.
Mazzolari, La Samaritana, Bologna 2022, 55-56).
E tu sei venuto da me, in basso, e mi hai preso da lì, perché tu avevi, e hai, sete di me.
La sete di Gesù, infatti, non è solo fisica, esprime le arsure più profonde della nostra vita: è soprattutto sete del nostro amore.
È più di un mendicante, è un assetato del nostro amore.
Ed emergerà nel momento culminante della passione, sulla croce; lì, prima di morire, Gesù dirà: «Ho sete» (Gv 19,28).
Quella sete dell’amore che lo ha portato a scendere, ad abbassarsi, ad essere uno di noi.
Ma il Signore, che chiede da bere, è Colui che dà da bere: incontrando la samaritana le parla dell’acqua viva dello Spirito Santo, e dalla croce effonde dal suo costato trafitto sangue e acqua (cfr Gv 19,34).
Gesù, assetato d’amore, ci disseta d’amore.
E fa con noi come con la samaritana: ci viene incontro nel nostro quotidiano, condivide la nostra sete, ci promette l’acqua viva che fa zampillare in noi la vita eterna (cfr Gv 4,14).
Dammi da bere. C’è un secondo aspetto.
Queste parole non sono solo la richiesta di Gesù alla samaritana, ma un appello – a volte silenzioso – che ogni giorno si leva verso di noi e ci chiede di prenderci cura della sete altrui.
Dammi da bere ci dicono quanti – in famiglia, sul posto di lavoro, negli altri luoghi che frequentiamo – hanno sete di vicinanza, di attenzione, di ascolto; ce lo dice chi ha sete della Parola di Dio e ha bisogno di trovare nella Chiesa un’oasi dove abbeverarsi.
Dammi da bere è l’appello della nostra società, dove la fretta, la corsa al consumo e soprattutto l’indifferenza, questa cultura dell’indifferenza generano aridità e vuoto interiore.
E – non dimentichiamolo – dammi da bere è il grido di tanti fratelli e sorelle a cui manca l’acqua per vivere, mentre si continua a inquinare e deturpare la nostra casa comune; e anch’essa, sfinita e riarsa, “ha sete”.
Davanti a queste sfide, il Vangelo di oggi offre ad ognuno di noi l’acqua viva che può farci diventare fonte di ristoro per gli altri.
E allora, come la samaritana, che lasciò la sua anfora al pozzo e andò a chiamare la gente del villaggio (cfr v.
28), anche noi non penseremo più solo a placare la nostra sete, la nostra sete materiale, intellettuale o culturale, ma con la gioia di aver incontrato il Signore potremo dissetare altri: dare senso alla vita altrui, non come padroni, ma come servitori di questa Parola di Dio che ci ha assetato, che ci asseta continuamente; potremo capire la loro sete e condividere l’amore che Lui ha donato a noi.
Mi viene di fare questa domanda, a me e a voi: siamo capaci di capire la sete degli altri? La sete della gente, la sete di tanti della mia famiglia, del mio quartiere? Oggi possiamo chiederci: io ho sete di Dio, mi rendo conto che ho bisogno del suo amore come dell’acqua per vivere? E poi, io che sono assetato, mi preoccupo della sete degli altri, la sete spirituale, la sete materiale?
La Madonna interceda per noi e ci sostenga nel cammino.
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Dopo l'Angelus
Cari fratelli e sorelle!
Saluto tutti voi, romani e pellegrini di tanti Paesi, in particolare i fedeli venuti da Madrid e da Spalato.
Saluto i gruppi parrocchiali di Padova, Caerano San Marco, Bagolino, Formia e Sant’Ireneo in Roma.
Venerdì prossimo 17 marzo e sabato 18 si rinnoverà in tutta la Chiesa l’iniziativa “24 ore per il Signore”: un tempo dedicato alla preghiera di adorazione e al sacramento della Riconciliazione.
Nel pomeriggio di venerdì mi recherò in una parrocchia romana per la Celebrazione penitenziale.
Un anno fa, in tale contesto, abbiamo compiuto il solenne Atto di Consacrazione al Cuore Immacolato di Maria, invocando il dono della pace.
Il nostro affidamento non venga meno, non vacilli la speranza! Il Signore ascolta sempre le suppliche che il suo popolo gli rivolge per intercessione della Vergine Madre.
Rimaniamo uniti nella fede e nella solidarietà con i nostri fratelli che soffrono a causa della guerra; soprattutto non dimentichiamo il martoriato popolo ucraino!
A tutti auguro una buona domenica.
Per favore, non dimenticatevi di pregare per me.
Buon pranzo e arrivederci!
Cari amici, buongiorno e benvenuti!
Ringrazio la Prof.ssa Tarantola e il Rettore Anelli per le parole che mi hanno rivolto, e saluto tutti voi, membri della Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice e della rete tra Università cattoliche SACRU.
Ci incontriamo in occasione della presentazione del volume Più leadership femminile per un mondo migliore.
Il prendersi cura come motore per la nostra casa comune.
Esso tratta di un tema a me molto caro: l’importanza del prendersi cura.
È stato uno dei primi messaggi che ho voluto dare alla Chiesa fin dall’inizio del Pontificato, ricordando il modello di San Giuseppe, tenero custode del Salvatore [1].
Tenero custode che si prende cura.
Prima di soffermarmi brevemente su alcuni aspetti particolari dell’opera, vorrei sottolinearne uno più generale.
Come è stato ricordato, infatti, essa è frutto di una notevole varietà di contributi, raccolti ed elaborati attraverso la collaborazione, finora inedita, tra alcune Università cattoliche sparse nel mondo e una Fondazione vaticana interamente laicale.
Si tratta di una modalità nuova e significativa, in cui la ricchezza dei contenuti deriva dall’apporto di esperienze, competenze, modi di sentire e approcci diversi e complementari.
È un esempio di multidisciplinarità, multiculturalità e condivisione di sensibilità diverse: valori importanti non solo per un libro, ma anche per un mondo migliore.
In questa luce, vorrei sottolineare tre aspetti del prendersi cura quale apporto delle donne per una maggiore inclusività, per un maggior rispetto dell’altro e per affrontare in modo nuovo sfide nuove.
In primo luogo per una maggiore inclusività.
Nel volume si parla del problema delle discriminazioni che spesso colpiscono le donne, come altre categorie deboli della società.
Tante volte ho ricordato con forza che la diversità non deve mai sfociare nella disuguaglianza, ma piuttosto in una grata e reciproca accoglienza.
La vera sapienza, con le sue mille sfaccettature, si impara e si vive camminando insieme, e solo così diventa generatrice di pace.
Questa vostra ricerca è dunque un invito, grazie alle donne e in favore delle donne, a non discriminare ma a integrare tutti, specialmente i più fragili a livello economico, culturale, razziale, e di genere.
Nessuno deve essere escluso: questo è un principio sacro.
Infatti, il progetto di Dio Creatore è un progetto «essenzialmente inclusivo» - sempre -, che mette al centro proprio «gli abitanti delle periferie esistenziali» [2]; è un progetto che, come fa una madre, guarda ai figli come alle dita diverse della sua mano:inclusiva, sempre.
Secondo apporto: per un maggiore rispetto dell’altro.
Ogni persona va rispettata nella sua dignità e nei suoi diritti fondamentali: istruzione, lavoro, libertà di espressione, e così via.
Questo vale in modo particolare per le donne,più facilmente soggette a violenze e soprusi.
Una volta ho sentito un esperto in storia che diceva come sono nati i gioielli che portano le donne – alle donne piace portare i gioielli, ma adesso anche agli uomini –.
C’era una civiltà dove c’era l’abitudine che il marito, quando arrivava a casa, avendo tante mogli, se una non le piaceva le diceva: “Vattene, fuori!”; e quella doveva andarsene con ciò che aveva addosso, non poteva entrare a prendere le sue cose, no, “te ne vai adesso”.
È per questo – secondo quella storia – che le donne hanno incominciato ad avere oro addosso, e lì sarebbe l’inizio dei gioielli.
È una leggenda, forse, ma interessante.
Da tanto tempo la donna è il primo materiale di scarto.
È terribile questo.
Ogni persona va rispettata nei suoi diritti.
Non possiamo tacere di fronte a questa piaga del nostro tempo.
La donna è usata.
Sì, qui, in una città! Ti pagano di meno: beh, sei donna.
Poi, guai ad andare con la pancia, perché se ti vedono incinta non ti danno il lavoro; anzi, se al lavoro ti vedono che incomincia, ti mandano a casa.
È una della modalità che, oggi, nelle grandi città si usa: scartare le donne, per esempio con la maternità.
È importante vedere questa realtà, è una piaga.
Non lasciamo senza voce le donne vittime di abuso, sfruttamento, emarginazione e pressioni indebite, come queste che ho detto con il lavoro.
Facciamoci voce del loro dolore e denunciamo con forza le ingiustizie a cui sono soggette, spesso in contesti che le privano di ogni possibilità di difesa e di riscatto.
Ma diamo anche spazio alle loro azioni, naturalmente e potentemente sensibili e orientate alla tutela della vita in ogni stato, in ogni età e in ogni condizione.
E veniamo all’ultimo punto: affrontare in modo nuovo sfide nuove.
La creatività.
La specificità insostituibile del contributo femminile al bene comune è innegabile.
Lo vediamo già nella Sacra Scrittura, dove spesso sono le donne a determinare svolte importanti in momenti decisivi della storia della salvezza.
Pensiamo a Sara, a Rebecca, a Giuditta, a Susanna, a Rut, per culminare con Maria e le donne che hanno seguito Gesù fin sotto la croce, dove – notiamo – degli uomini era rimasto solo Giovanni, gli altri sono andati via tutti.
Le coraggiose erano lì: le donne.
Nella storia della Chiesa, poi, pensiamo a figure come Caterina da Siena, Giuseppina Bakhita, Edith Stein, Teresa di Calcutta e anche le donne “della porta accanto”, che sappiamo con tanta eroicità portare avanti matrimoni difficili, figli con problemi… L’eroicità delle donne.
Al di là degli stereotipi di un certo stile agiografico, sono persone impressionanti per determinazione, coraggio, fedeltà, capacità di soffrire e di trasmettere gioia, onestà, umiltà, tenacia.
Quando a Buenos Aires io prendevo il bus che andava a un settore nord-ovest, dove c’erano molte parrocchie, quel bus passava sempre vicino al carcere e c’era la coda delle persone che quel giorno andavano a visitare i carcerati: il 90% erano donne, le mamme, le mamme che mai abbandonano il figlio! Le mamme.
E questa è la forza di una donna: forza silenziosa, ma di tutti i giorni.
La nostra storia è letteralmente costellata di donne così, sia di quelle famose, sia di quelle ignote – ma non a Dio! – che mandano avanti il cammino delle famiglie, delle società e della Chiesa; a volte con mariti problematici, viziosi… i figli vanno avanti… Ce ne accorgiamo anche qui, in Vaticano, dove le donne che “lavorano sodo”, pure in ruoli di grande responsabilità, sono ormai molte, grazie a Dio.Per esempio dal momento che la vice-governatrice è una donna, le cose funzionano meglio, qui, molto meglio.
E altri posti, dove sono donne, segretarie, il Consiglio dell’Economia, per esempio, sono sei cardinali e sei laici, tutti uomini.
Adesso è stato rinnovato, due anni fa, e dei laici uno è uomo e cinque donne, e ha incominciato a funzionare, perché hanno una capacità diversa: di possibilità di agire e anche di pazienza.
Raccontava una volta un dirigente del mondo lavorativo, un operaio che era arrivato a capo del sindacato, in quel momento, con molta autorità – non aveva il papà, soltanto la mamma, poverissimi, lei faceva lavoro domestico, abitavano in una casa piccolina: il dormitorio della mamma, e poi una piccola sala per mangiare e lui dormiva in quella sala, spesso si ubriacava di notte, aveva 22-23 anni – raccontava che quando la mamma usciva il mattino a lavorare, a fare le pulizie nelle case, si fermava, lo guardava: lui era sveglio ma faceva finta di non vedere, di essere addormentato, lo guardava e se ne andava.
“E quella costanza di mia mamma, di guardarmi senza rimproverarmi e tollerarmi, un giorno mi ha cambiato il cuore, e così sono arrivato dove sono arrivato”.
Soltanto una donna sa fare questo; il papà lo avrebbe cacciato via.
Dobbiamo vedere bene il modo di agire delle donne: è una cosa grandiosa.
Siamo in un tempo di cambiamenti epocali, che richiedono risposte adeguate e convincenti.
Nel contesto dell’apporto della donna in questi processi, vorrei accennare a uno di essi: il progressivo sviluppo e utilizzo delle intelligenze artificiali e il delicato problema, ad esso collegato, del nascere di nuove e imprevedibili dinamiche di potere.
È uno scenario a noi in gran parte ancora sconosciuto, in cui i pronostici non possono che essere congetturali e approssimativi.
Ebbene, le donne in questo campo hanno tanto da dire.
Esse, infatti, sanno sintetizzare in modo unico, nel loro modo di agire, tre linguaggi: quello della mente, quello del cuore e quello delle mani.
Ma sinfonicamente.
La donna, quando è matura, pensa quello che sente e fa; sente quello che fa e pensa; fa quello che sente e pensa: è un’armonia.
Questa è la genialità della donna; e insegna a farlo agli uomini, ma è la donna ad arrivare prima a questa armonia dell’espressione, anche del pensare con i tre linguaggi.
È una sintesi propria solo dell’essere umano e che la donna incarna in maniera meravigliosa – non dico esclusiva, meravigliosa e anche primariamente – come nessuna macchina potrebbe realizzare, perché non sente battere dentro di sé il cuore di un figlio che porta in grembo, non crolla, stanca e felice, di fianco al lettino dei suoi bambini, non piange di dolore e di gioia partecipando ai dolori e alle gioie delle persone che ama.
Il marito lavora, dorme e… va avanti.
E invece queste cose una donna le fa in modo naturale, le fa in modo unico, proprio per la capacità che ha di prendersi cura.
Per questo, come scrivevano i Padri del Concilio Vaticano II, possiamo dire che «in un momento in cui l’umanità conosce una […] profonda trasformazione, le donne […] possono tanto operare per aiutarla a non decadere» [3].
Con questa convinzione, vorrei allora concludere il nostro incontro facendo mie le parole di San Giovanni Paolo II nella Mulieris dignitatem: «La Chiesa […] rende grazie per tutte le donne e per ciascuna: per le madri, le sorelle, le spose; per le donne consacrate, […] per le donne che lavorano professionalmente, […] per tutte: […] in tutta la bellezza e ricchezza della loro femminilità» [4].
Grazie, cari amici! Complimenti per questa importante ricerca e tanti auguri per il vostro lavoro.
Vi benedico.
E per favore vi chiedo di pregare per me.
Grazie.
[1] Cfr Omelia nella Messa di inizio del Ministero Petrino, 13 marzo 2013.
[2] Cfr Messaggio per la 108ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2022, 9 maggio 2022.
[3] Messaggio del Concilio alle Donne, 8 dicembre 1965.
[4] San Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem, n.
31.
Eccellenza Reverendissima,
Reverendi sacerdoti,
fratelli tutti,
Ho saputo che Misión América celebra il trentesimo anniversario della sua fondazione, per cui si avvicina a quella che la tradizione chiamava “età perfetta”, ossia l’età di Cristo al momento della sua Passione e morte.
In occasione di questa importante data avete voluto visitare la Sede di Pietro, per rinnovare il vostro impegno con la Chiesa universale, che si concretizza nel vostro lavoro a favore delle missioni in America e in Africa.
Mi congratulo con voi e vi invito a far sì che i tre anni che vi mancano per giungere all’età perfetta siano un cammino profondo in cui possiate continuare a progredire nell’identificazione con Cristo.
Con quel Cristo che ci ha detto: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi» (Gv 20, 21), di modo che apriate la Chiesa alla missione.
La Chiesa deve uscire, deve stare in strada.
A me dice molto quel testo dell’Apocalisse in cui Gesù dice “sono alla porta e busso”.
Se qualcuno mi aprirà, entrerò, starò con voi, cenerò (Ap, 3, 20).
Il problema di oggi è un po’ diverso.
Gesù continua a bussare alla porta, ma tante volte dal di dentro affinché gli apriamo la porta e lo lasciamo uscire.
Credo sia questa la sfida di oggi.
La missione.
Aprire la Chiesa alla missione.
È evidente che nel vostro lavoro avete già percorso un importante cammino.
Di fatto, proponete quattro parole che lo definiscono: visibilità, rispetto, volontariato e collaborazione.
Ci fa bene rileggerle un po’ alla luce di questo vangelo della missione.
Effettivamente nella scena appena citata Gesù vi mostra prima di tutto «le mani e il costato» (v.
20).
È interessante questa immagine, poiché in un certo senso ci riassume il “modo” in cui Gesù fu inviato dal Padre e ora invia noi, dando visibilità alla realtà del dolore, del peccato, della morte, non per condannare qualcuno — noi questo ditino lo abbiamo molto esercitato per condannare, e non è la cosa migliore —.
Non per condannare qualcuno, ma per sanare, sanare l’umanità, assumendola nella propria persona.
Allo stesso modo, nell’organizzare campagne di sensibilizzazione per far conoscere la realtà dell’America Latina, l’orizzonte non può essere altro che far vedere su di essa la mano tesa di Cristo, che nelle sue piaghe ci offre il rifugio migliore.
Il testo biblico, come voi ben sapete, continua con l’episodio di san Tommaso.
È un’altra idea attraente — al di là del valore teologico del racconto — questo rispetto per l’altro, per i suoi tempi, i suoi spazi.
Gesù è sempre attento al bisogno, ma soprattutto alla persona nella sua totalità.
Gesù rispetta le persone.
La vera uguaglianza, la vera giustizia, non è imporre un percorso unico e utilitaristico per tutti, ma essere capaci di accompagnare ognuno, nella sua libertà, nel suo bisogno, affinché tutti possano rispondere alla chiamata di Dio, al progetto che Dio ha per ciascuno di noi, secondo i suoi tempi, il suo cammino, la sua pazienza.
Saper attendere.
Inoltre Gesù in quell’occasione, secondo il Vangelo di Giovanni, effonde sui discepoli lo Spirito Santo, dando loro con quel dono la forza, l’autorità per compiere la missione affidata.
I discepoli da quel momento è come se entrassero in un altro livello, più attivo, più intraprendente, con la forza dello Spirito Santo, ovviamente.
In modo analogo, e riconoscendo sempre che solo in Dio sta la nostra forza, cercate di dare impulso, partendo dalla Chiesa in Spagna, a questa vocazione del volontariato — è una delle cose più belle che hanno le società.
Il volontariato dei laici, non è così? —.
Volontariato attivo che non è altro che sostenere con la preghiera, il lavoro, la solidarietà, coloro che, mossi dallo stesso Spirito, camminano per il mondo.
Volontariato di sostegno in qualsiasi modo.
Infine, una parola cruciale per comprendere l’immenso dono di Gesù risorto: «Pace a voi!» (v.
21), dice il Signore.
Il dono di Gesù risorto è questa pace che ci dà.
Per quanto sia impossibile cogliere tutto il significato che questo concetto racchiude, voi lo traducete con collaborazione.
Collaborare in pace, che questo serva per la crescita.
È qualcosa di bello, vuol dire che la “pace” che Dio stabilisce con noi e tra noi trasforma l’esistenza, diventa quotidianità nel camminare di ogni giorno, nel ricercare il bene, nel diffondere l’amore e la concordia.
E genera realtà nuove, creando ponti, distruggendo paure, distruggendo rancori, gli stessi che — come evidenzia il testo biblico — tenevano rinchiusi i discepoli.
Questa immagine di Gesù che invia la sua Chiesa in missione sia per voi uno stimolo, per dare visibilità alle piaghe ancora tangibili nel suo Corpo mistico; per esigere ed esigerci il rispetto di ogni uomo e il suo diritto a poter discernere il cammino che Dio traccia per lui; per lavorare e sostenere il lavoro di tutti coloro che sono stati, come noi, inviati, collaborando, con tutti gli uomini di buona volontà, alla gloria che il Signore ci ha preparato, che è che l’uomo viva, come dice sant’Ireneo (cfr.
Contro le eresie, 4, 20, 5-7).
Che Gesù vi benedica.
Grazie davvero per quello che fate.
Voi direte: “è poca cosa, è molto familiare”.
Ma le cose piccole, le cose familiari sono quelle che durano di più, mentre a volte le cose grandiose non durano.
Che la Vergine Santa vi accompagni e non perdete il buon umore per favore.
Andate avanti e pregate per me.
______________________________________________
L'Osservatore Romano, Anno CLXIII n.
59, sabato 11 marzo 2023, p.
11-12.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Vi do il benvenuto e ringrazio il Presidente per le sue parole.
Grazie per aver fatto riferimento alla dottrina sociale della Chiesa.
Sono lieto di questo incontro per poter incoraggiare il vostro impegno che, come ha detto il Presidente, vuole “costruire una società nella quale nessuno resti indietro”.
Voi lo fate operando perché sia tutelata la dignità delle persone nell’ambiente del lavoro.
Sappiamo che non è sempre così e non lo è dappertutto.
Spesso il peso di un infortunio viene caricato sulle spalle della famiglia, e questa tentazione si manifesta in diverse forme.
La recente pandemia ha aumentato il numero di denunce in Italia, in particolare nei settori della sanità e dei trasporti.
Grazie per il supplemento di cura che avete messo in campo nel periodo di massima crisi sanitaria, specialmente nei confronti delle categorie più fragili della popolazione.
Negli ultimi mesi, inoltre, si è rilevata una crescita di casi di infortunio femminile, a ricordarci che la piena tutela delle donne nei luoghi di lavoro non è ancora realizzata.
E su questo anche, mi permetto di dire, c’è uno scarto previo delle donne, per paura che rimangano incinte; è meno “sicura” una donna, perché può diventare incinta.
Questo si pensa al momento di assumerla: quando comincia a “ingrassare” se si può mandarla via è meglio.
Questa è la mentalità e dobbiamo lottare contro questo.
L’attività del vostro Istituto è doppiamente preziosa, sia sul versante formativo per prevenire gli infortuni sul lavoro, sia sul versante di accompagnamento degli infortunati e di sostegno concreto alle loro famiglie.
Il servizio a cui vi dedicate consente di non far sentire nessuno abbandonato a sé stesso.
Questo è decisivo.
Senza tutele, la società diventa sempre più schiava della cultura dello scarto.
Finisce per cedere allo sguardo utilitaristico nei confronti della persona, piuttosto che riconoscere la sua dignità.
La tremenda logica che diffonde lo scarto si riassume nella frase: “Vali se produci”.
Così conta solo chi riesce a stare nell’ingranaggio dell’attività e le vittime vengono messe da parte, considerate un peso e affidate al buon cuore delle famiglie.
Nell’Enciclica Fratelli tutti si mette in rilievo che lo «scarto si manifesta in molti modi, come nell’ossessione di ridurre i costi del lavoro, senza rendersi conto delle gravi conseguenze che ciò provoca, perché la disoccupazione che si produce ha come effetto diretto di allargare i confini della povertà» (n.
20).
Tra le conseguenze del mancato investimento sulla sicurezza nei luoghi di lavoro vi è anche l’aumento degli infortuni.
Davanti a questa mentalità abbiamo bisogno di ricordare che la vita non ha prezzo.
La salute di una persona non è scambiabile con qualche soldo in più o con l’interesse individuale di qualcuno.
E bisogna purtroppo aggiungere che un aspetto della cultura dello scarto è la tendenza a colpevolizzare le vittime.
Questo si vede sempre, è un modo di giustificare, ed è segno della povertà umana in cui rischiamo di far cadere le relazioni, se perdiamo la retta gerarchia dei valori, che ha in cima la dignità della persona umana.
Cari amici, la vostra presenza oggi consente di riflettere sul senso del lavoro e su come sia possibile, in contesti storici diversi, coniugare la parabola evangelica del buon Samaritano (cfr Lc 10,25-37).
La cura per la qualità del lavoro, come pure per i luoghi e per i trasporti, è fondamentale se si vuole promuovere la centralità della persona; quando si degrada il lavoro, si impoverisce la democrazia e si allentano i legami sociali.
È importante fare in modo che siano rispettate le normative sulla sicurezza: non possono mai essere viste come un peso o un fardello inutile.
Come sempre accade, ci rendiamo conto del valore della salute solo quando viene a mancare.
Un aiuto può venire anche dal ricorso alla tecnologia.
Ad esempio, essa ha favorito lo sviluppo del lavoro “a distanza”, che in certi casi può essere una buona soluzione, purché non isoli i lavoratori impedendo loro di sentirsi parte di una comunità.
La netta separazione tra luoghi di vita familiare e ambienti lavorativi ha avuto conseguenze negative non solo sulla famiglia, ma anche sulla cultura del lavoro.
Ha avvalorato l’idea secondo cui la famiglia sarebbe il luogo del consumo e l’impresa quello della produzione.
Questo è troppo semplicistico.
Ha fatto pensare che la cura sia fatto esclusivo della famiglia e non c’entri con il lavoro.
Ha rischiato di far crescere la mentalità secondo la quale le persone valgono per quel che producono, per cui fuori dal mondo produttivo perdono valore, identificato in modo esclusivo con il denaro.
Questo è un pensiero abituale, un pensiero direi non del tutto conscio, ma subliminale.
La vostra attività ricorda che lo stile del buon Samaritano è sempre attuale ed ha una valenza sociale.
«Coi suoi gesti il buon samaritano ha mostrato che l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri: la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro» (Fratelli tutti, 66).
Quando una persona invoca aiuto, si trova nella sofferenza e rischia di essere abbandonata sul ciglio della strada della società, è fondamentale l’impegno sollecito ed efficace di istituzioni come la vostra, che mettano in pratica i verbi della parabola evangelica: vedere, avere compassione, farsi vicini, fasciare le ferite, farsi carico.
E questo non è un bell’affare, è sempre in perdita!
Vi incoraggio a guardare in faccia tutte le forme di inabilità che si presentano.
Non solo quelle fisiche, anche quelle psicologiche, culturali e spirituali.
L’abbandono sociale ha riflessi sul modo in cui ciascuno di noi guarda e percepisce sé stesso.
“Vedere” l’altro significa anche trattare le persone nella loro unicità e singolarità, facendole uscire dalla logica dei numeri.
La persona non è un numero.
Non esiste l’“infortunato” ma il nome e il volto di chi ha subito un infortunio.
Esiste il sostantivo, non l’aggettivo: un infortunato; no, è una persona che ha subito un infortunio.
Noi siamo abituati a usare troppo gli aggettivi, siamo in una civiltà che è caduta un po’ nell’usare troppo gli aggettivi e abbiamo il rischio di perdere la cultura del sostantivo.
Questo non è un infortunato, è una persona che ha avuto un infortunio ma è una persona.
Non rinunciate alla compassione – che non è una cosa stupida da donne, da vecchiette, no, è una realtà umana molto grande –: io condivido perché ho una certa compassione, che non è lo stesso di lástima [spagnolo: pietà], ma è condividere il destino.
Si tratta di sentire nella propria carne la sofferenza dell’altro.
È il contrario dell’indifferenza – noi viviamo in una cultura dell’indifferenza –, che porta a girare lo sguardo altrove, a tirare dritto senza lasciarsi toccare interiormente.
La compassione e la tenerezza sono atteggiamenti che riflettono lo stile di Dio.
Se noi ci domandiamo qual è lo stile di Dio, tre parole lo indicano: vicinanza, Dio sempre è vicino, non si nasconde; misericordia, è misericordioso, ha compassione e per questo è misericordioso; e terzo, è tenero, ha tenerezza.
Vicinanza, misericordia compassionevole e tenerezza.
Questo è lo stile di Dio e su questa strada dobbiamo andare.
Pensiamo alla vicinanza, alla prossimità: colmare le distanze e collocarsi sullo stesso piano di fragilità condivisa.
Quanto più uno avverte di essere fragile, tanto più merita vicinanza.
In questo modo, si abbattono le barriere per trovare un comune piano di comunicazione che è la nostra umanità.
Fasciare le ferite può significare per voi dedicare tempo e allontanare ogni tentazione burocratica.
La persona che ha subito un infortunio chiede di essere accolta prima ancora di essere risarcita.
Ed ogni risarcimento economico acquista pieno valore nell’accoglienza e nella comprensione della persona.
Si tratta poi di farsi carico con la famiglia della situazione drammatica di chi è costretto ad abbandonare il lavoro a causa di un infortunio; prendersene cura in maniera integrale.
Questo richiede anche creatività, perché la persona si senta accompagnata e sostenuta per quello che è e non con falsa pietà.
Non è un’elemosina, è un atto di giustizia.
Cari amici, lasciamoci interpellare dalle ferite delle nostre sorelle e dei nostri fratelli – queste ferite ci interpellano, lasciamoci interpellare – e tracciamo sentieri di fraternità.
La nostra assicurazione è data dalla solidarietà e dalla carità, prima di tutto.
Essa non risponde solo a criteri di giustizia legale, ma è cura dell’umanità nelle sue diverse dimensioni.
Quando questo viene meno, il “si salvi chi può” si traduce rapidamente nel “tutti contro tutti” (cfr Fratelli tutti, 33).
L’indifferenza è segno di una società disperata e mediocre.
Dico disperata nel senso che non ha speranza.
Vi affido alla protezione di San Giuseppe, patrono di tutti i lavoratori.
Il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca.
E per favore, pregate per me.
Grazie!
Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!
Ringrazio per le sue parole Suor Milena Pizziolo e saluto tutti voi che partecipate al convegno formativo della Cattedra dell’Accoglienza, promossa dalle sorelle della Fraterna Domus.
E voglio anzitutto congratularmi con voi, care sorelle, per questa iniziativa, con la quale avete messo il vostro carisma, la vostra esperienza e anche le vostre strutture al servizio di quanti in diversi modi operano nel campo dell’accoglienza: un ambito ricco di valori e di spiritualità, ma anche attraversato dai drammi del nostro tempo.
Vi ringrazio per il vostro impegno; e ringrazio anche le altre associazioni, istituti, fondazioni e comunità che collaborano alla Cattedra dell’Accoglienza.
Condivido con voi alcune riflessioni facendo riferimento all’Enciclica Fratelli tutti (FT).
L’accoglienza è uno dei tratti che caratterizzano quello che ho chiamato “un mondo aperto” (cfr FT, cap.
III).
L’Enciclica è un appello a «pensare e generare un mondo aperto» (ibid.) – contro la chiusura “da sagrestia”, che a volte abbiamo noi! –; e voi rispondete a questo appello: lo fate con il lavoro che portate avanti ogni giorno, senza clamori, senza accendere riflettori, e lo fate anche con questi incontri formativi.
Infatti, per poter operare, per poter generare accoglienza, bisogna anche pensare l’accoglienza.
Ecco il grande valore di momenti come questo che state vivendo, nei quali insieme approfondite i diversi aspetti: antropologico, etico, religioso, storico, e così via.
Ma la vostra “Cattedra” non è un laboratorio asettico in cui si elaborano formule astratte: è un momento di riflessione inseparabile dal lavoro sul campo, vanno insieme.
Mentre ascoltate e studiate, voi tenete presenti i volti, le storie, i problemi concreti e li condividete con i relatori e nei gruppi di confronto.
E questo è tanto importante.
Torniamo all’Enciclica.
Ci sono due passaggi che mi pare possano essere particolarmente interessanti per voi.
Mi concentro su questi.
Il primo lo trovate nel capitolo terzo, sotto il titolo della “progressiva apertura dell’amore”.
Lo cito: «L’amore ci fa tendere verso la comunione universale.
Nessuno matura né raggiunge la propria pienezza isolandosi.
Per sua stessa dinamica, l’amore esige una progressiva apertura, maggiore capacità di accogliere gli altri, in un’avventura mai finita che fa convergere tutte le periferie verso un pieno senso di reciproca appartenenza.
Gesù ci ha detto: “Voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8)» (FT, 95).
L’accoglienza è un’espressione dell’amore, di quel dinamismo di apertura che ci spinge a porre l’attenzione sull’altro, a cercare il meglio per la sua vita (cfr FT, 91-94) e che nella sua purezza è la carità infusa da Dio.
Nella misura in cui viene permeata da questo atteggiamento di apertura e di accoglienza, una società diventa capace di integrare tutti i suoi membri, anche quelli che per vari motivi sono “stranieri esistenziali”, o “esiliati occulti”, come a volte, ad esempio, si trovano ad essere le persone con disabilità, o gli anziani (cfr FT, 97-98).
Su questo aspetto dell’amore il riferimento fondamentale è la prima Enciclica di Benedetto XVI Deus caritas est (25 dicembre 2005).
Il secondo passaggio di Fratelli tutti che vi propongo è il numero 141.
Lo cito per intero: «La vera qualità dei diversi Paesi del mondo si misura da questa capacità di pensare non solo come Paese, ma anche come famiglia umana, e questo si dimostra specialmente nei periodi critici.
I nazionalismi chiusi manifestano in definitiva questa incapacità di gratuità, l’errata persuasione di potersi sviluppare a margine della rovina altrui e che chiudendosi agli altri saranno più protetti.
L’immigrato è visto come un usurpatore che non offre nulla.
Così, si arriva a pensare ingenuamente che i poveri sono pericolosi o inutili e che i potenti sono generosi benefattori.
Solo una cultura sociale e politica che comprenda l’accoglienza gratuita potrà avere futuro».
Siamo nel capitolo quarto, intitolato «Un cuore aperto al mondo intero», là dove si parla della «gratuità che accoglie» (cfr nn.
139-141).
L’aspetto della gratuità è essenziale per generare fraternità e amicizia sociale.
Per voi sottolineo l’ultima frase: «Solo una cultura sociale e politica che comprenda l’accoglienza gratuita potrà avere futuro» (n.
141).
L’accoglienza gratuita.
Spesso si parla dell’apporto che i migranti danno o possono dare alle società che li accolgono.
Questo è vero ed è importante.
Ma il criterio fondamentale non sta nell’utilità della persona, bensì nel valore in sé che essa rappresenta.
L’altro merita di essere accolto non tanto per quello che ha, o che può avere, o che può dare, ma per quello che è.
Mi ha sempre colpito, nell’Antico Testamento, la ricorrenza – nei Profeti, nei Libri storici – delle tre persone per le quali si deve avere una speciale attenzione: la vedova, l’orfano e il migrante.
E si ripete nel Deuteronomio, nell’Esodo – nell’Esodo non tanto, ma nel Deuteronomio – nel Levitico, si ripete questo: l’attenzione, la cura per le vedove, per i migranti, per gli orfani.
È ricorrente.
Per esempio: “Se tu stai facendo il raccolto, non passare un’altra volta: quello che resta lì, che avanza lì, lascialo per la vedova, l’orfano, il migrante”.
Sempre c’è questo.
È importante riprendere questa tradizione dell’accoglienza, del modo di accogliere coloro che non hanno o che vivono una situazione difficile.
Cari fratelli e sorelle, vi lascio questi spunti di riflessione, e vi incoraggio a portare avanti il vostro cammino di formazione, per poter sempre meglio vivere l’accoglienza e promuovere una cultura dell’accoglienza.
La Madonna vi accompagni.
Di cuore vi benedico, e vi chiedo per favore di pregare per me.
Grazie!
Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!
Ringrazio per le sue parole il Cardinale Coccopalmerio e sono lieto di accogliere tutti voi, che avete dato vita a questo colloquio del Gruppo Congiunto di Lavoro per il Dialogo.
Mi è caro ricordare il Cardinale Jean-Louis Tauran, che insieme allo Sceicco Mahmoud Al-Habbash, qui presente e che saluto, ha dato vita a questo Gruppo.
Il suo zelo e la sua saggezza continuino ad ispirare il vostro impegno e le vostre iniziative.
Come tema del presente incontro avete scelto il significato spirituale di Gerusalemme, città santa per ebrei, cristiani e musulmani.
Al riguardo, desidero ricordare quanto abbiamo dichiarato nel 2019 insieme a S.M.
il Re del Marocco, cioè l’appello affinché Gerusalemme sia considerata «come patrimonio comune dell’umanità e soprattutto per i fedeli delle tre religioni monoteiste, come luogo di incontro e simbolo di coesistenza pacifica».
Nel Vangelo, Gerusalemme è il luogo in cui avvengono tanti episodi della vita di Gesù, fin dalla sua infanzia, quando fu presentato al tempio, dove poi i suoi genitori si recavano ogni anno per la festa di Pasqua.
Nella Città santa Gesù ha insegnato e compiuto diversi segni prodigiosi; soprattutto in essa ha portato a compimento la sua missione, con la passione, la morte e la risurrezione, cuore della fede cristiana.
A Gerusalemme è nata la Chiesa, quando lo Spirito Santo discese sui discepoli, raccolti in preghiera con la Vergine Maria, e li spinse ad annunciare a tutti il messaggio della salvezza.
Ma Gerusalemme ha un valore universale, contenuto già nel significato del suo nome: “Città della pace”.
E a questo proposito vorrei ricordare quel momento della vita di Gesù in cui, ormai a pochi giorni dalla sua passione, Egli giunse alla Città santa e, «quando fu vicino, alla vista della città pianse su di essa dicendo: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace!”» (Lc 19,41-42).
Gesù piange su Gerusalemme.
Non dobbiamo passare oltre troppo in fretta.
Questo pianto di Gesù merita di essere meditato, in silenzio.
Fratelli e sorelle, quanti uomini e donne, ebrei, cristiani, musulmani, hanno pianto e piangono ancora oggi per Gerusalemme! Anche per noi, a volte, pensare alla Città santa muove alle lacrime, perché è come una madre il cui cuore non trova pace a causa delle sofferenze dei suoi figli.
Questo episodio evangelico richiama il valore della compassione: la compassione di Dio per Gerusalemme, che deve diventare la nostra compassione, più forte di qualsiasi ideologia, di qualsiasi schieramento.
Più grande dev’essere sempre l’amore per la Città santa, come per una madre, che merita il rispetto e la venerazione di tutti.
Cari fratelli e sorelle, condivido con voi questi pensieri e questi sentimenti, mentre vi ringrazio della vostra visita e di cuore incoraggio il vostro lavoro di dialogo interreligioso, che è tanto importante.
L’Altissimo lo accompagni e lo renda sempre più fruttuoso.
E ricolmi ognuno di voi con le sue benedizioni.
Grazie!
Catechesi.
La passione per l’evangelizzazione: lo zelo apostolico del credente.
6.
Il Concilio Vaticano II.
1. L’evangelizzazione come servizio ecclesiale
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Nella scorsa catechesi abbiamo visto che il primo “concilio” nella storia della Chiesa - concilio, come quello del Vaticano II -, il primo concilio, fu convocato a Gerusalemme per una questione legata all’evangelizzazione, cioè l’annuncio della Buona Notizia ai non ebrei – si pensava che soltanto agli ebrei si doveva portare l’annuncio del Vangelo.
Nel XX secolo, il Concilio Ecumenico Vaticano II ha presentato la Chiesa come Popolo di Dio pellegrino nel tempo e per sua natura missionario (cfr Decr.
Ad gentes, 2).
Cosa significa questo? C’è come un ponte tra il primo e l’ultimo Concilio, nel segno dell’evangelizzazione, un ponte il cui architetto è lo Spirito Santo.
Oggi ci mettiamo in ascolto del Concilio Vaticano II, per scoprire che evangelizzare è sempre un servizio ecclesiale, mai solitario, mai isolato, mai individualistico.
L’evangelizzazione si fa sempre in ecclesia, cioè in comunità e senza fare proselitismo perché quello non è evangelizzazione.
L’evangelizzatore, infatti, trasmette sempre ciò che lui stesso o lei stessa ha ricevuto.
Lo scriveva per primo San Paolo: il vangelo che lui annunciava e che le comunità ricevevano e nel quale rimanevano salde è quello stesso che l’Apostolo aveva a sua volta ricevuto (cfr 1 Cor 15,1-3).
Si riceve la fede e si trasmette la fede.
Questo dinamismo ecclesiale di trasmissione del Messaggio è vincolante e garantisce l’autenticità dell’annuncio cristiano.
Lo stesso Paolo scrive ai Galati: «Se anche noi stessi, oppure un angelo dal cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anatema» (1,8).
È bello questo e questo viene bene a tante visioni che sono alla moda…
La dimensione ecclesiale dell’evangelizzazione costituisce perciò un criterio di verifica dello zelo apostolico.
Una verifica necessaria, perché la tentazione di procedere “in solitaria” è sempre in agguato, specialmente quando il cammino si fa impervio e sentiamo il peso dell’impegno.
Altrettanto pericolosa è la tentazione di seguire più facili vie pseudo-ecclesiali, di adottare la logica mondana dei numeri e dei sondaggi, di contare sulla forza delle nostre idee, dei programmi, delle strutture, delle “relazioni che contano”.
Questo non va, questo deve aiutare un po’ ma fondamentale è la forza che lo Spirito ti dà per annunciare la verità di Gesù Cristo, per annunciare il Vangelo.
Le altre cose sono secondarie.
Ora, fratelli e sorelle, ci poniamo più direttamente alla scuola del Concilio Vaticano II, rileggendo alcuni numeri del Decreto Ad gentes (AG), il documento sull’attività missionaria della Chiesa.
Questi testi del Vaticano II mantengono pienamente il loro valore anche nel nostro contesto complesso e plurale.
Prima di tutto, questo documento, AG, invita a considerare l’amore di Dio Padre, come una sorgente, che «per la sua immensa e misericordiosa benevolenza liberatrice ci crea e, inoltre, per grazia ci chiama a partecipare alla sua vita e alla sua gloria.
Questa è la nostra vocazione.
Egli per pura generosità ha effuso e continua a effondere la sua divina bontà, in modo che, come di tutti è il creatore, così possa essere anche “tutto in tutti” (1 Cor 15,28), procurando insieme la sua gloria e la nostra felicità» (n.
2).
Questo brano è fondamentale, perché dice che l’amore del Padre ha per destinatario ogni essere umano.
L’amore di Dio non è per un gruppetto soltanto, no… per tutti.
Quella parola mettetela bene nella testa e nel cuore: tutti, tutti, nessuno escluso, così dice il Signore.
E questo amore per ogni essere umano è un amore che raggiunge ogni uomo e donna attraverso la missione di Gesù, mediatore della salvezza e nostro redentore (cfr AG, 3), e mediante la missione dello Spirito Santo (cfr AG, 4), il quale, Spirito Santo, opera in ciascuno, sia nei battezzati sia nei non battezzati.
Lo Spirito Santo opera!
Il Concilio, inoltre, ricorda che è compito della Chiesa proseguire la missione di Cristo, il quale è stato «inviato a portare la buona novella ai poveri; per questo – prosegue il documento Ad gentes – è necessario che la Chiesa, sempre sotto l’influsso dello Spirito Santo, lo Spirito di Cristo, segua la stessa strada seguita da questi, la strada cioè della povertà, dell’obbedienza, del servizio e del sacrificio di se stesso fino alla morte, da cui poi, risorgendo, Egli uscì vincitore» (AG, 5).
Se rimane fedele a questa “strada”, la missione della Chiesa è «la manifestazione, cioè l’epifania e la realizzazione, del piano divino nel mondo e nella storia» (AG, 9).
Fratelli e sorelle, questi brevi cenni ci aiutano a comprendere anche il senso ecclesiale dello zelo apostolico di ciascun discepolo-missionario.
Lo zelo apostolico non è un entusiasmo, è un’altra cosa, è una grazia di Dio, che dobbiamo custodire.
Dobbiamo capire il senso perché nel Popolo di Dio pellegrino ed evangelizzatore non ci sono soggetti attivi e soggetti passivi.
Non ci sono quelli che predicano, quelli che annunciano il Vangelo in un modo o nell’altro, e quelli che stanno zitti.
No.
«Ciascun battezzato – dice Evangelii Gaudium - qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione» (Esort.
ap.
Evangelii gaudium, 120).
Tu sei cristiano? “Sì, ho ricevuto il Battesimo…” E tu evangelizzi? “Ma cosa significa questo…?” Se tu non evangelizzi, se tu non dai testimonianza, se tu non dai quella testimonianza del Battesimo che hai ricevuto, della fede che il Signore ti ha dato, tu non sei un buon cristiano.
In virtù del Battesimo ricevuto e della conseguente incorporazione nella Chiesa, ogni battezzato partecipa alla missione della Chiesa e, in essa, alla missione di Cristo Re, Sacerdote e Profeta.
Fratelli e sorelle, questo compito «è uno e immutabile in ogni luogo e in ogni situazione, anche se in base al variare delle circostanze non si esplica allo stesso modo» (AG, 6).
Questo ci invita a non sclerotizzarci o fossilizzarci; ci riscatta da questa inquietudine che non è di Dio.
Lo zelo missionario del credente si esprime anche come ricerca creativa di nuovi modi di annunciare e testimoniare, di nuovi modi per incontrare l’umanità ferita di cui Cristo si è fatto carico.
Insomma, di nuovi modi per rendere servizio al Vangelo e rendere servizio all’umanità.
L’evangelizzazione è un servizio.
Se una persona si dice evangelizzatore e non ha quell’atteggiamento, quel cuore di servitore, e si crede padrone, non è un evangelizzatore, no… è un poveraccio.
Risalire all’amore fontale del Padre e alle missioni del Figlio e dello Spirito Santo non ci chiude in spazi di statica tranquillità personale.
Al contrario, ci porta a riconoscere la gratuità del dono della pienezza di vita alla quale siamo chiamati, questo dono per il quale lodiamo e ringraziamo Dio.
Questo dono non è soltanto per noi, ma è per darlo agli altri.
E ci porta anche a vivere sempre più pienamente quanto ricevuto condividendolo con gli altri, con senso di responsabilità e percorrendo insieme le strade, tante volte tortuose e difficili della storia, in attesa vigilante e operosa del suo compimento.
Chiediamo al Signore questa grazia, di prendere in mano questa vocazione cristiana e rendere grazie al Signore per quello che ci ha dato, questo tesoro.
E cercare di comunicarlo agli altri.
_______________________________
Saluti
Je salue cordialement les pèlerins de langue française, particulièrement les pèlerins de Roveredo en Suisse, d’Annecy, d’Ajaccio et de Porto Vecchio.
Frères et sœurs, invoquons l’Esprit Saint, pour que ce Carême soit un temps favorable pour revitaliser notre dynamisme missionnaire afin en rendant joyeusement service à l’Évangile et à l’humanité.
Que Dieu vous bénisse !
[Saluto cordialmente i pellegrini di lingua francese, in particolare i pellegrini di Roveredo in Svizzera, di Annecy, di Ajaccio e di Porto Vecchio.
Fratelli e sorelle, invochiamo lo Spirito Santo, perché questa Quaresima sia un tempo favorevole per rivitalizzare il nostro dinamismo missionario rendendo gioiosamente servizio al Vangelo e all’umanità.
Dio vi benedica!]
I extend a warm welcome to the English-speaking pilgrims and visitors taking part in today’s Audience, especially the members of the Wilton Park Conference and the various groups from England, Denmark, Switzerland and the United States of America.
With prayerful good wishes that this Lent will be a time of grace and spiritual renewal for you and your families, I invoke upon all of you joy and peace in our Lord Jesus Christ.
[Do il benvenuto a tutti i pellegrini di lingua inglese, specialmente ai partecipanti alla Conferenza Wilton Park e ai vari gruppi provenienti da Inghilterra, Danimarca, Svizzera e Stati Uniti d’America.
Con fervidi auguri che questa Quaresima sia per voi e per le vostre famiglie un tempo di grazia e di rinnovamento spirituale, invoco su tutti la gioia e la pace del Signore Gesù.]
Liebe Brüder und Schwestern deutscher Sprache, in der Fastenzeit wollen wir der Einladung der Kirche zu Umkehr und Buße nachkommen, um der Welt das Evangelium freudig zu verkünden.
Der Herr begleite euch stets mit seiner Gnade.
[Cari fratelli e sorelle di lingua tedesca, in questo Tempo di Quaresima accogliamo l’invito della Chiesa alla conversione e alla penitenza, per poter annunciare con gioia il Vangelo al mondo.
Il Signore vi accompagni sempre con la sua grazia.]
Saludo cordialmente a los peregrinos de lengua española.
En este tiempo de cuaresma, como Pueblo de Dios que peregrina en el desierto, pidamos al Señor que nos ayude a vivir fielmente nuestra vocación de bautizados y a encontrar nuevos caminos para evangelizar.
Que Jesús los bendiga y la Virgen Santa los cuide.
Muchas gracias.
Queridos peregrinos de língua portuguesa, nomeadamente os fiéis brasileiros da paróquia Nossa Senhora Aparecida, de Serrania: a minha saudação fraterna para todos vós! Ao realizardes esta peregrinação, que Deus vos abençoe com uma grande coragem para abraçardes diariamente a vossa cruz e com um vivo anseio de santidade para iluminardes com a esperança a cruz dos outros.
Conto com as vossas orações por mim! Bom caminho de Quaresma!
[Cari pellegrini di lingua portoghese, in particolari i fedeli brasiliani della parrocchia Madonna Aparecida, di Serrania: un fraterno saluto a tutti voi! Nel compiere questo pellegrinaggio, Dio vi benedica con un coraggio grande per abbracciare quotidianamente la vostra croce e con un vivo anelito di santità per illuminare di speranza la croce degli altri.
Conto sulle vostre preghiere per me.
Buon cammino di Quaresima!]
أُحَيِّي المؤمِنينَ الناطِقينَ باللغَةِ العربِيَّة.
إنَّ عودَتَنا إلى محبَّةِ الآبِ ورسالةِ الابنِ ورسالةِ الرُّوحِ القدس تقودُنا إلى أنْ نَعتَرِفَ بعطيَّةِ مِلءِ الحياةِ المجّانيَّةِ الَّتي دُعينا إليها، والَّتي مِن أجلِها نُسَبِّحُ اللهَ ونَشكُرُه.
باركَكُم الرّبُّ جَميعًا وحَماكُم دائِمًا مِن كُلِّ شَرّ!
[Saluto i fedeli di lingua araba.
Risalire all’amore del Padre e alla missione del Figlio e dello Spirito Santo ci porta a riconoscere la gratuità del dono della pienezza di vita alla quale siamo chiamati, dono per il quale lodiamo e ringraziamo Dio.
Il Signore vi benedica tutti e vi protegga sempre da ogni male!]
Pozdrawiam serdecznie Polaków.
W okresie Wielkiego Postu, w waszych parafiach i wspólnotach duszpasterskich odbywają się rekolekcje.
Niech będą one czasem refleksji nad jakością waszego człowieczeństwa i chrześcijaństwa, i niech przyniosą owoce dobra, także na rzecz osób, które przyjmujecie w waszym kraju, szczególnie przybyłych z Ukrainy.
Z serca wam błogosławię.
[Saluto cordialmente i polacchi.
Durante la Quaresima, nelle vostre parrocchie e comunità pastorali si stanno svolgendo dei ritiri spirituali.
Possano essere un momento di riflessione sulla qualità della vostra umanità e del vostro cristianesimo per portare frutti di bene, anche in favore delle persone che accogliete nel vostro Paese, specialmente gli ucraini.
Vi benedico di cuore.]
* * *
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana.
In particolare, saluto i sacerdoti di Amalfi-Cava dei Tirreni e quelli della Basilicata, esortandoli a essere pastori secondo il Cuore di Gesù.
Saluto e ringrazio le parrocchie qui presenti, specialmente quelle di Maria Santissima Immacolata in San Giorgio Jonico e San Giovanni Bosco in Potenza.
Accolgo con gioia i ragazzi della Cresima della parrocchia Maria Assunta ad Nives in Isola di Capo Rizzuto, incoraggiandoli nel loro percorso di formazione cristiana.
Saluto altresì i Militari dell’Aeronautica di Brindisi.
Nella Giornata Internazionale della donna, penso a tutte le donne: le ringrazio per l’impegno a costruire una società più umana, mediante la loro capacità di cogliere la realtà con sguardo creativo e cuore tenero.
Questo è un privilegio solo delle donne! Una benedizione particolare per tutte le donne presenti in piazza.
E un applauso alle donne! Se lo meritano!
Il mio pensiero va infine, come di consueto ai malati, agli anziani, agli sposi novelli e ai giovani, in particolare agli studenti del Liceo di Paola e agli scolari di Monte Romano.
In questi giorni di Quaresima, camminate ancor più coraggiosamente sulle orme di Cristo, cercando di imitarne l’umiltà e la fedeltà alla volontà divina.
E, per favore, cari fratelli e sorelle, non dimentichiamo il dolore del martoriato popolo ucraino, soffre tanto… abbiamolo sempre presente nei nostri cuori e nelle nostre preghiere.
A tutti la mia benedizione.
Eccellenza,
cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Rivolgo un caloroso benvenuto a voi, sacerdoti, diaconi, seminaristi, docenti e personale del Seminario “Saint Mary”, e ringrazio il Vescovo Mons.
Malesic per le parole di saluto a nome di tutti.
Cari amici, la vostra visita qui a Roma, nel cuore della Chiesa, avviene mentre celebrate il 175° anniversario della fondazione del vostro Seminario.
L’occasione è propizia per rendere grazie a Dio per il gran numero di sacerdoti formati dalla vostra Istituzione nel corso di questi anni.
Sono anche lieto di sapere che il Seminario continua a rispondere alle esigenze attuali della Chiesa, educando e formando diaconi e ministri laici per aiutare i membri del Popolo santo di Dio nel vivere la loro chiamata ad essere discepoli missionari.
Questa chiamata assume un’importanza sempre maggiore alla luce del percorso sinodale che tutta la Chiesa ha intrapreso.
Mentre procedete sulla strada che conduce all’ordinazione e al servizio pastorale, vorrei condividere con voi alcune brevi riflessioni su tre caratteristiche del processo sinodale che sono anche essenziali per la vostra formazione come futuri sacerdoti e ministri del Vangelo.
La prima caratteristica è l’ascolto, soprattutto del Signore.
Sappiamo che da soli non possiamo fare nulla, perché «se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori» (Sal 127,1).
Questa consapevolezza ci chiama a fare spazio ogni giorno della nostra vita al Signore, a meditare la sua Parola, a trovare luce per il nostro cammino attraverso l’aiuto di un accompagnamento spirituale, e soprattutto a trascorrere del tempo con Lui in preghiera, ascoltandolo in silenzio davanti al Tabernacolo.
Non dimenticate mai l’importanza di mettervi davanti al Signore per ascoltare ciò che vuole dirvi.
Infatti, ascoltare la voce di Dio nel profondo del nostro cuore e discernere la sua volontà è indispensabile per la nostra crescita interiore, soprattutto quando ci troviamo di fronte a compiti urgenti e difficili.
A questo proposito, la vita del seminario vi offre già la possibilità di coltivare un’abitudine alla preghiera che vi servirà nel futuro ministero.
Nello stesso tempo, l’ascolto del Signore comporta anche la risposta di fede a tutto ciò che Egli ha rivelato e che la Chiesa trasmette, affinché possiate insegnare e annunciare agli altri la verità e la bellezza del Vangelo in modo autentico e gioioso.
La seconda caratteristica del percorso sinodale che vi propongo è il camminare insieme.
Il vostro tempo di formazione in seminario è un’opportunità per approfondire lo spirito di comunione fraterna, non solo tra di voi, ma anche con il vostro Vescovo, col presbiterio della Chiesa locale, con i consacrati e i fedeli laici, così come con la Chiesa universale.
Dobbiamo riconoscerci parte di un unico grande Popolo che ha ricevuto le promesse di Dio come un dono, non come un privilegio.
Allo stesso modo, la vostra vocazione è un dono da mettere al servizio dell’edificazione del corpo di Cristo (cfr Ef 4,12).
Infatti, il buon pastore cammina insieme al gregge: a volte davanti, per indicare la strada; a volte in mezzo, per incoraggiare, e a volte dietro, per accompagnare quelli che fanno più fatica.
Ricordatevi sempre che è importante camminare con il gregge, mai separati da esso.
Infine, la terza caratteristica: la testimonianza.
L’ascolto di Dio e il camminare insieme agli altri portano frutto nel diventare segni vivi di Gesù presente nel mondo.
Possano gli anni trascorsi in seminario prepararvi a donarvi completamente a Dio e al suo Popolo santo, nell’amore celibatario e con cuore indiviso.
La Chiesa ha bisogno del vostro entusiasmo, della vostra generosità e del vostro zelo per mostrare a tutti che Dio è sempre con noi, in ogni circostanza della vita.
Prego affinché, nelle varie forme di apostolato educativo e caritativo in cui siete già impegnati, siate sempre segno di una Chiesa in uscita (cfr Evangelii gaudium, 20), testimoniando e condividendo l’amore misericordioso di Gesù con tutti i membri della famiglia umana, specialmente i poveri e i bisognosi.
Cari amici, l’ascolto, il camminare insieme e la testimonianza segnano il percorso sinodale della Chiesa e anche il vostro cammino verso l’ordinazione sacerdotale.
Confido che, mentre procedete su questa strada, i vostri studi e la vostra formazione presso il Seminario “Saint Mary” vi permetteranno di crescere nell’amore fedele a Dio e nel servizio umile ai nostri fratelli e sorelle.
Vi affido alla materna intercessione della Vergine Maria, Patrona del vostro Seminario; di cuore benedico ciascuno di voi, le vostre famiglie e le vostre Chiese locali.
E vi chiedo per favore di pregare per me.
Grazie!
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
In questa seconda Domenica di Quaresima viene proclamato il Vangelo della Trasfigurazione: Gesù porta con sé, sul monte, Pietro, Giacomo e Giovanni, e si rivela a loro in tutta la sua bellezza di Figlio di Dio (cfr Mt 17,1-9).
Fermiamoci un momento su questa scena e chiediamoci: in che cosa consiste questa bellezza? Cosa vedono i discepoli? Un effetto spettacolare? No, non è questo.
Vedono la luce della santità di Dio risplendere nel volto e nelle vesti di Gesù, immagine perfetta del Padre.
Si rivela la maestà di Dio, la bellezza di Dio.
Ma Dio è Amore, e dunque i discepoli hanno visto con i loro occhi la bellezza e lo splendore dell’Amore divino incarnato in Cristo.
Hanno avuto un anticipo del paradiso! Che sorpresa per i discepoli! Avevano avuto sotto gli occhi per tanto tempo il volto dell’Amore, e non si erano mai accorti di quanto fosse bello! Solo adesso se ne rendono conto e con tanta gioia, con immensa gioia.
Gesù, in realtà, con questa esperienza li sta formando, li sta preparando a un passo ancora più importante.
Di lì a poco, infatti, dovranno saper riconoscere in Lui la stessa bellezza, quando salirà sulla croce e il suo volto sarà sfigurato.
Pietro fatica a capire: vorrebbe fermare il tempo, mettere la scena in “pausa”, stare lì e prolungare questa esperienza meravigliosa; ma Gesù non lo permette.
La sua luce, infatti, non si può ridurre a un “momento magico”! Così diventerebbe una cosa finta, artificiale, che si dissolve nella nebbia dei sentimenti passeggeri.
Al contrario, Cristo è la luce che orienta il cammino, come la colonna di fuoco per il popolo nel deserto (cfr Es 13,21).
La bellezza di Gesù non aliena i discepoli dalla realtà della vita, ma dà loro la forza di seguire Lui fino a Gerusalemme, fino alla croce.
La bellezza di Cristo non è alienante, ti porta sempre avanti, non ti fa nascondere: vai avanti!
Fratelli e sorelle, questo Vangelo traccia anche per noi una strada: ci insegna quanto è importante stare con Gesù, anche quando non è facile capire tutto quello che dice e che fa per noi.
È stando con Lui, infatti, che impariamo a riconoscere sul suo volto la bellezza luminosa dell’amore che si dona, anche quando porta i segni della croce.
Ed è alla sua scuola che impariamo a cogliere la stessa bellezza nei volti delle persone che ogni giorno camminano accanto a noi: i familiari, gli amici, i colleghi, chi nei modi più vari si prende cura di noi.
Quanti volti luminosi, quanti sorrisi, quante rughe, quante lacrime e cicatrici parlano d’amore attorno a noi! Impariamo a riconoscerli e a riempircene il cuore.
E poi partiamo, per portare anche agli altri la luce che abbiamo ricevuto, con le opere concrete dell’amore (cfr 1 Gv 3,18), tuffandoci con più generosità nelle occupazioni quotidiane, amando, servendo e perdonando con più slancio e disponibilità.
La contemplazione delle meraviglie di Dio, la contemplazione del volto di Dio, della faccia del Signore, ci deve spingere al servizio degli altri.
Possiamo chiederci: sappiamo riconoscere la luce dell’amore di Dio nella nostra vita? La riconosciamo con gioia e gratitudine nei volti delle persone che ci vogliono bene? Cerchiamo attorno a noi i segni di questa luce, che ci riempie il cuore e lo apre all’amore e al servizio? Oppure preferiamo i fuochi di paglia degli idoli, che ci alienano e ci chiudono in noi stessi? La grande luce del Signore e la luce finta, artificiale degli idoli.
Cosa preferisco io?
Maria, che ha custodito nel cuore la luce del suo Figlio, anche nel buio del Calvario, ci accompagni sempre sulla via dell’amore.
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Dopo l'Angelus
Cari fratelli e sorelle!
In questi giorni il pensiero andava spesso alle vittime dell’incidente ferroviario avvenuto in Grecia: molti erano giovani studenti.
Prego per i defunti; sono vicino ai feriti, ai familiari, la Madonna li conforti.
Esprimo il mio dolore per la tragedia avvenuta nelle acque di Cutro, presso Crotone.
Prego per le numerose vittime del naufragio, per i loro familiari e per quanti sono sopravvissuti.
Manifesto il mio apprezzamento e la mia gratitudine alla popolazione locale e alle istituzioni per la solidarietà e l’accoglienza verso questi nostri fratelli e sorelle e rinnovo a tutti il mio appello affinché non si ripetano simili tragedie.
I trafficanti di esseri umani siano fermati, non continuino a disporre della vita di tanti innocenti! I viaggi della speranza non si trasformino mai più in viaggi della morte! Le limpide acque del Mediterraneo non siano più insanguinate da tali drammatici incidenti! Che il Signore ci dia la forza di capire e di piangere.
Saluto tutti voi, romani e pellegrini dall’Italia e da vari Paesi.
In particolare, saluto la comunità ucraina di Milano, venuta in occasione del 4° centenario del martirio del vescovo San Giosafat, che diede la vita per l’unità dei cristiani.
Carissimi, lodo il vostro impegno per accogliere i vostri connazionali fuggiti dalla guerra.
Il Signore, per intercessione di San Giosafat, doni la pace al martoriato popolo ucraino.
Saluto i pellegrini della Lituania, con la comunità lituana di Roma, che celebrano San Casimiro; come pure la comunità cattolica romena di Zaragoza (Spagna) e i gruppi parrocchiali venuti da Murcia e Jerez de la Frontera (Spagna), e da Tbilisi (Georgia).
Saluto i fedeli del Burkina Faso, i cresimandi di Scandicci e di Anzio, i fedeli di Capaci, Ostia e San Mauro Abate in Roma.
Auguro a tutti voi una buona domenica.
Per favore, non dimenticatevi di pregare per me.
Buon pranzo e arrivederci!
Cari amici, buongiorno e benvenuti!
Ringrazio Padre Gianni Epifani per le sue cortesi parole.
Sono contento di conoscere tutto il gruppo di “A Sua Immagine”: oltre alla conduttrice, Signora Lorena Bianchetti, anche gli autori, i redattori, i tecnici e tutti coloro che collaborano al programma.
Ed estendo il mio saluto anche a quanti vi hanno preceduto in passato.
Come sapete, anch’io seguo spesso, almeno in parte, la vostra trasmissione: quando arrivo per l’Angelus, quasi alla fine della Messa, per rileggere, incominciate voi e fino a mezzogiorno vi ascolto.
Un po’ come una “sala d’attesa” dell’Angelus.
Questa trasmissione è nata dalla collaborazione tra la RAI e la Conferenza Episcopale Italiana.
Infatti, l’orario domenicale coincide, nell’ultima parte, con la recita dell’Angelus in Piazza San Pietro; così, prima di affacciarmi alla finestra, mi piace seguirla per alcuni minuti, e a volte ho menzionato qualche contenuto che mi ha particolarmente colpito.
Vorrei complimentarmi con chi, ventisei anni fa, ha scelto il nome per la trasmissione: “A Sua Immagine”.
Queste parole ci rimandano all’inizio della Bibbia, al Libro della Genesi, dove al culmine della creazione Dio dice: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1,26).
Siamo creati “a immagine” di Dio! Non dobbiamo abituarci a questa espressione, non dovrebbe finire di stupirci: in ciascun essere umano Dio ha acceso, in modo unico, una scintilla della sua luce.
In ogni persona, buoni e cattivi, tutti; perché è una questione di sostantivo, non di aggettivo: se è buona, è credente… no.
A immagine di Dio: questo è il sostantivo.
In questo tempo dove c’è la crisi della “sostantività” e anche l’uso troppo indebito degli aggettivi, siamo nell’epoca dell’aggettivazione.
Quando ti domandano: “Chi è questo?” – “È un ladro, è questo e quest’altro…”.
Prima l’aggettivo, poi il sostantivo.
No.
Dobbiamo riprendere il sostantivo delle cose.
E “A Sua Immagine”, la vostra vocazione, è cercare la “sostantività” delle cose e liberarci da questa cultura dell’aggettivazione.
A Sua Immagine.
Non lasciate che queste parole, per abitudine, diventino “parole al vento”, o che si riducano a una scritta sullo schermo.
Custodite lo stupore di questa Parola, per poterlo comunicare.
È importante.
Il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo ci testimonia di fatto la perdita, da parte di tante persone, proprio della coscienza di essere figli di Dio, creati “a sua immagine”.
C’è bisogno di ravvivarla.
Perché lì, in questa “immagine”, si trovano l’origine e il fondamento dell’irriducibile dignità umana; l’origine e il fondamento del nostro essere tutti fratelli, perché figli dell’unico Padre, amati e creati “a sua immagine”.
Coerentemente con questa visione, il vostro programma presenta volti e storie di uomini e donne del nostro tempo.
Lo fa, in particolare, dando voce a chi è più debole e a chi soffre; lo fa raccontando di chi vive il Vangelo nelle periferie geografiche ed esistenziali dell’Italia e del mondo; lo fa aprendo “finestre” su situazioni e luoghi che spesso sfuggono ai radar dell’opinione pubblica.
Attraverso gli ospiti e i filmati voi testimoniate, domenica dopo domenica, con garbo e senza urlare, tante esperienze di vita e di servizio.
Ci ricordate che ci sono giovani capaci di impegnarsi e di spendersi per gli altri; mostrate anche i drammi dell’umanità, ma attraverso storie che ci permettono di mantenere viva la speranza, perché lasciano intravedere la bellezza del Vangelo vissuto.
Vi incoraggio a questo, vi incoraggio a continuare su questa strada.
C’è bisogno di “globalizzare” la solidarietà e non l’indifferenza.
Oggi l’indifferenza è tanto globalizzata! Annunciare il Vangelo significa testimoniare con la nostra vita che c’è un Dio di misericordia che ci aspetta e che ci precede, che ci ha voluti e che ci ama.
E voi, con il vostro specifico lavoro, potete contribuire molto in tal senso.
E, a questo proposito, ringrazio voi e la Rai perché contribuite a dare risonanza agli appelli che, dopo l’Angelus o il Regina Caeli, rivolgo per i fratelli e le sorelle in condizioni di grave difficoltà.
Così aiutate i telespettatori a non dimenticarli, ad essere loro vicini con la preghiera, con l’aiuto concreto e con l’impegno quotidiano.
Cari amici, vi ringrazio per il vostro lavoro e per come lo fate.
Lo accompagno con la mia benedizione, e benedico tutti voi e i vostri cari.
E vi chiedo per favore di pregare per me.
Eminenza, Caro fratello!
Sono lieto di avere nuovamente l’opportunità di rivolgermi a Lei dopo il nostro incontro di due anni fa a Najaf che, come ho detto al mio rientro dall’Iraq, “a me ha fatto bene all’anima”.
È stato una pietra miliare nel cammino del dialogo interreligioso e della comprensione fra i popoli.
Conservo un grato ricordo del fraterno colloquio e della condivisione spirituale sui grandi temi della solidarietà, della pace e della difesa dei più deboli, come pure mi ha edificato il Suo impegno a favore di chi ha sofferto la persecuzione, preservando la sacralità della vita e l’importanza dell’unità del popolo iracheno.
La collaborazione e l’amicizia fra credenti di diverse religioni è indispensabile, per coltivare non solo la vicendevole stima, ma soprattutto quella concordia che contribuisce al bene dell’umanità, così come la recente storia dell’Iraq ci insegna.
Le nostre comunità, quindi, possono e devono essere un luogo privilegiato di comunione e simbolo di coesistenza pacifica, in cui si invochi il Creatore di tutti, per un futuro di unità sulla terra.
Caro fratello, siamo entrambi convinti che il rispetto della dignità e dei diritti di ogni persona e di ogni comunità, in particolare la libertà di religione, di pensiero e di espressione, sia fonte di serenità personale e sociale e di armonia tra i popoli.
Pertanto, spetta anche a noi, leader religiosi, incoraggiare coloro che hanno responsabilità nella società civile ad adoperarsi per affermare una cultura fondata sulla giustizia e sulla pace, promuovendo azioni politiche che tutelino i diritti fondamentali di ciascuno.
Infatti, è essenziale che la famiglia umana riscopra il senso della fraternità e della reciproca accoglienza, come risposta concreta alle sfide odierne.
A tal fine, uomini e donne di diverse confessioni, camminando concordi verso Dio, sono chiamati a «incontrarsi nell’enorme spazio dei valori spirituali, umani e sociali comuni, e investire ciò nella diffusione delle più alte virtù morali, sollecitate dalle religioni» (Documento sulla Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza Comune, 4 febbraio 2019).
Auspico che insieme, cristiani e musulmani, possiamo sempre essere testimoni di verità, di amore e di speranza, in un mondo segnato da numerosi conflitti e quindi bisognoso di compassione e di guarigione.
Elevo la mia preghiera a Dio, l’Onnipotente, per Lei, per la Sua comunità e per l’amata terra irachena.
Dal Vaticano, 28 febbraio 2023
FRANCESCO
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